Sì, la democrazia si esporta, ma non sempre, non ovunque
Il problema dell’Afghanistan è che preferisce la legge di Dio a quella degli uomini
Il 10 luglio qui su Huffpost ci chiedevamo con plateale scetticismo se la democrazia fosse un bene esportabile come scarpe Nike o pollo del Kentucky. Lo spunto arrivava da Kabul, dove il ritiro delle forze militari dei Volenterosi induceva a pronosticare il ritorno dei talebani nella capitale entro fine anno. È invece bastato poco più di un mese, e una decina di giorni di marcia senza sparare un colpo. Non lo si sottolinea per darci un tono: eravamo già in ritardo anche noi. Ma vale la pena sottolinearlo per restituire il giusto apprezzamento a una politica capace di cogliere la portata del disimpegno in Afghanistan fuori tempo massimo, guardando al Var le immagini disperanti dell’aeroporto e commentandole in stile rubicondo, perché prima, secondo recente e ubertosa tradizione, era troppo impegnata a spremere in quotidiane frivolezze le sue migliori energie. Questo abbiamo, perché è quanto sappiamo produrre: leadership che non sapevamo guardare oltre il domani, poi solo all’oggi e adesso dedite allo ieri. Bell’affare.
Scrivevamo, allora, che la democrazia non è un bene esportabile, riferendoci all’Afghanistan e in parte al malsicuro Iraq, perché la democrazia non è soltanto un insieme di regole ma soprattutto una disposizione mentale e culturale (Robert Conquest) nata in Europa due millenni e mezzo fa nell’Atene di Pericle, passata dalla Magna Carta, da Oliver Cromwell e poi dalla Gloriosa rivoluzione in Inghilterra, dalla Guerra d’Indipendenza americana (caso interessante di importazione della democrazia con uso di armi), dalla Rivoluzione francese, dalle svariate dichiarazioni dei diritti dell’uomo, insomma un lunghissimo, dibattutissimo, sanguinoso percorso in fondo al quale le democrazie occidentali oggi non sono una soluzione finale ma un esperimento in cammino, talvolta in evoluzione altre in involuzione, e messo a faticosa prova dagli accidenti della vita, come ora il virus.
- Kabul insegna che la democrazia non si esporta come scarpe Nike (di Mattia Feltri)
- Quel telex dal Vietnam che ha ispirato il ritiro di Biden (di G. Riotta)
Questa nostra posizione è stata assunta in forma estensiva per esempio dal segretario del Pd, Enrico Letta, in un’intervista a Repubblica nella quale afferma che la democrazia non si esporta, mai. Affermazione mirabolante e spericolatissima, e viene da sperare sia l’esito non del pensiero di Letta, ma della sintesi giornalistica. Gli è stato ricordato l’ovvio, la democrazia esportata in Italia e in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale, ma anche in Giappone, in seguito nella porzione di Corea oggi chiamata del Sud, o la democrazia esportata nell’est europeo alla fine della Guerra fredda con risultati altalenanti ma non discutibili. Però la Germania e l’Italia sono il cuore dell’Europa, sono state con Inghilterra e Francia il cuore della formulazione teorica e pratica della democrazia occidentale, e prima del fascismo la conoscevano e la praticavano. Più sorprendente è stato il risultato raggiunto in Giappone, dove nel 1945 all’imperatore Hirohito era ancora riconosciuta una natura divina, sprofondata nelle tradizioni medievali, ma il Giappone medievale non era: un paese medievale non combina quello che il Giappone combinò a Pearl Harbor, aveva un’industria avanzata, aveva edificato una monarchia costituzionale e il potere legislativo – per quanto sotto il controllo irrimediabile dell’imperatore – apparteneva a assemblee di eletti a suffragio universale maschile, quindi non era così distante dalle architetture istituzionali d’Occidente.
Interessante del Giappone è che uno come lo scrittore Yukio Mishima si trafisse da parte a parte poiché rifiutava con tutto sé stesso lo sradicamento provocato dagli atti dell’imperatore Hirohito, che si presentò al generale Douglas MacArthur per offrirsi al giudizio dei vincitori, e dalle inevitabili conseguenze, quando l’imperatore annunciò alla radio che no, pure lui era di natura umana e non divina. Mishima aveva sentimenti non distanti da quelli da cui fu animato un paio di secoli prima Joseph de Maistre, la più stupefacente e influente figura di reazionario dell’Europa scossa dal razionalismo dei Lumi. Ora invoco la clemenza degli storici e dei filosofi per la brutalità della sintesi, ma la reazione all’Illuminismo dei Voltaire e dei Rousseau produsse il romanticismo tedesco e si inaugurò la furibonda sfida, di cui si sono visti gli esiti estremi nel Novecento, fra chi pensava che gli uomini dovessero essere governati con la ragione e chi pensava che non si potesse prescindere dall’inafferrabilità del mistero metafisico e divino (de Maistre, che non era romantico, ma fu il parossismo della resistenza, arrivò a elogiare il boia, il solitario esecutore del mistero della volontà divina, con cui si mantenevano le buone costumanze senza le quali il mondo sarebbe tracollato nel caos).
Il punto, voglio dire, è che la democrazia non è altro che il passaggio della ricerca della felicità dall’aldilà all’al di qua. A un certo punto (con tutte le minchiate e gli eccessi dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese) l’uomo ha deciso di non accontentarsi di ubbidire ai mille Hirohito da cui è stato dominato in cambio di un premio ultraterreno, ma ha deciso di costruirsi la sua felicità qui e ora. Il resto è conseguenza. Si sono tagliate le teste dei re, si sono inventate le costituzioni, i diritti umani, i suffragi prima parziali poi universali, e si è ridotta la religione a questione privata. Dunque la domanda è: come si esporta la democrazia dove questo interminabile dibattito non è forse nemmeno stato abbozzato, dove la religione è questione niente affatto privata ma totalmente pubblica e, attraverso la Sharia, alla de Maistre, fa discendere da Dio le regole e le punizioni? La risposta arriva da Kabul, dove le meraviglie della democrazia si sono dissolte in dieci giorni davanti alla sciabola ordinatrice degli emissari celesti.
Resta un punto: chi crede nella democrazia, nel suo inesausto percorso verso il possibile e non verso il perfetto, chi crede nei suoi valori universali, tesi a dichiarare l’inviolabile unicità dell’essere umano, non dovrà mai rinunciare a diffonderla. Ma basta guardare in casa nostra, dove la democrazia è considerata un diritto e non una estenuante e quotidiana conquista, e dunque è allegramente maltrattata a ogni capriccio, per sapere che non è una vittoria per ovunque e nemmeno per sempre.
ARTICOLO SEGNALATO DAL FR.’. A. F.