LIBERTÀ E DIRITTI. COSA MINACCIA L’EUROPA?

LIBERTÀ E DIRITTI. COSA MINACCIA L’EUROPA?

Fabrizio Sciacca

I gravi fatti in Francia e in Belgio implicano una riflessione. Innanzitutto, fondamentale è una domanda. È possibile tradurre libertà e valori in diritti, ovvero: che ce ne facciamo di libertà e valori, se non è possibile renderli universalmente giustiziabili? Per rispondere a questa domanda, credo si debbano chiarire alcuni equivoci.

Il primo equivoco riguarda il concetto di multiculturalismo. Il multiculturalismo non è, contrariamente a quel che si sente dire, una virtù sociale o un bene sociale: è un fenomeno amorale, in sé non ha niente di etico, quindi niente di buono o cattivo. Nasce da spostamenti di popolazioni che di per sé sarebbero rimaste stanziali, se non avessero avuto l’esigenza di migliorare le proprie condizioni di vita: per arricchimento o per fame, lo scopo è quello della sopravvivenza, non quello della pace. L’impatto tra due “culture” racconta, nella storia dell’umanità, di scontri e di lotte per la natura che vuole imporsi, della vita che lotta sulla morte, e di culture resistenti, che per conservarsi preferiscono evitarsi anziché stare a distanza. Società culturalmente affini tendono a coesistere, società culturalmente non affini tendono a

evitarsi. Si spiegano così, ad esempio, le sopravvivenze di costumi irriducibilmente fondamentalisti da parte di membri di comunità islamiche in Occidente. Cittadini europei a tutti gli effetti, eppure così saldamente legati a ideologie e valori non europei da coltivare valori anti-europei, per volere, in nome di quei valori, combattere (per distruggere) i capisaldi della cultura del territorio in cui sono nati, ma di cui essi non sono figli. Il multiculturalismo sventolato come bandierina della pace e della felicità è stato in realtà il lugubre vessillo degli ultimi due decenni di ipocrisia suicida e autolesionista dell’Europa. Multiculturalismo non è sinonimo di pace né di convivenza. E a maggior ragione, nemmeno di fratellanza.

Il secondo equivoco ha a che fare col concetto di tolleranza La tolleranza ha una natura politica? Siamo costretti, storia alla mano, a rispondere di no. Il concetto di tolleranza nacque come concetto teologico, e servì alle dottrine religiose – sottolineerei dottrine religiose cristiane – per porre dei confini più che ad aprire dei varchi rispetto a ciò che era consentito accettare da dottrine religiose differenti (eterodossia) oppure rispetto a ciò che non era consentito accettare in coloro che, appartenendo alla stessa dottrina religiosa, venivano considerati eretici (cioè devianti) rispetto alla dottrina ufficiale (ortodossia).

La tolleranza ha una natura universale? Ha una natura cosmopolitica,

è un ideale condiviso da tutti gli esseri umani? Fa parte del corredo dei diritti umani universali? Se la tolleranza non ha una originaria natura politica, a maggior ragione non appare plausibile dire che essa abbia (mai avuto) una natura politica globale, e la sua adattabilità a sogni cosmopolitici è, più che mai oggi, un’attività onirica di politici in mala fede che spacciano per sogni i loro incubi. Eppure, nella storia dell’umanità c’è qualcosa che gli esseri umani hanno sempre condiviso:

l’esperienza di tecniche di sopravvivenza. Questa esperienza ha una genuina natura politica ed è, a mio avviso, la prima causa della fondazione della politica dagli antichi a oggi. L’inizio della civiltà ha un suo momento di passaggio significativo, che risale almeno a circa dieci millenni fa in Asia Minore, all’epoca dei cacciatori-raccoglitori. È certo che il momento di passaggio verso la fondazione di un ordine sociale complesso sia dato dallo sviluppo sistematico e associato di culture adattive, prima individuali o nomadi, poi stabilmente organizzate. Ed è probabile che dall’intersezione tra pratiche religiose e ricerca di risorse economiche nacque l’agricoltura, una tecnica di adattamento culturale che favorì l’organizzazione di insediamenti permanenti e la crescita economica delle prime società. Se il primo ordine normativo-sociale fu di tipo religioso, è stata la religione a introdurre l’idea di cose come norme sociali o condotte morali, e quindi l’idea della politica come tecnica di stabilizzazione di società ordinate dalla religione. La religione avrebbe quindi un primato genetico sulla politica: semplicemente, ne è la causa. Tolleriamo valori altrui diversi dai nostri? L’oggetto della tolleranza è un valore? No. Noi tolleriamo fatti, non valori. Da questa affermazione apparentemente radicale ma in realtà del tutto ovvia, discendono tre conseguenze non banali.  Tolleriamo fatti che hanno un significato importante per chi li realizza: qualcuno potrebbe anche e persino chiamare questi fatti “valori”, ma il discorso non cambierebbe, perché in realtà non sono valori, e a dire il vero non si vede come un valore – se fosse tale – potrebbe (e dovrebbe) essere oggetto di ponderazione sociale. I valori sono sempre plurali, sono pratiche sociali degne della massima importanza in una società. Dunque sono cose valide secondo la legge. Quindi, non ha senso nemmeno porsi la domanda se ciò che dovremmo essere chiamati a tollerare sia un valore. Se lo è, non sarà vietato, sarà permesso.  In buona sostanza, qui non si tratta di stabilire che cosa sia un valore, né di cercare un criterio per qualificare qualcosa come un valore, poiché tale criterio introdurrebbe una gerarchia di valori e genererebbe una lista di valori sociali praticabili, escludendone inevitabilmente altri sulla base di un metro meramente qualificativo.

Pertanto, multiculturalismo e tolleranza non sono altro che condizioni

necessitate dallo scontro per la sopravvivenza. Per rispondere alla domanda “se è possibile tradurre libertà e valori in diritti”, abbiamo visto che la politica dà una risposta approssimativa e non sufficiente in termini universalistici: se gli esseri umani non raggiungono un accordo, si scontrano. E dal momento che i principi di natura e sopravvivenza governano anche quelle che sono chiamate regole sociali e politiche, non esistono libertà e diritti che possano valere sempre e universalmente. I risultati elettorali in Europa negli ultimi dieci anni hanno fatto emergere due cose: il minimo storico di affluenza alle urne ha evidenziato il massimo scetticismo nei confronti dell’attuale politica

dell’Unione; la generale affermazione del centro-destra e dei partiti nazionalisti e regionalisti ha reso chiara l’esigenza di considerare prioritarie le urgenze della difesa europea come una difesa degli europei. La disaffezione alla tanto celebrata cittadinanza europea attesta il fatto che i diritti degli europei si devono garantire più dei diritti in Europa, e con maggiore sicurezza anziché con maggiore libertà.

Il problema dei diritti in Europa si traduce oggi più che mai nel problema della garanzia dei diritti degli europei. La crisi dei diritti in Europa riguarda soprattutto il conflitto tra il senso di appartenenza a un’identità e il senso di appartenenza a un’istituzione. Il conflitto è stato probabilmente generato, e irrobustito, da un atteggiamento dell’Unione insufficiente o miope rispetto all’obiettivo di creare una simmetria, o una equivalenza, tra il senso di appartenenza identitaria e il senso di appartenenza istituzionale.

Ciò che si è verificato è la diffusione di una crisi dell’opinione pubblica europea, che sorge e si manifesta in forme comunitarie distinte, ma convergenti nell’esprimere un rifiuto deciso di un sistema che non funziona. È un comunitarismo che può essere silenzioso, astensionista, persino qualunquista, o che porta all’espressione di un consenso mirante a strategie di sicurezza dei consociati, ovvero dei cittadini europei, più che alla tutela dei diritti di tutti i residenti. È sicuramente l’esito di un processo storico prodotto da scelte troppo impegnative, o troppo al di sopra degli strumenti e delle risorse da allocare. Ed è l’inizio di una nuova epoca di crisi, che però vuole evitare la perdita del senso di avere una cultura, dato che è solo attraverso la cultura che le realtà significative possono essere veramente sentite. La richiesta che affiora brutale, nettamente percepibile pur senza esser detta, è il non voler perdere la mia cultura: un insieme di abilità e conoscenze scientifiche

che caratterizzano la grammatica semantica degli individui legati alle loro tradizioni e alle loro forme di vita. Paradossalmente ma comprensibilmente, i diritti che si rivendicano oggi nella crisi istituzionale europea non sono i diritti universali. Non sono i diritti umani, ma qualcosa come i diritti fondamentali degli europei. A rigore, ciò che oggi gli europei rivendicano è principalmente il diritto di esistere e quindi di resistere. Gli elettori hanno capito che la politica dell’Unione ha fallito puntando sulla cittadinanza come il requisito della salvaguardia dell’identità europea. La cittadinanza formale non risolve il problema dei conflitti culturali.

Che senso ha parlare di pluralismo in questo caso? Il pluralismo è possibile solo come coesistenza di valori reciprocamente praticabili in un determinato contesto. Il problema ineludibile è che società culturalmente affini tendono a coesistere, società culturalmente non affini tendono a evitarsi. Si spiega così ad esempio la sopravvivenza culturale di costumi irriducibilmente fondamentalisti da parte di membri di comunità islamiche nel Regno Unito. Cittadini britannici a tutti gli effetti, con un lavoro rispettabile (c’è un noto caso che riguardava alcuni medici, ad esempio), perfettamente integrati nella società, parlanti la lingua locale, nati nel luogo in cui vivono: eppure così saldamente legati a ideologie e valori non europei da coltivare valori anti-europei, per volere, in nome di quei valori, combattere (per distruggere) i capisaldi della cultura del territorio in cui sono nati, ma di cui essi non sono figli. Lo stesso discorso vale per i residenti a Parigi o a Bruxelles, islamici di seconda o terza generazione ma cittadini europei a tutti gli effetti. Questo tipo di anti-cultura è l’opposto del senso della tolleranza liberale e del rispetto del pluralismo culturale, e crea di certo un senso di paralisi nella società britannica, la cui governance ha più volte preferito mettere a tacere il problema e non criticare le dottrine dei c.d. minority rights per paura di passare per ipocrita: con la conseguenza di alimentare da un lato una grievance culture, una cultura del risentimento, dall’altro un bisogno di sicurezza che spiega il dilagare del conservatorismo euroscettico. Senza dubbio, le società liberali stanno pagando l’effetto di aver accordato una sorta di acquiescenza, mascherata da tolleranza, nei confronti di ipotetici minority rights. Ciò ha prodotto una distorta dottrina capace di generare un’inversione morale in cui coloro che hanno prodotto e fomentato l’odio ingiusto sono stati sostanzialmente scusati solo in base al fatto di appartenere a un sedicente victim group, di contro a una maggioranza che invece è stata messa in guardia dal reagire perché ritenuta oppressiva della parte aggressiva della società.

Ciò è parte delle minacce che hanno determinato quell’insicurezza sociale che ha fatto vacillare le basi del senso della tradizione e dell’autenticità degli europei. In un momento in cui in Europa la criminalità di immigrazione (sarebbe meglio dire, più in generale, di motivazione culturale extraeuropea) non è più un fenomeno marginale, chi ha liberamente esposto il suo pensiero è stato accusato di intolleranza e quindi di razzismo, come nei Paesi Bassi ad esempio col caso Pim Fortuyn, che detestava essere paragonato a noti personaggi dell’estrema destra europea come il francese Jean-Marie Le Pen o l’austriaco Jörg Haider, e non si considerava neppure particolarmente di destra, o con Theo van Gogh, ucciso da un ventiseienne marocchino-olandese come un animale sacrificale: sul suo petto, piantato come un pugnale, un biglietto di minacce dirette a Ayaan Hirsi Ali, l’attrice somala protagonista del cortometraggio Submission del regista olandese. Ricordiamoci che è stato tollerato pure che, a suo tempo, l’imam di Tilburg non stringesse la mano a Rita Verdonk, il ministro per l’integrazione delle minoranze, perché donna straniera – ciò sufficiente per non avvicinarla. Intendiamoci. O ciò che è politicamente corretto sta mutando natura, o si sta sgretolando quella crosta di facciata che ne ricopriva la vaga sostanza. Lo hanno mostrato l’antieuropeismo e il senso di identificazione di molti olandesi alla morte del regista, probabilmente gli stessi che nel 2005 avrebbero, come in Francia, votato contro la proposta di costituzione per l’Unione europea. Né Pim Fortuyn né Theo Van Gogh erano seguaci del “razzismo”, se mai questa ambigua parola oggi vuol davvero dire qualcosa. L’autenticità di un mondo puro non è un obiettivo perseguibile né è un valore in gioco dal punto di vista politico. Ed è falso che Fortuyn desiderasse violenza e sterminio nei confronti dei destinatari delle sue critiche, sebbene portatori di interessi contrapposti, così come di sicuro è falso che l’arte di Theo Van Gogh propugnasse violenza e morte. Direi che entrambi, invece, sono stati vittime degli ingranaggi arrugginiti di un liberalismo ormai al collasso, manieristico e sterile. La reazione del voto europeo è la risposta      anche contro questo tipo di intolleranza interna da parte di quei moltissimi non europei che vivono in Europa e che non vogliono

cambiare la fisionomia della società europea trasformandola, ma distruggendola. Ed è anche la reazione contro l’incuria di quelle istituzioni pubbliche che hanno permesso che molti quartieri di città europee diventassero ghetti parabolici collegati con il Medio Oriente, con il Pakistan o con il Marocco. La crisi del presente attesta forse la

 crisi della stessa possibilità della politica. L’approdo a forme di esasperato populismo in reazione al violento senso di insicurezza che minaccia gli europei attesta altresì che il sogno multiculturale è finito. Ha generato un’illusione, e si è trasformato in un incubo. Il pluralismo culturale è l’unica possibilità che resta agli europei di aggrapparsi alla cultura liberale dei diritti, ma è probabilmente figlio di un’altra illusione: come prodotto dell’illuminismo, esso è parte della tradizione liberale occidentale, parte della morale giuridica europea. Esso condivide la venerabile idea    kantiana che le idee conoscibili attraverso la ragione siano universali: da ciò noi europei (lo stesso che dire ‘noi occidentali’) abbiamo fatto discendere la nostra idea che i diritti, essendo prodotti della ragione umana, siano in fondo qualcosa di universale, e quindi di estensibile. E quindi da ciò abbiamo fatto discendere l’idea che i valori occidentali siano universalizzabili.

Che questo assunto sia sommamente criticabile dovrebbe essere più che mai chiaro oggi, se si vuole accettare l’idea che la cultura dei diritti, come parte del patrimonio genetico europeo, non sia qualcosa che altri sono disposti a condividere, e che altri sono disposti a estrudere dalle città del Vecchio Continente. Le culture sono fisiologicamente auto-resistenti, e in concorrenza con altre cercano di conservarsi, di sopravvivere; per conservarsi e per sopravvivere cercano di imporsi; solo se costrette sono disposte a cedere o a negoziare. Biologi e genetisti sanno che nei primati superiori, esseri umani compresi, culturalmente

prevale la trasmissione, non l’assimilazione; il problema è quindi che non sempre accade che il semplice fatto  della promiscuità di più culture (ad esempio, culture locali e culture immigrate) in un certo territorio sia di per sé garanzia di mantenimento delle identità culturali. Il pluralismo che fonda la tolleranza, persino questa idea, è un’idea non universale; ci sono altre – molte altre – concezioni del mondo che non accettano nemmeno l’idea della semplice coesistenza, poiché non ritengono giusto condividere la struttura filosofica della simmetria su cui si fonda il concetto di tolleranza. Inevitabilmente contingente a questo concetto è un elemento strumentale alla possibilità stessa di questa pratica civile: la reciprocità come strumento negoziale del principio di tolleranza. In determinate circostanze, quindi, anche il principio di tolleranza non appare più applicabile con successo ed entra severamente in crisi, specie quando le istituzioni pubbliche non riescono a trovare una valida alternativa. Il problema non è l’intransigenza di uno strumento illuministico, poiché da un lato la democrazia liberale dice che occorre essere criticamente disponibili, dall’altro sostiene che l’unica cosa non negoziabile sia l’uso della violenza. Risulta chiaro che la crisi si diffonde quando la non negoziabilità di valori non violenti entra in conflitto con la non negoziabilità di valori fatti valere con la violenza. L’illuminismo liberaldemocratico entra completamente in crisi di fronte a ciò; e questo dilemma indecidibile provoca un collasso istituzionale. L’antieuropeismo di molti europei non è contro l’identità europea e nemmeno contro i diritti di molti individui, cittadini e residenti, che vivono in Europa. Ciò che è contrario alla stessa idea di Europa non è il concetto di identità europea, e nemmeno quello di diritti. Ciò che è contrario all’idea di Europa è quel senso di autodistruzione percepito dagli europei, quel senso di rinuncia e soprattutto di inafferrabilità della realtà attuale. Questo senso diffuso di angoscia non chiede certezza, perché il dubbio è la chiave della ragione occidentale. Questo senso diffuso chiede solo un rischiaramento di un orizzonte oscuro e sempre più opaco: chiede chiarezza per il futuro – cosa ben diversa della certezza, e perfettamente coerente con la ricerca di un cammino verso una direzione chiara. Sia chiara la direzione per tutti, ciascuno trovi la sua strada.

La società umana è ben lungi dall’esser perfetta. Per questo, il cammino verso il miglioramento umano in questo difficile mondo non è (né potrà mai essere) un compito politico, né giuridico. È un compito innanzitutto interiore, apparentemente poco normativo ma sostanzialmente molto più potente di qualsiasi sistema politico: tendere verso una dimensione migliore è un’idea umana, molto umana – eppure non troppo umana.

Come idea, essa è praticabile. Per questo tale idea, del tutto spirituale e introspettiva, ha una natura esperienziale. Pur coltivandosi necessariamente all’interno di ogni anima, l’aspirazione di ogni anima è di riuscire a essere colta da tutte quelle che a essa sono legate, da concreti sentimenti di appartenenza e di unione.

HIMAM 2/3016

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