DANTE ALIGHIERI:
TRA RELIGIONI, FEDE E AGAPE
Pawel Andrzej Gajewski
Studiare dell’opera di Dante in chiave meramente filologica non è la grandezza del Sommo Poeta nella sua totalità. La ricchezza di figure retoriche, vicende, citazioni, allegorie dipinge l’opera dantesca come un enorme quadro, scomponibile in diverse parti e dotato di numerose interpretazioni. E dunque possibile esaminare il pensiero di Dante sotto differenti punti di vista, tra cui quello teologico. Lo dimostra Nicolo Maldina nel suo volume: In pro del mondo. Dante, la predicazione e i generi della letteratura religiosa medievale (Roma, Salerno editrice 2017). L’oggetto del libro e l’influenza sull’opera dantesca, specie la Divina Commedia, della predicazione degli ordini e dei movimenti mendicanti del Due- Trecento. A tal fine, l’autore conduce sia una dettagliata analisi delle convergenze tra taluni aspetti della retorica della predicazione (similitudini, invettive, appelli al lettore ecc.) e quella del poema dantesco, sia una discussione del rapporto di alcuni aspetti fondamentali del poema (il soggetto escatologico, il profetismo).
Alla base della teologia dantesca, presente soprattutto nella Divina Commedia, vi è la visione di un universo gerarchico, suddiviso quindi in diversi livelli. Al vertice c’ Dio, il quale presiede il destino di ogni uomo, assegnandogli una posizione nella vita ultraterrena sulla base delle azioni che ha compiuto durante la sua vita terrena. Da questa analisi, per quanto superficiale, del complesso sistema universale dantesco emerge una visione teologica legata al cristianesimo derivante dalla singolare interpretazione dell’autore rispetto ai testi biblici. La maggior parte degli elementi che caratterizzano i tre mondi ultraterreni (Inferno, Purgatorio e Paradiso) hanno, infatti, origine dalla fantasia di Dante e non presentano alcun fondamento religioso specifico. Tuttavia, questa concezione filosofica della realtà può essere a sua volta interpretata in modi diversi. Dal punto di vista religioso e legata all’idea di un destino al quale ogni uomo deve inevitabilmente sottostare poiché governato da Dio. Ortodossia ed eresia In quale scenario religioso si muoveva Dante? Alla sua epoca era in atto uno scontro all’interno della Chiesa latina tra gli “spiritualisti” e la Curia, più interessata il potere temporale. Per non perdersi nei meandri filosofici e teologici del Medio Evo, basti dire che Dante si schiero dalla parte degli spiritualisti, contro le mire del re di Francia e ponendo come soluzione di tutti i mali l’Impero, ovvero la cancellazione dei confini all’interno dell’Europa.
Qual era l’idea centrale che rese il Poeta “eretico”? Anche in questo caso semplifichiamo all’estremo: Dante, probabilmente, riteneva che il sacrificio di Cristo sia stato sufficiente a redimerci da ogni peccato per cui, vivendo nella fede, saremmo andati tutti in paradiso. Tuttavia, prima di realizzare tale glorioso destino l’uomo, doveva apprendere a risolvere da solo i propri problemi quotidiani. L’umanità doveva darsi un progetto di governo tale da ricreare, in terra, il paradiso terrestre, prima di aspirare a quello celeste. Detto in altri termini: l’agire umano influenza il destino individuale e collettivo nell’aldiquà non nell’aldilà.
La Commedia lo rappresenta in modo chiaro. Nell’inferno sono mostrati tutti i mali di cui e afflitta l’umanità; si passa poi al Purgatorio, che culmina nel “paradiso terrestre”, dove – non a caso – fa il primo incontro con Beatrice che e qualcosa di più della Bice Portinari in carne ed ossa. Si tratta di un’incarnazione ideale dell’Amore-Agape (Prima lettera ai Corinzi, 13,1-13).
Solo immergendosi in questo Amore si può spiccare il volo verso il regno dei beati cui e concesso di contemplare il Creatore per l’eternità.
Il valore e il senso della Commedia superano l’ambito religioso cristiano, nel quale il poema affonda le radici e del quale intende essere testimonianza; lo stesso fine dichiaratamente didascalico dell’opera suona per tutti gli uomini un richiamo energico all’azione, all’assunzione di responsabilità, al rigore etico. Dante si professa ripetutamente credente, in un’epoca come la sua in cui era facile essere accusati di eresia (contro i dogmi); tanto Dante ha inteso mantenersi fedele alla dottrina della Chiesa, quanto si e comportato con una estrema liberta. Il fondamento della fede di Dante sono le Sacre Scritture, che egli considera rivelazione divina, quindi ispirata, in tutte le parti dell’Antico e del Nuovo Testamento; dalla Bibbia, quindi, trae gran parte delle citazioni presenti nel poema.
Lo riscontriamo già nella struttura stessa della Commedia. Il. Primo accadimento che si registra nel tempo e la creazione, alla quale segue il peccato, espressione di opposizione dell’uomo, nella sua liberta, allo stesso Dio, con la conseguente condanna all’infelicità; l’ultimo avvenimento della storia sarà la fine dell’universo creato, con il seguente giudizio, che riconoscerà le colpe e l’impegno, il bene e il male, mentre ciascuno verrà risuscitato e vivrà l’eternità nella condizione che Dio gli riserva. Tracce di inferno e paradiso sono desumibili dalla Bibbia, il purgatorio e una creazione del magistero cattolico romano, che tuttora trova ampi consensi nel culto e nella pratica dei riti di suffragio; il purgatorio, infatti, è destinato a sparire insieme a tutta la creazione dopo il giudizio universale.
Alla conclusione del regno della luce, Dante riceve una particolare folgorazione, che gli consente di contemplare Dio in tre diverse successive visioni; le immagini presenti nel testo poetico non intendono essere immagini di Dio, ma tentativi, di creare, attraverso la poesia, qualche comunicabilità di una straordinaria esperienza.
La teologia del poema e un misto di Bibbia, cattolicesimo romano, mitologia e tradizione medievale. Dove Dante attinge alla sua conoscenza della Bibbia, il poema e veritiero e perspicace. Dove attinge alle altre fonti, il poema si discosta dalla realtà e diventa narrazione pura e geniale. Per correttezza nei confronti di Dante, tuttavia, va notato che la sua opera era destinata a essere letteraria, non teologica. Essa riflette un profondo desiderio di comprendere i misteri della vita e della morte e, pertanto, ha generato nei secoli un enorme interesse.
La Bibbia e la poesia di Dante Quando si confronta la poesia con la Bibbia, emergono molte differenze, a partire dalla seconda parte dell’opera dedicata al Purgatorio. Nel poema dantesco, Virgilio guida Dante attraverso le sette terrazze del Purgatorio. Esse corrispondono ai
sette peccati mortali, con ogni terrazza che purifica un peccato particolare fino a quando il peccatore ha corretto la propria natura che gli ha fatto commettere quel determinato peccato. Dopo che il peccatore e stato “purificato” da ogni peccato, gli e permesso di procedere verso il Paradiso. A parte il fatto che il Purgatorio e una dottrina non biblica, l’idea che i peccatori hanno un’altra possibilità di salvezza dopo la morte e in diretta contraddizione con la Bibbia. Le Sacre Scritture sono chiare nell’affermare che dobbiamo “cercare il Signore mentre Egli può essere trovato” (Isaia 55,6) e che, una volta morti, siamo destinati a essere giudicati (Ebrei 9,27). Il giudizio si basa sulla nostra vita terrena, non su tutto ciò che facciamo dopo la morte.
Solo finché una persona e viva, ha sempre una possibilità di accettare Cristo e di essere salvata (Giovanni 3,16; Romani 10,9-10; Atti 16:31). Inoltre, l’idea che un peccatore può “correggere” la propria natura, prima o dopo la morte, e contraria alla rivelazione biblica, la quale dice che solo Cristo può vincere la natura del peccato e dare ai credenti una natura completamente nuova (2 Corinzi 5:17).
Nelle altre due parti della Divina Commedia, Dante immagina vari livelli di Inferno e Paradiso. Egli descrive l’Inferno in grande dettaglio, rappresentando vividamente i tormenti e le agonie; queste descrizioni, tuttavia, non provengono dalla Bibbia. Alcune sono tratte dalla tradizione islamica. “La base coranica di questo racconto e Corano 17:1 e i musulmani commemorano ogni anno ‘la notte dell’ascensione’ (lailat almiraj) il 26 del Rajab, il settimo mese del calendario islamico.
Si presume che la trama generale, e i molti piccoli dettagli della Divina Commedia di Dante, riflettano un trattamento fantasioso di questo tema islamico. Bisogna tener presente che il Corano riprende una buona parte dei personaggi e dei testi biblici sia dell’Antico che nel Nuovo Testamento e che Gesù (Isa) vi assume un ruolo di rilievo. Infatti, ai tempi di Dante, l’islam, più che una religione diversa dal cristianesimo, veniva considerato un’eresia di matrice cristiana. Tali affinità, ma anche notevoli differenze, sono state ben documentate da
Giancarlo Rinaldi nel suo breve saggio Cristianesimo e Islam. Antefatti e fatti (Edizioni GBU, Chieti 2016).
La parte finale della Commedia, relativa al Paradiso, e la visione che Dante ha del Cielo. Qui il poeta e guidato attraverso nove sfere, sempre con uno schema concentrico, ogni livello si avvicina alla presenza di Dio. Il Paradiso dantesco e rappresentato come se avesse anime in una gerarchia di sviluppo spirituale, basata, almeno in parte, sulla loro capacita umana di amare Dio. Ci sono nove livelli di persone che hanno raggiunto, con i propri sforzi, la sfera in cui ora risiedono. La Bibbia, tuttavia, e chiara quando afferma che nessuna quantità di buone opere
Può far guadagnare il Paradiso; solo la fede nel sangue versato di Cristo sulla croce può salvarci e destinarci al paradiso (Matteo 26:28; 2 Corinzi 5:21). Inoltre, l’idea che dobbiamo lavorare attraverso i regni ascendenti del Paradiso per avvicinarci a Dio e estranea alle Sacre Scritture. Il Paradiso sarà un luogo di comunione ininterrotta con Dio, dove lo serviremo e “vedremo il suo volto” (Apocalisse 22:3-4). Tutti i credenti godranno per sempre del piacere della compagnia di Dio, resa
possibile dalla fede in suo Figlio. Nella Commedia, Dante descrive il cammino della fede attraverso il quale l’uomo passa dall’insicurezza e dalla paura della selva oscura alla certezza e alla luce della fede nel Paradiso, in altri termini dall’infelicità e dal peccato alla felicita e alla beatitudine.
Questo percorso avviene attraverso l’incontro e la compagnia di figure molto concrete. Quando Dante si trova nella selva oscura e sta sprofondando la dove ≪il sol tace≫, grida ≪Miserere di me≫ di fronte ad una presenza, ombra o uomo che sia. Scoprirà poi che e l’anima di quel Virgilio da cui lui ha tratto ispirazione e da cui ha molto imparato. La Madonna e colei che si e mossa per prima, che ha visto le difficolta in cui Dante si trovava e che ha chiesto l’intervento di santa Lucia, che a sua volta è andata da Beatrice. Quest’ultima, infine, si è rivolta a Virgilio. In sintesi, quando il poeta chiede aiuto, già il Cielo si è mosso
per soccorrerlo. Nel canto secondo dell’Inferno, Dante è chiamato a riconoscere la concretezza dell’intervento di Dio nella sua vita, quando Virgilio gli spiega le ragioni per cui lui non debba temere il viaggio nei tre mondi, che rappresenta, poi, il viaggio della vita. Tutto questo, però, non è ancora sufficiente. Per poter vedere Dio, Dante dovrà sostenere una prova, un vero e proprio esame di baccelliere, quell’esame che si sosteneva nel Medioevo per conseguire la facoltà di insegnare ovunque. Il superamento dell’esame sarà, per Dante, un’ulteriore comprova del valore del suo lavoro e dell’insegnamento ivi presente. L’esame e complesso. Consta di tre parti ognuna delle quali è costituita da una quaestio che viene sottoposta al poeta. Di prassi, solo alla fine dell’argomentazione del discepolo, il maestro interveniva per integrarne eventualmente il discorso. Tanto più brevi erano gli interventi finali quanto più valido era da considerarsi l’esame sostenuto dal baccelliere.
Il primo maestro che interroga Dante e san Pietro. Il tema e la fede. Non a caso, e proprio questo apostolo a proporre il tema della fede, colui che ha camminato sulle acque sprofondando poi per il dubbio, che ha detto a Gesù che non l’avrebbe mai rinnegato, ma che l’ha, in seguito, tradito per tre volte e per altrettante volte ha attestato di amarlo. Il Maestro gli affiderò la sua chiesa. San Pietro che non è, certo, un esempio di perfezione, testimonia, pero, un indefesso amore e un’instancabile ripresa, dopo il peccato e le difficolta. Le sue lacrime sono il segno di quell’amore che lo ha condotto a seguire Gesù per capire chi fosse. Ricordiamoci che quando Gesù chiese ai suoi discepoli chi pensassero che Lui fosse, solo Pietro arrivo a dire: ≪Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente≫. San Pietro, nella sua sequela iniziata per lo stupore di fronte a quell’uomo, e giunto fino a riconoscere la straordinarietà di Gesù, la sua divinità.
Ecco, proprio lui chiede a Dante: ≪Di’, buon Cristiano, fatti manifesto:/ fede che è?≫. Prima di rispondere, Dante guarda Beatrice per trarre conforto dai suoi occhi. Rifacendosi allora a San Paolo, Dante attesta che ≪fede e sustanza di cose sperate/ e argomento de le non parventi;/ e questa pare a me sua quiditate≫. Ovvero, se da un lato ≪e il fondamento sostanziale delle nostre speranze≫, dall’altro la fede e ≪la premessa concettuale dalla quale dobbiamo dedurre ciò che non vediamo≫. Poi, Dante chiarisce meglio: ≪Le profonde cose/ che mi largiscon qui la lor parvenza,/ a li occhi di la già son si ascose,/ che l’esser loro v’è in sola credenza,/ sopra la qual si fonda l’alta spene;/ e
però di sustanza prende intenza./ E da questa credenza ci convene/ silogizzar, sanz’ avere altra vista:/ pero intenza d’argomento tene≫. San Pietro, allora, domanda al sommo poeta se possieda la fede. Dante non ha dubbi al riguardo e rassicura l’apostolo. Una professione della fede, della speranza e della carità (Agape)
Ecco che a questo punto Dante può fare la sua professione di fede: ≪Io credo in uno Dio/ solo ed etterno, che tutto ‘l ciel move,/ non moto, con amore e con disio;/ e a tal creder non ho io pur prove/ fisice e metafisice, ma dalmi/ anche la verità che quinci piove/ per Moise, per profeti e per salmi,/ per l’Evangelio e per voi che scriveste/ poi che l’ardente Spirto vi fè almi;/ e credo in tre persone etterne, e queste/ credo una essenza si una e si trina≫. La fede in un solo Dio, uno e trino, e fondata, come afferma Dante, su prove certe, non solo fisiche e metafisiche, ma anche sull’Antico e il Nuovo Testamento. In questa prospettiva emerge la categoria dell’uomo “spirituale”. Questo termine denota un progetto di vita all’insegna dell’azione dello Spirito santo (Gal. 5,16-25; Ef. 1,3; I Pt. 2,5; Col. 1,9) che si contrappone a quello dell’uomo “naturale” e “carnale” (I Cor. 2,6 – 3,1). Questa impostazione è particolarmente visibile nel pensiero dell’apostolo Paolo:
La contrapposizione tra “carnale” e “spirituale” riguarda due modi di vivere. Il primo può essere definito con l’espressione ≪come se Dio non esistesse≫. Il secondo indica, invece, un’esistenza radicalmente trasformata da Dio per mezzo del suo Spirito. Paolo fa molta attenzione a non presentare l’azione dello Spirito come un qualcosa che possa essere meritato, guadagnato o raggiunto attraverso particolari sforzi interiori. Lo Spirito è un dono di Dio e il fatto di riceverlo dipende soltanto dalla benevolenza del Donatore. Paolo non condanna, dunque,
la vita naturale ne la sapienza umana; egli afferma, piuttosto, la sostanziale differenza tra le cose che riguardano l’azione di Dio e quelle che concernono l’essere umano e il suo agire. Fermarsi solo sulle cose umane significa cogliere solo una parte dell’essere, la conoscenza della pienezza dell’esistenza può essere data soltanto da Dio. L’aggettivo “spirituale” non indica, dunque, solo un aspetto dell’esistenza umana, ma esprime la sua pienezza, l’interezza che può essere trovata solo in Dio. I termini “naturale” o “carnale” non devono essere interpretati come svalutazione della corporeità. Il loro significato e di carattere etico. Si tratta di relazioni o di azioni marcate di egoismo e di ossessività, tese a far divenire l’altro soltanto l’oggetto del proprio desiderio o lo strumento utile per raggiungere i propri obiettivi. Alla luce di questi dati biblici, la vita spirituale potrebbe essere definita come un’esistenza vissuta nel mondo e orientata verso Dio. La spiritualità veramente cristiana si contrappone, dunque, a un’esistenza fondata sul conformismo e trascinata dalle ideologie o dalle mode del momento. La trasformazione radicale dell’esistenza umana e strettamente legata al riconoscimento della gloria e della signoria di Dio, che si e manifestata in Cristo Gesù. Tale trasformazione può essere
esclusivamente frutto dell’azione di Dio che comunemente si esprime con il termine “grazia”. La grazia indica un modello della presenza e dell’azione di Dio che noi, uomini e donne di tutte le razze e di tutti i tempi, riconosciamo come manifestazione del suo amore per l’essere umano. Anche se siamo peccatori dal cuore indurito e arido, Dio e disposto a venirci incontro; spesso siamo sordi, ma Dio e disposto a farsi udire da noi; i nostri occhi sono accecati, tuttavia Dio è disposto
a far vedere la sua presenza concreta nella nostra vita; tendiamo ad allontanarci da Lui, ma Dio è disposto a venire verso di noi e a condurci a Se. L’eterna novità della grazia e appunto la sua gratuita. In un mondo che vive all’insegna del profitto è del guadagno, Dio offre all’essere umano il bene più prezioso senza pretendere nulla in cambio. Nella rete delle relazioni umane, marcate dall’egoismo e dalle passioni, spesso incontrollabili, si apre un varco, attraverso il quale Dio ci viene incontro con il suo amore puro e senza pretese.
In questa prospettiva, Dante colloca non soltanto la sua confessione
della fede, ma anche quella della speranza (cfr. Ebrei 10,23-25).
Nel linguaggio teologico cristiano si usa spesso l’espressione “confessione di fede”. La confessione di fede non è altro che una formulazione sintetica dei principali contenuti della fede; il Simbolo niceno – costantinopolitano (promulgato nel 381), ad esempio, è una confessione di fede accettata da tutta la cristianità.
Accanto alle numerose confessioni di fede, esiste la confessione della fede. Questa espressione si riferisce a un’esperienza di fede, vissuta quotidianamente. Non si tratta di una dottrina; qui il centro e la relazione con Cristo, il riferimento principale e la sua risurrezione che anticipa e annuncia la risurrezione dell’intera umanità.
L’autore della Lettera agli Ebrei menziona, invece, la confessione della speranza: “manteniamo ferma la confessione della nostra speranza”. E’ un’espressione che compare una volta soltanto in tutto il Nuovo Testamento. La sintassi del brano fa pensare a una dimensione collettiva della speranza; in altre parole, la speranza è una virtù collettiva. La fede nasce da un incontro individuale con Dio, la speranza fa nascere la comunità di credenti. Il testo colloca, inoltre, la confessione della speranza nel mondo e nella società in cui vivono i suoi destinatari, di allora e di oggi. La fede è radicata nell’aldilà, la speranza mette la persona credente in condizione di cercare un mondo migliore, un mondo trasformato dalla Grazia già ora e qui.
Nel classico elenco delle cosiddette virtù teologali figura anche l’amore (agape). Tutte e tre, fede, speranza e amore sono strettamente collegate.
Ricordiamo la celebre frase di Paolo dalla già citata Prima Lettera ai Corinzi 13, 13:
Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse e l’amore-agape. L’autore dell’Epistola agli Ebrei riprende l’argomento dell’amore: facciamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci all’amore e alle buone opere. Nella triade teologica è proprio l’amore che rende credibile la fede e visibile la speranza.
Ritorna in questa prospettiva l’esortazione alla comunione che l’autore rivolge ai destinatari del suo scritto. E’ un forte invito a confessare la speranza, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda. Questo testo può essere letto in una prospettiva dantesca. La Divina Commedia può essere vista come “racconto di futuro”. Essa annuncia una realtà che va oltre il presente, pur essendo in esso fortemente radicata. La confessione della speranza che essa contiene non e soltanto legata alla contingenza. Essa
va oltre, per gettare l’ancora in quel frangente della storia che il Nuovo Testamento chiama il “giorno”. E il giorno della manifestazione dell’amor “che move il sole e l’altre stelle”. In quel giorno sarà rivelata la piena verità su di noi, sulle nostre azioni e sul senso ultimo della storia.
Aldo Cazzullo nel suo saggio A riveder le stelle (Dante il poeta che inventò l’Italia, Milano 2020, p. 277) cita un’opera di Bonaventura da Bagnoregio intitolato Itinerarium mentis in Deum, il viaggio della mente verso Dio. Questo viaggio è compiuto: “non è stato un sogno, ne una visione; e tutto vero o comunque credibile”.
HIRAM 2021- 2