L PERCORSO SIMBOLICO DEL “PARADISO”

IL PERCORSO SIMBOLICO DEL “PARADISO”

Andrea Matucci

Il percorso ascensionale di Dante nella terza cantica e costantemente accompagnato da una contraddizione evidente, mai sottaciuta ne tanto meno risolta. Il Poeta inizia infatti ammettendo che le sue parole saranno insufficienti a comunicare al lettore l’esperienza vissuta nel Paradiso, a cominciare da quel “trasumanar significar / per verba non si poria” (I, 70-71). Il principio di tale ineffabilità era stato correttamente esposto già nei primissimi versi del primo canto:

perché appressando se al suo disire,

nostro intelletto si profonda tanto,

che dietro la memoria non può ire.

(Par. I, 7-9)

Ma a questi versi, che potrebbero preludere a un rassegnato silenzio, subito si oppongono i seguenti, con la forza dell’avverbio iniziale e, soprattutto, di una prima persona “io / mia / mio” che vuole con forza distinguersi dal “nostro” scritto poco prima:

Veramente quant’io del regno santo

Ne la mia mente potei far tesoro,

sarà ora materia del mio canto.

(Par. I, 10-12)

L’esistenza stessa, dunque, di un racconto del Paradiso e affidata, fin dall’inizio, a questo stretto spazio ritagliato all’interno di una possibilità allo stesso tempo genericamente negata e singolarmente affermata. Così da un lato, da qui in poi, più volte Dante soffre l’insufficienza della “memoria”, e afferma il limite delle sue parole, fino a fare del tema dell’ineffabilità, già un tempo esposto nella Vita Nuova (“intender non la può chi non la prova”), uno dei temi portanti della terza cantica, e di conseguenza un legame quasi necessario con la sua opera giovanile. Nel canto X, ad esempio, si trapassa nel quarto cielo, quello del Sole, e nel momento in cui si accede a una sfera che l’occhio umano non può abitualmente vedere, subito e necessario riaffermare questa difficolta descrittiva; la luce interna all’astro può essere affidata solo a una esclamazione di meraviglia, e al desiderio e alla fede dei lettori, anche se di nuovo la difficolta e immediatamente superata dal tranquillo fluire del racconto:

Quant’esser convenia da se lucente

Quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi

Non per color, ma per lume parvente!

Perch’io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,

si nol direi che mai s’imaginasse;

ma creder puossi e di veder si brami.

E se le fantasie nostre son basse

A tanta altezza, non e maraviglia;

che sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.

Tal era quivi la quarta famiglia … (X, 40-49)

In seguito, quasi ad ogni passaggio di cielo il “riso” di Beatrice entra tra “quelle vedute che non seguir la mente” (XIV, 81), e quasi in ogni cielo si odono “canti / da mia memoria labili e caduci” (XX, 12), fino ovviamente alle estreme visioni, quando nell’ultimo canto per tre volte Dante accusa il cedimento della memoria, l’inadeguatezza della sua “favella”: “oh quanto e corto il dire e come fioco” (XXXIII, 121). Ma se l’ultima visione rimane solo come la “passione impressa” di un sogno, e si scioglie e disperde come la neve o come le foglie su cui erano impressi i responsi della Sibilla, d’altro canto i verbi affermano (“e’ mi ricorda”, “nel suo profondo vidi”, “veder voleva”), e la “mente mia, tutta sospesa, / mirava fissa, immobile e attenta, / e sempre di mirar faceasi accesa.” (XXXIII, 97- 99). Tanto che, alla fine, il Poeta ha compiuto il suo percorso: ci ha dato immagini potentissime, indimenticabili, e sicuramente l’ultimo pensiero di chi giunge al verso finale e chiude il libro e che la tanto insistita ineffabilità  gli abbia tolto o anche solo parzialmente nascosto qualcosa di quella che rimane una delle più meravigliose invenzioni (“l’alta fantasia”) della letteratura. Come e possibile? E’ possibile perché, paradossalmente, la contraddizione che accompagna tutta la trama del viaggio paradisiaco non si limita a quel dire che non si può dire mentre si dice e si continua a farlo. La contraddizione più vera e che la cantica maggiormente pervasa da questa tematica dell’ineffabilità e anche quella in cui Dante rivendica con più forza la missione profetica della sua poesia, e la sua costante “cura” per “quella materia ond’io son fatto scriba” (X, 27). Tutti ricordiamo le parole dell’avo Cacciaguida, nel canto XVII:

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov’è la rogna.

Che se la voce tua sarà molesta

Nel primo gusto, vital nodrimento

Lascerà poi, quando sarà digesta.

(Par. XVII, 127-132)

Una vera e propria investitura, che certo allude a riferimenti personali e ad argomentazioni storiche e civili, e che riguarda tutto il poema, ma Dante non poteva farsela attribuire se non alla fine del suo percorso, e quindi in un ambiente di alta spiritualità  dove se da un lato la “vision” e costantemente superiore alle possibilità di essere normalmente riferita, dall’altro il “vital nodrimento” non si limita, e ovvio, all’ammaestramento politico. Tanto più che a questa investitura

ne segue, come ben sappiamo, un’altra, ben più importante per il “poema sacro”, quando nel canto XXVII San Pietro stesso, alla fine del triplice esame di Dante sulle tre virtù teologali, affida al Poeta la medesima missione che gli aveva affidato Cacciaguida, ma questa volta esplicitamente dal punto di vista profetico e quasi di nuova rivelazione:

e tu, figliol, che per lo mortal pondo

ancor giù tornerai, apri la bocca,

e non asconder quel ch’io non ascondo.

(Par. XVII, 64-66)

Alla necessaria e ricorrente affermazione di ineffabilità , e di pochezza della lingua e della memoria a riferire ciò che e stato visto, si affianca dunque, proprio nel Paradiso, la contraria esigenza di “manifestare”, di non nascondere, e la contraddizione diventa strutturale proprio perché Dante non la dissimula, anzi la proclama. Questo serve, a mio parere, a superare la maggiore difficolta che il terzo viaggio gli causava: il rischio di allontanare irrimediabilmente la visione degli occhi da quella dell’intelletto. Non ci sono, nel Paradiso, ne ci possono essere, rocce o fiumi, fuoco, ghiaccio, spade o nebbie, non ci sono cioè elementi che, essendo immediatamente rapportabili a elementi naturali e quotidiani, esplicano in se stessi la loro funzione e il loro significato. L’Inferno e il Purgatorio, pur essendo regni oltremondani, sono comunque nient’altro che una voragine e una montagna, quasi come elementi aggiunti di una terra che il lettore ben conosce. Ma quando ci si innalza dal Paradiso terrestre per attraversare i cieli di Platone e Tolomeo, niente potrà essere più  nemmeno lontanamente rapportabile alla comune esperienza: ecco dunque che se Dante insiste così tanto da un lato sulla ineffabilità delle immagini paradisiache, e dall’altro sul suo assolutamente necessario compito di manifestarle, lo fa per aprire all’interno di queste due affermazioni una via terza, l’unica che può fargli mantenere nel lettore l’abituale rapporto fra visione degli occhi e visione della mente. E non può essere, questa via terza, altro se non una via simbolica.

Dopo l’invocazione al dio Apollo del primo canto, che richiama e supera quella alle “sante Muse” dei primi versi del Purgatorio, qui e necessario anche, all’inizio del secondo canto, un preciso avvertimento ai lettori:

O voi che siete in piccioletta barca,

desiderosi d’ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, che forse,

perdendo me, rimarreste smarriti

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;

Minerva spira, e conducemi Appollo,

e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Voialtri pochi che drizzaste il collo

per tempo al pan de li angeli, del quale

vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l’alto sale

vostro navigio, servando mio solco

dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Non è, come si vede, un invito tranquillizzante, anzi, anticipando di qualche secolo il famoso appello di Manzoni ai suoi “venticinque lettori”, altro non fa che chiedere un aumento dell’attenzione, mettendo in guardia dai pericoli, cioè dalle estreme difficolta, del futuro viaggio. Non tutti infatti possono essere sicuri che non perderanno di vista quella stessa “navicella” che nel secondo verso del Purgatorio tranquillamente si avviava: qui lo saranno solo quei pochi, quegli happy few, verrebbe da dire, che da tempo hanno alzato la bocca a cibarsi del “pan de li angeli”. All’inizio del Convivio Dante usa la stessa espressione per indicare gli argomenti che tratterà, e poiché l’immagine viene dai Salmi e dal Libro della Sapienza, il suo significato e chiaro, e invera definitivamente quello che era stato il passaggio del poema dal V al VI canto dell’Inferno: non si cerchino qui bei racconti e belle emozioni, in un coinvolgimento irrazionale, ma, al contrario, ci si attrezzi a coltivare la via della conoscenza e della sapienza. Cosi la consueta collocazione astronomica del tempo equinoziale già stabilita, come altre volte, nel primo canto (I, 39) viene nel Paradiso eccezionalmente e lungamente ripetuta all’inizio del canto X, quello in cui si entra nel cielo del Sole e degli spiriti sapienti:

Leva dunque, lettore, a l’alte rote

meco la vista, dritto a quella parte

dove l’un moto e l’altro si percuote;

e li comincia a vagheggiar ne l’arte

di quel maestro che dentro a se l’ama,

tanto che mai da lei l’occhio non parte.

Vedi come da indi si dirama

l’oblico cerchio che i pianeti porta,

per sodisfare al mondo che li chiama.

Che se la strada lor non fosse torta,

molta virtù nel ciel sarebbe in vano,

e quasi ogne potenza qua giù morta;

e se dal dritto più o men lontano

fosse ‘l partire, assai sarebbe manco

e giù e su de l’ordine mondano.

In questi versi il disegno del grande incrocio fra equatore celeste ed eclittica si fa particolarmente preciso, e richiama  “l’arte di quel maestro” che ha perfettamente calcolato l’inclinazione di un cerchio sull’altro: se la “strada” dei due cerchi “non fosse torta”, e se tale angolo non fosse esattamente della sua misura, la vita come la conosciamo non sarebbe possibile. Questa non e la solita perifrasi astronomica con cui Dante indica abitualmente nel poema la stagione e l’ora in cui si svolge l’azione; qui la presenza evidente di una mente ordinatrice fa pensare a quella del Demiurgo che, nel Timeo di Platone, da all’universo la stessa configurazione di due  immensi cerchi incrociati, e l’immagine astronomica tende a superare il suo significato oggettivo, per assumere valore simbolico, anche perché ai versi sopra riportati seguono immediatamente questi:

Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco,

dietro pensando a ciò che si preliba,

s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Messo t’ ho innanzi: omai per te ti ciba;

che a se torce tutta la mia cura

quella materia ond’io son fatto scriba.

Con un paradosso non meno potente di quello del secondo canto, il lettore, che prima veniva quasi intimorito, adesso si invita a “rimanere” sul suo “banco”, a concentrarsi, a pensare, e poi a “cibarsi” da solo: il Poeta gli ha messo “innanzi” un’immagine e adesso proseguirà verso altra “materia”, ma il lettore aduso al “pan de li angeli” già si attende “ciò che si preliba”. Il simbolo, in quanto tramite fra la mente e la verità, ha già iniziato il suo cammino in questo ambiente in cui nessun altro oggetto reale può   essere mostrato, e non stupisce ritrovarlo poche terzine dopo, nel momento in cui appaiono gli spiriti sapienti:

Io vidi più folgor vivi e vincenti

far di noi centro e di se far corona,

più dolci in voce che in vista lucenti

(Par. X, 64-66)

Per due volte, raddoppiando cosi il cerchio, le anime dei sapienti fanno “ghirlanda” intorno a Dante e Beatrice, e l’immagine di grande portata simbolica del cerchio con un punto al centro campeggia sulla scena per ben quattro canti, fino al bellissimo verso iniziale del canto XIV, “Dal centro al cerchio e si dal cerchio al centro”, dove, nel momento in cui abbandona la sua idea, Dante ribadisce la sua funzione: ora dobbiamo di nuovo “rimanere” sul nostro “banco” a pensare, perché ciò che abbiamo visto non era solo un gruppo di personaggi disposto intorno al narratore, era in realtà, nell’unione di due grandezze, il punto e il cerchio, non misurabili, uno dei più antichi simboli esoterici di raffigurazione dell’universo, e del rapporto fra microcosmo e macrocosmo. Pochissimo dopo, nello stesso canto XIV, il simbolo si ripete perfezionandosi:

Come distinta da minori e maggi

lumi biancheggia tra ‘ poli del mondo

Galassia si, che fa dubbiar ben saggi;

si costellati facean nel profondo

Marte quei raggi il venerabil segno

che fan giunture di quadranti in tondo.

(Par. XIV, 97-102)

Nel cielo di Marte e degli spiriti combattenti appare improvvisamente una croce greca inscritta in un cerchio: e evidentemente l’evoluzione del simbolo precedente, in cui il punto centrale si estende nelle due linee perpendicolari, come la materia e lo spirito, oppure come lo spazio e il tempo si rivelano e si estendono nell’universo. Ed e piuttosto sconvolgente che in questa croce, che è quella dei cavalieri Templari, e non quella della più  ovvia tradizione cristiana, appaia Cristo, per tre volte in rima nei versi successivi, non come figura, ma come “lampo” e “baleno”. Di nuovo il simbolo assume su di se tutta la pregnanza del testo, e annulla la distanza fra occhio fisico e occhio della mente: se il dialogo fra centro e cerchio e il dialogo della sapienza umana con se stessa e col mondo, un punto geometrico diventato incrocio fra materia e spirito, rimanendo comunque al centro del creato, e forse la raffigurazione più completa possibile di un mistero che rimane tale, quello dell’incarnazione.

La via terza, fra ineffabilità e missione profetica, e tracciata, e se in seguito i simboli si faranno più semplici e “araldici”, come l’aquila, la rosa, il giglio, Dante continua a usare il loro linguaggio. L’aquila che appare nel cielo dei giusti e per esempio ben diversa dall’insegna romana portata nel VI canto dalle mani di Giustiniano, perché ne e in qualche modo l’idea platonica, assoluta:

la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi

rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge li, non ha chi ‘l guidi;

ma esso guida, e da lui si rammenta

quella virtù ch’e forma per li nidi.

(Par. XVIII, 107-111)

Non è dunque l’animale reale assurto a simbolo, ma il simbolo stesso, direttamente forgiato da Dio, del quale le forme reali semplicemente “si ricordano”: come nella teoria platonica, e nello stesso modo in cui, negli antichi commenti, il medesimo simbolo era stato associato, per la sua altezza spirituale, al Vangelo di San Giovanni, l’”aguglia di Cristo” di XXVI, 53. Anche questa volta, cosi come nel caso del cerchio col punto e di quello con la croce greca, il simbolo e disegnato dalle anime dei beati, e le loro parole lo inverano: se San Tommaso parlava nel primo cerchio, e Cacciaguida si staccava dalla croce greca, qui la discesa verso l’indistinta umanità si compie, e la presenza di nuovo sconvolgente dello sconosciuto e pagano Rifeo nell’occhio dell’aquila rende l’aquila stessa il simbolo non di una giustizia contingente, storicamente o culturalmente determinata, ma di una giustizia come valore assoluto, necessaria all’idea stessa di equilibrio fra il tutto e le sue parti, fino alla più  infima.

Una “candida rosa” diventerà in ultimo, come sappiamo, più che un simbolo in se stesso, una simbolica scenografia della beata assemblea dei salvati, ma altri simboli ci aspettano: prima il “volume”, il libro che nel rapporto fra il tutto e le singole pagine ben rappresenta l’unita del

molteplice; e poi, soprattutto, i tre cerchi della visione finale. Aggiungendo un terzo cerchio “come foco / che quinci e quindi ugualmente si spiri” ai due immensi cerchi della prima raffigurazione astronomica, Dante accoglie il dogma trinitario del concilio di Nicea, ma porta anche a compimento l’evoluzione delle due precedenti immagini circolari, e completa dunque il suo percorso, che è nel Paradiso un percorso prettamente simbolico. La dove non può essere mostrato e metaforizzato niente di reale, e la dove le sensazioni comuni della vista e dell’udito sono continuamente spinte oltre il limite delle umane possibilità di descrizione, solo l’astrazione simbolica può guidare la razionalità verso la luce di una verità che non potrà mai essere del tutto razionalizzabile. E inserendo infine in quei tre cerchi che solo l’immaginazione può disegnare “la nostra effige”, cioè il suo stesso viso e quello di tutti i lettori e di tutti gli uomini, Dante stringe miracolosamente in un solo punto tutta la tradizione culturale, religiosa e infine spirituale che e giunta fino a lui, e spinge ancora oggi noi, fermi e attoniti sul nostro “banco”, a continuare a meditare sul rapporto fra umano e divino

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