LA MORTE NEL MEDIOEVO
di Giulio Ferratini
Ritengo che l’immagine che otteniamo della tradizionale iconografia del Medioevo sia distorta e caricaturale: troppe epoche lo hanno riutilizzato deformandone l’assetto storico, dipingendolo spesso grottescamente, permeandolo di misticismo a volte, di romanticismo altre.
Le stesse Cronache del basso Medioevo già risentono pesantemente dei primi pedanti classicismi, in cui l’eloquenza aulica della tarda epoca altera già lo spirito ed il senso della Storia. Oggi, alcuni storiografi di grande rilievo, hanno riportato alla luce esatta lo scenario sociale, oltre che quello storico, del Medioevo, divulgando così una inedita fotografia. L’atmosfera, se così possiamo definirla, in cui si è svolta l’avventura dei secoli bui della nostra storia, è estremamente significativa ed indicativa di alcune profonde motivazioni e sensazioni che tutt’oggi agitano, sotto altre forme, il nostro pensiero.
La Morte ha un ruolo di rilievo nel pensiero medievale: per capire quanto essa sia compenetrata in ogni azione, in ogni aspetto interiore ed esteriore della vita dell’uomo di quel periodo, si devono fare alcune necessarie puntualizzazioni. La vita quotidiana era scandita da ore molto più pesanti delle nostre: la notte era completamente nera, come certamente poche volte a noi è capitato di vedere, l’inverno era spaventoso, il freddo un pericolo mortale, la violenza era brutale, la devastazione era totale, un bicchiere di vino era qualcosa di estremamente prezioso, le malattie una maledizione.
Non esiste nella realtà medievale che un’unica e piatta dimensione: una emotività esasperata dovuta ai fortissimi contrasti
che ne dominavano la scena. Il violentissimo pathos che ha caratterizzato la vita medievale ha lasciato traccia di sé nella musica, nella pittura, nella cronaca: la stessa storiografia si compiace nella descrizione di atrocità di ogni sorta come di episodi di tenerezza indicibile, di fedeltà amorevole, cieca ed assoluta. In questo quadro dobbiamo cercare di comprendere quale enorme importanza rivestisse la parola.
Essa è praticamente l’unico sistema di comunicazione, essendo la scrittura sconosciuta alle masse, la letteratura limitatissima e nota solo a una ristrettissima cerchia di nobili, religiosi o ricchi borghesi.
La parola, l’enfasi retorica, hanno un effetto enorme, ingigantito dall’arte figurativa, sempre delineata nei suoi aspetti marcatamente essenziali presenti tra le navate delle chiese, sotto le arcate dei cimiteri:
luoghi questi di comunicazione per eccellenza. Veicolo di diffusione della cultura del periodo sono essenzialmente le corti ed i centri di culto.
Ci interessa sottolineare, nella ricerca della cultura della Morte nel Medioevo, come il «memento mori» divenga uno dei punti centrali della coscienza popolare: «E quando si mette a letto, egli si ricordi che, come ora si corica da sé sul letto, presto il suo corpo sarà messo da altri nella tomba». È Dionigi il Certosino che in poche righe riassume una filosofia divenuta popolare e diffusa da un fenomeno peculiare del Medioevo: quello dei predicatori pellegrini.
Pensiamo che la parola del predicatore è l’unica forma di comunicazione che raggiungesse gli strati più umili della popolazione dell’Europa nel Medioevo. Sono gli ordini mendicanti che spargono la cultura della morte: l’immagine che ne deriva è nitida, efficace, sanguinaria, cruda, tutta tesa ad ammonimento violento sulla caducità di tutte le cose.
Ne sono ancora oggi testimonianza pitture e sculture macabre nelle cattedrali e nei cimiteri: corpi putrefatti, scheletri avvinghiati a corpi femminili, visioni apocalittiche e spettrali di ogni tipo. Il monaco predicatore sembra aver elaborato nei secoli dell’Alto Medioevo, in piena solitudine, negli eremi, al sicuro da pestilenze e guerre che insanguinavano l’Europa, quanto nella Bassa Epoca viene poi diffuso a livello di predicazione alle masse, dagli ordini mendicanti: il Medioevo esprime il tema della morte solamente concentrandosi sul memento mori: è la caducità delle cose terrene la vera filosofia della morte medievale.
Questo concetto, il tema della caducità della vita, assolve a due ordini di funzioni: è un sistema primitivo di persuasione nei confronti delle masse ignoranti circa il bisogno immediato di un pentimento necessario alla redenzione, ed è un moderatore politico, utile all’alleanza del potere civile col potere ecclesiastico, teso alla eliminazione di ogni emotività sociale.
Ritornando alla tematica relativa al forte pathos di cui era impregnata
la vita nel Medioevo, accostiamola ora al pensiero vivo, immediato, lapidario della caducità della vita, così come tradotto in termini semplici e vigorosi dagli ordini mendicanti e da una iconografia variopinta: ne traiamo uno scenario semplicemente spaventoso. Il terrore della morte così si trasforma in paura della vita: negazione di ogni bellezza e felicità, come concetti temporali, caduchi, contrari all’etica religiosa quindi assimilabili al peccato. La vita è una prova tremenda a cui si viene sottoposti, il cedimento ai suoi piaceri comporta sicuramente una pena apocalittica nell’Aldilà, un mondo di morte che può essere vicinissimo. Non poteva che essere vissuto così il pensiero della morte, in considerazione proprio della violenta passionalità dell’ambiente sociale del Medioevo: è un vero e proprio compiacimento, da parte dell’espressione filosofica medievale, quel sottolineare l’orrore ed il ribrezzo verso le malattie, i vermi, le interiora, la paura. Citiamo:
«La bellezza del corpo si limita alla pelle… tutta quella grazia consiste
di mucosità e di sangue, di umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola o nel ventre, non si troverà che lordume… ». È Odone di Cluny. E ancora: «La donna concepisce con immondezza e fetore, partorisce con tristezza e dolore, nutre il figlio con peso ed angustia» è Innocenzo II.
Il concetto, così utile agli scopi del pensiero corrente, della dissoluzione
del corpo, si accompagna spesso con disgustoso e morboso compiacimento al corpo femminile, rappresentante una delle più tremende vie del demonio per trascinare il fedele nell’inferno: ne parlano non solo i moralisti, ma anche i letterati ed i poeti cosiddetti cortesi; fino a Villon che canta della bella Heaulmière, la cortigiana:
«che cosa è diventata quella fronte liscia, quei capelli biondi, le sopracciglia arcuate, l’ampio spazio fra gli occhi, il grazioso sguardo con cui mi prendevo i più furbi, quel bel naso diritto, né grande né piccolo, quegli orecchi piccolini, ben uniti, il mento forcuto il bel viso ovale c le labbra rosse? La fronte rugosa, i capelli grigi le sopracciglia cadute, gli occhi spenti… ».
Esiste in effetti una vera e propria familiarità quotidiana col cadavere,
oggi sconosciuta. Basti ricordare come spesso, per personaggi di riguardo morti lontano da casa, si usasse tagliarne a pezzi i cadaveri,
bollirli, dissecare accuratamente lo scheletro dalla carne e spedire poi colla dovuta pompa le ossa in una urna, a destinazione per una degna sepoltura.
La seconda funzione del concetto del Memento mori, il compito di moderatore sociale, non è di secondaria importanza: praticamente in tutta Europa, è presente il concetto della Morte come grande livellatrice, colei che fa giustizia, colei che riduce tutti al medesimo denominatore. Si compiace il popolo di vedersi accomunato nell’orrore al Principe. È la grande epopea iconografica del Totentanz, la dance macabre, la danza della Morte. È definita un grande fatto culturale dagli storici del Medioevo. Dal punto di vista pittorico è un cedimento ad elementi popolareschi, in cui lo spettrale, la reminiscenza antica del phantasma, si fonde con lo spirito religioso più «nero», del tardo Medioevo. Il Totentanz è presente in Francia, nel Nord Italia, in Germania ed in Spagna; rappresentazioni grafiche, in luoghi di culto (sono privilegiati i cimiteri), in cui si era soliti ascoltare le prediche dei monaci mendicanti: il cimitero degli Innocenti, a Parigi ospitava la Dance macabre forse più famosa del Medioevo.
Il Totentanz vedeva la Morte sotto le sembianze di scheletro paludato
di un sudario macchiato dalla sua carne sfatta. A dire il vero nelle rappresentazioni più antiche i versi che accompagnano il dipinto indicano il danzatore come «Le mort», il morto, non «La morte», come appare invece più tardi: è il morto che viene. Ad accogliere se stesso e si trascina danzando la propria copia ancora viva nell’inferno. La Danza era dunque sempre condotta dal cadavere che cantando tiene per mano se stesso Imperatore, che trascina se stesso Papa, Vescovo, Principe, nobile, banchiere, mercante, bambino, e via fino all’ultimo gradino della scala sociale: una catena umana che cantando e ballando viene trascinata dalla Morte verso la fine. «Yo so la muerte cierta a’ todas criaturas» — è l’inizio della ballata i cui versi sono dipinti in una danza della morte spagnola.
La morte danzante: uno spaventoso specchio dell’uomo vivente che vede se stesso già decomposto venire a prendersi e trascinarsi via: «Siete voi stesso» ammonisce in versi la pittura — mai come in questo concetto il Memento mori è così terrificante: tu sei già che tu sia l’Imperatore o l’ultimo dei sudditi, non ti servono a nulla; di fronte alla Morte si è tutti uguali. Non manca, in Germania una danza della morte tutta femminile, curiosa attenzione al sesso debole in un’epoca in cui godeva di scarso credito. Dice Huizinga «nella danza macabra femminile riappare l’elemento sensuale che attraversa anche il tema sulla bellezza trasformata in putredine»: da notare che in tutte le Dances macabres i personaggi sono sempre una quarantina; per questo motivo, nella espressione femminile, la Danza vede trascinate via, una avvinghiata al l’altra, oltre a poche figure di mestieranti, come l’Imperatrice, la badessa, la cortigiana, la monaca, la levatrice, anche gli stadi di vita della condizione femminile: la vergine, la gravida, la vecchia, la fidanzata, ecc. La cultura della morte non concede praticamente nulla alla delicatezza di un sentimento di vivo dolore per la scomparsa della
persona cara; mi piace riportare però due spunti che derivano sempre
dai versi dipinti che accompagnano la danza macabra che mi hanno colpito. È la morte che cerca di consolare il contadino, spezzato da una vita di fatiche, che pur non vuole farsi trascinare verso la fine:
– O tu che hai lavorato con fatica e affanno, hai vissuto tutto il
ora devi. morire, è cosa certa; [tuo tempo;
tornare indietro non serve e non si può.
Della morte devi essere contento, poiché ti libero da un grande affanno».
Ancora, i versi fanno dire al bambino portato via dalla morte, alla madre — bada ai miei giocattoli, alla mia bambola ed al mio bel vestitino —. E ancora, l’invocazione del bambino morto alla madre, perché smetta di piangere, affinché il suo camicino si possa asciugare. Concludo con una osservazione: la Morte non è un fenomeno osservabile dal punto di vista scientifico, un fatto naturale come un’eruzione, una malattia. La Morte è un concetto immanente che ha condizionato l’esistenza stessa dell’uomo in modo differente: in funzione della sua capacità di vivere la Morte l’uomo si è dotato in maggiore o minor misura di strumenti per sopportarne il pensiero.
Sulla tremenda esasperazione dell’angoscia per la fine, che il Medioevo ha costruito su di sé per esorcizzare la Morte, nasce una forza nuova: una autocoscienza consapevole della possibilità di affrontare la fine più serenamente, non tanto fidando su di una resurrezione incerta e comunque spaventosa, quanto sulla certezza di aver vissuto in una società di uguali e collaborato a costruirne una migliore: quello che poi abbiamo chiamato Rinascimentale.