UN SOGNO
Sono comodamente seduto in chiudo una comoda poltrona. In un silenzio da apprendista gli occhi. Entro virtualmente in una stanza senza pareti. Mi appare un tavolo da disegno sul quale, come in un fotomontaggio animato, si materializzano, in ordine sparso, dei simboli.
Vedo il sale, il mercurio, lo zolfo, una squadra un compasso e tanti altri. All’improvviso la tavola da disegno si trasforma in una tavola da pranzo. I simboli fanno adesso da corona ad una bellissima ceramica di Faenza, grande, con colori accattivanti ed ad un Piccolo fIùte di cristallo purissimo che riesce a Vibrare anche solo quando lo guardo,
Nella ceramica c’è il mio ego, nel flùte il mio sé. Una parete con uno schermo si materializza di fronte al desco. Vedo scorrere a ripetizione delle frasi che le mie orecchie avevano già sentito: Chi sono, da dove vengo, dove vado? Conosci te Stesso! Ama il prossimo tuo come te stesso! Lo sguardo scende dalla parete al tavolo e l’occhio scorre su quello che c’è sopra. Sono belli i simboli, sono accattivanti, mi viene voglia di perdermi dentro in una meravigliosa quanto, qualche volta, inutile ricerca dialettica. Vuol dire questo, no … quello, lo vedo così, un altro lo vede in una maniera differente. E il simbolo, perfettamente indifferente a me, rimane lì a guardarmi con un’aria di commiserazione mista a tristezza perché sa che il giorno in cui io lo capissi, lui, in quel momento, diverrebbe perfettamente inutile. Poi c’è la bellissima ceramica di Faenza. Il mio ego, compresso e straboccante è lì, in bella Vista, ed io mici affondo dentro, mi ci sguazzo come se fosse una piscina di acqua stagnante, me lo spalmo addosso come se fosse una vernice opaca assolutamente impermeabile alla luce. Non ho voglia di vedere altro che lui. Quasi tutto quello che faccio, lo faccio in nome e sotto gli auspici suoi, anche quando non me ne accorgo. È il regno dell’io, del mio, del mi. Mi piace, mi da fastidio, sono orgoglioso di quello che faccio, anche quello che sembra un bene, mi piaccio nel compiacimento di me stesso, delle mie abitudini, del mio orgoglio e di ciò che è più subdolo, e cioè dell’attaccamento ai metalli. Anche la carne, anche i desideri, anche gli affetti, sono metalli, sono piombo e non oro. Poi guardo meglio e vede che, sovente, anche quello che credo oro è un metallo. Dice un saggio proverbio “non è tutt’oro quel che luccica”. Mi sento offeso se sono ignorato, mi sento lusingato se sono lodato. Vedo tutto in chiave personale, egoica, come se fossi il centro dell’universo, senza sapere, solo perché non ne ho la consapevolezza, che in realtà sono il centro dell’universo. La soluzione del problema sarebbe, molto semplicemente, una lettura in chiave del se e non dell’io. Non ho mai provato, quando mi guardo allo specchio, di andare al di là di quello che guardo, perché mi sono sempre compiaciuto o dispiaciuto solo di quello che lo specchio rifletteva. Non ho mai avuto il coraggio di guardare dentro, oltre. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti e quei pochi sono quelli a cui non importa nulla di essere chiamati, perché avendo la consapevolezza di arrivare, non hanno il bisogno di scegliere sul “dove andare”. Il “da dove vengo” equivale al “dove andare»,
Andare, andare, andare. Cercare sempre altrove quello che con estrema facilità potrei trovare dentro di me, nel mio sé, senza muovermi. Cerco purtroppo sempre la strada più difficile nella convinzione che questi mi porti, più facilmente, al punto di partenza.
Beati quelli che crederanno e non hanno visto. Non c’è bisogno di andare. La Divinità è dentro di me. Basta che io chiuda gli occhi al mondo e il divino mi appare.
Il mondo è l’ego, la divinità il sé. Riuscire a capire questo vuoi dire fare sacrificio che, secondo l’accezione originale del termine, non vuoi dire rinuncia, sofferenza, ma molto più semplicemente fare qualcosa di sacro.
Sacrificare significa dare un significato sacro a tutte le meravigliose, apparentemente inutili, banalità della vita. Non è vivere il giorno da leoni, ma fare sacri i 100 giorni da pecora.
Non possa amare me stesso se non visto il se che è dentro di me. Non posso non amare gli altri se non ho visto in loro il mio stesso sé.
Quando privilegio il bisogno di un altro rispetto al mio, ho fatto un sacrificio, ho fatto un gesto di amore Verso quest’altro.
Smetto di pensare. Sulla parete dinanzi a me la virtuale maschera informatica si è modificata e mi sono apparse alla vista delle parole dette da Alessio un giovane brillante nel fiore degli anni che un incidente di macchina ha costretto alla carrozzella: “Non sono un corpo che ha un’anima. Sono un’anima che ha un corpo”.
Apro gli occhi. Tutto si è dissolto. Intorno a me non ci sono più pareti. Solo uno specchio di fronte. Guardo e vede il mio corpo con dentro l’anima. Fratelli come è lungo il percorso.
TAVOLA DEL FR.’. R. Scld.