E se il Covid non dovesse mai finire? Il dovere di immaginare un futuro oltre questo inverno infinito
di Antonio Scurati | 27 novembre 2021
La paura che torna. Pandemia e clima; un’epoca è finita, un’altra è cominciata, serve spirito di adattamento non la rassegnazione di individui malinconici, rabbiosi e solitari
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E se non dovesse mai finire?
Abbiamo a lungo evitato di dare voce a questa nostra paura impronunciabile.
Ammoniti a non farlo da un senso di responsabilità misto a scaramantiche
proibizioni, abbiamo taciuto. Forse, però, è giunto il momento di confessare:
non è forse vero che, mentre entra il terzo inverno di pandemia, si fa strada
in noi il pensiero di un inverno senza fine?
Lo
sbarco in Europa della variante
sudafricana non soltanto alimenta la paura di un inverno pandemico senza
fine, forse ne giustifica anche il timore sul piano della previsione
razionale. Forse, giunti a questo punto, la coraggiosa speranza in una rapida
uscita dalla crisi rischia di ribaltarsi in un superstizioso scongiuro. Credo
che, giunti a questo punto, sia non soltanto lecito ma perfino doveroso trovare
il coraggio di pronunciare apertamente il terribile interrogativo: e se non
dovesse mai finire?
È utile farlo perché è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che
contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che,
attraversata una soglia critica, diventi cronica. È possibile che mi sbagli ma,
in tutta coscienza, ritengo giusto e doveroso tenere lo sguardo fisso
sull’abisso che ci si è spalancato sotto i piedi.
Lo schema culturale che ha prevalso nelle interpretazioni e commenti sulla
pandemia a partire dal marzo del 2020 è stato quello dei cicli di morte e
rinascita. Stiamo attraversando un momento di tenebra – ci siamo detti – ma
non dobbiamo disperare perché nessuna notte è infinita. La morte vendemmia
nella nostra vigna. Bisogna stringere i denti, sbarrare la porta, pregare il
Dio che avevamo dimenticato: la vita tornerà. Celebreremo il suo trionfo con
una festa memorabile. Se l’inverno viene, non può essere lontana primavera.
Grazie al sostegno di questo archetipo dell’umana speranza, e dell’umana
saggezza, abbiamo retto al primo, spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata,
poi alla terza. L’arrivo dei vaccini sembrò annunciare la primavera.
Ora che la quarta ondata già sommerge buona parte dell’Europa, e che un
volo atterrato ad Amsterdam dal Sudafrica con 61 posititvi su 600 passeggeri
ne annuncia una quinta, forse è prossimo il momento in cui smetteremo di
contarle.
Ora che la variante Omicron provoca una crescita
vertiginosa dei contagi (e minaccia di poter aggirare i vaccini esistenti),
forse faremmo bene ad attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso
una terra che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un
autunno perenne. Un viaggio con destinazione sconosciuta.
Farneticazioni apocalittiche? Temo di no.
Se si trova il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, si scopre
che ci siamo già accostumati a un’emergenza permanente, quella ambientale. Da
anni, da decenni, viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno
peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente definitiva.
Ci siamo rassegnati, non adattati, a eventi meteorologici
estremi, estati invivibili, spettri d’estinzione.
Ci siamo rassegnati al cronicizzarsi delle crisi migratorie. L’umanità ha dato
prova di saper reagire con una insurrezione contro questo destino ingrato? Non
certo sul piano politico. Il penoso fallimento della Cop 26 di Glasgow – tanto
più penoso quanto più lo si traveste da mezzo successo – sta a dimostrarlo.
E allora? Allora bisogna riconoscere i nostri fallimenti, le nostre sconfitte,
la nostra impotenza.
La prima conseguenza dell’abbandono del modello dei cicli di morte e rinascita
per quello della cronicità comporta il riconoscimento della inadeguatezza della
politica convenzionale a risolvere con mezzi collettivi i problemi collettivi
generati dalla ipercomplessità della vita tardo moderna.
Sia la pandemia sia il cambiamento climatico sono scorie tossiche della
globalizzazione.
La politica che si attarda nelle sue stanche consuetudini novecentesche non
sembra in grado di affrontarle.
È, dunque, facile prevedere che se l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, come si sono cronicizzate quella ambientale e quella migratoria, si accentuerà la tendenza, già in atto, verso forme di potere politico sorte dalla progressiva sospensione o cancellazione delle consuetudini democratiche. Le leadership populiste e i partiti sovranisti, subita una battuta d’arresto nelle prime fasi della pandemia, quando ancora si sperava nella prossima rinascita, se anche l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, rialzeranno senz’altro la testa. Avranno gioco facile a invocare la blindatura autoimmune nei confronti di un mondo globalizzato che ci invade con le sue varianti. Lo stanno già facendo.
La seconda conseguenza è che la fiducia nelle virtù civiche (mascherine, distanziamento, riduzione domestica dei consumi energetici, apertura all’altro da noi etc.) dovrà cedere il passo alla speranza nella soluzione scientifico-tecnologica delle emergenze. Molti già ritengono che il surriscaldamento globale possa, visto il fallimento della politica, essere contrastato solo dallo sviluppo delle tecnologie per la cattura dell’anidride carbonica. Quasi tutti hanno confidato e confidano nei vaccini per il contrasto alla pandemia.
Le conseguenze del cronicizzarsi delle emergenze planetarie sarebbero molto altre. Non ho né lo spazio né le capacità per immaginarle. Forse, però, sarebbe il caso che cominciassimo a farlo tutti insieme, consapevoli che un’epoca è finita, un’altra è cominciata, e che ci preparassimo ad affrontarla con spirito di adattamento a livello di specie, non con la rassegnazione di milioni, miliardi d’individui malinconici, rabbiosi e solitari.
ARTICOLO SEGNLATO DAL FR.’. A. F.