“Siamo uomini o caporali?”. Il catechismo di un Fratello un po’ speciale: Totò
di Rita Polverini
«Nella Sede storica di Piazza del Gesù, 47. All’alba del 15 marzo [refuso: aprile] 1967, è passato all’O. Et. l’Illustre Fr. Antonio de Curtis 30° Venerabile della R.L. “Fulgor Artis” dell’O. di Roma. Il titolo distintivo che Egli scelse per la Sua bella Officina significò per Lui incitamento e passione per quell’arte incomparabile di cui attinse con indeclinabile fede le più incantevoli cime. La Massoneria abbruna i suoi Labari con infinita tristezza; ma con il massimo orgoglio iscrive il Suo nome sul Gr. Libro d’oro degli innumeri Fratelli che con la loro arte ed il loro ingegno onorarono l’intera umanità».
Così il 21 aprile 1967 la Loggia Fulgor Artis annunciava dalle pagine del “Tempo” di Roma la scomparsa di Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe dei Focas Angelo Flavio Du-cas Comneno Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, duca di Ci-pro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo, in arte Totò. Difficile riuscire a ripercorrere le tappe dell’iniziazione di Totò alla Massoneria, un percorso che lo portò a costituire la “Sua bella Officina”, la Fulgor Artis. Di fatto i documenti attestano la presenza di Antonio de Curtis a metà del 1945 come Fratello di 18° in una Loggia napoletana detta Fulgore, qualche mese dopo, in ottobre, compare come Maestro Venerabile 30° nella Fulgor Artis di Roma, all’Obbedienza della Federazione Massonica Uni-versale del Rito Scozzese Antico ed Accettato, quella Federazione che dal 21 giugno 1944 spostò molte volte la sua sede in Roma fino al 3 febbraio 1948 quando ottenne quella definitiva di Piazza del Gesù al n. 47. In taluni casi (cfr. Giordano Gamberini) si parla di un’Officina promossa e fondata dal principe come Ars et Labor, ma non è possibile stabilire se essa fosse altra Loggia o se si fuse o confuse con la Fulgo Artis. La sua affiliazione viene fatta risalire al 1944, nella Loggia Palingenesi. Ma quelli, dopo le furie fasciste e la clandestinità, erano anni di grande confusione, e le Officine avevano ripreso i lavori in modo libero e spontaneo, prima dei riconoscimenti formali. Comunque, in breve tempo egli fondò a Roma una Loggia dal significativo nome FulgorArtis, di cui probabilmente ricoprì sempre la carica di Maestro Venerabile e che riuniva vari attori di cinema e teatro. Era lo stesso, Antonio de Curtis, a presentare all’Officina gli iniziati, facendosi per ciascuno “garante della di lui onestà, del suo disinteresse, del suo amore per la Patria e l’Umanità, e dei suoi buoni costumi”, a testimonianza di un costante e infaticabile lavoro per l’Ordine e, secondo i detta-mi libero-muratori, per l’umanità. Sembra quasi — gli studi sull’argomento ci per-mettono di fare solo delle ipotesi — che egli abbia fortemente voluto far nascere a Roma una sorta di corporazione di attori come avanguardia della cultura laica e che si fosse occupato dell’impegno del libero muratore in ambito culturale e sociale. Infatti il principe Antonio de Curtis, un Fratello che avrebbe potuto senza difficoltà acquisire il 33° del Rito Scozzese, che avrebbe potuto arrivare cioè a far parte delle alte sfere della gerarchia massonica, nel Supremo Consiglio per la gestione del Rito, si fermò al 30° grado.
Quest’anno, ricorrendo l’anniversario dei cento anni della nascita di Totò (15 febbraio 1898), il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Virgilio Gaito, in un invito al Sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, perché in questa occasione ricordi non solo l’attore ma anche il Fratello, ha suscitato sconcerto e scatenato repliche indignate: come immaginarsi Totò “con indosso il grembiulino, a compiere rituali sotto l’egida di squadra e compasso”! (cfr. “La Repubblica”, 15 febbraio 1998). Luciano De Crescenzo ha gridato allo scandalo. Renzo Arbore, invece, ha giustamente replicato:”Credo che Totò avesse molto forte il sentimento della solidarietà ed era in questo senso massone. [ … ] Totò aveva queste due anime. Una voleva elevarsi, affrancarsi dal personaggio. Potrebbe aver visto questa strada, entrare a far parte di un club di persone rette e giuste, un modo, appunto, di esprimere la sua voglia di andare incontro al prossimo”.
Qui vogliamo ricordarlo così, un comico dall’infinita umanità, portato ad aiutare tutti nella ferma volontà di intervenire in favore delle persone meno fortunate. Dunque, la presenza di Totò in Massoneria era un “segreto”, nessuno fino ad ora ne aveva mai parlato pubblicamente.
Sulla carriera di Totò, invece, sappiamo tutto, tutte le curiosità e tutti gli aneddoti. Totò stesso lo ha raccontato, ma fermandosi al 1930, al suicidio della soubrette Liliana Castagnola a cui era stato legato da una forte passione. Neppure le pagine scritte da Franca Faldini, la compagna che gli è stata accanto fino alla morte, riescono a far luce sul “segreto” del grande Totò. Infatti, a differenza di altri personaggi pubblici, la sua appartenenza alla Libera Muratoria fu sempre poco conosciuta. Nel privato Antonio de Curtis, era un distinto gentiluomo, serio, severo e silenzioso, quasi come se esistessero due persone: il principe e il comico, il gentiluomo e il buffone, l’uomo e la marionetta disarticolata, Antonio e Totò. Le stesse prefazioni alle ristampe della raccolta di poesie che prende il nome dalla sua più famosa, ‘A livella, pubblicate per la prima volta nel 1964, si fermano a superficiali riflessioni sul senso di contrappasso che il pensiero della morte in una poesia come ‘A livella, ispirata peraltro ad uno dei più importanti elementi del simbolismo massonico, infonde rispetto a quell’universo del risibile che era Totò. Evidentemente il principe de Curtis aveva pienamente aderito ai giuramenti degli antichi rituali, per i quali la Massoneria è essa stessa il “segreto”: “V’è qualche cosa di comune fra voi e me?” — recitano — “Sì, Venerabile Maestro”, “E che cosa è, fratello mio?”, “Un segreto”, “E quale è?”, “La Massoneria”. E l’ingresso ai segreti dei massoni è nascosto, come si apprende da altro rituale, “nel cuore, in cui sono racchiusi tutti i segreti dell’Ordine”.
Totò nacque il 15 febbraio 1898 nel Rione Sanità, a Napoli, dove nascerà un museo, da Anna Clemente e da padre ignoto: un figlio di N.N. Nella povertà delle strade più colorate e vivaci di Napoli, nacque l’attore, il comico.
“Io so a memoria la miseria”, diceva, “e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza [ … ]; la vergogna dei pantaloni sfoderati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”.
Soltanto nel 1924 il marchese Giuseppe de Curtis sposò Anna. Antonio non solo riuscì ad essere riconosciuto come figlio legittimo, ma quasi come una riscossa di un povero figlio dei bassi napoletani, ricostruì tutto il suo albero genealogico tanto da fregiarsi, con severità e ironia, di infiniti appellativi. Poco più che ragazzo iniziò il servizio di leva a Napoli, imparando ben presto a marcare visita grazie alla sua innata capacità di simulare gravi malattie; ma quando venne trasferito a Livorno, fu costretto a subire le vessazioni di un caporale, “il caporale per antonomasia”, promosso “per mancanza di graduati disponibili, pur essendo quasi analfabeta”.
“Durante le punizioni [ … ], rimuginavo in me un rancore senza fine nei confronti dei caporali, verso coloro cioè che, muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l’obbedienza senza discussione, esercitano tali loro meschini poteri [ … ]. Contrapponevo, ad essi, gli uomini, le persone, cioè, che sanno adoperare la loro autorità senza abusare dei poteri loro commessi”.
Una filosofia spicciola ma chiara, da cui non solo nacque la sua più celebre battuta, ma un modo di vivere, di distinguere, selezionare e comprendere il genere umano. Dopo i difficili esordi come fantasista in piccole compagnie, con la compagnia Maresca e Molinari ottenne i primi successi in un crescendo che lo portò ad essere conosciuto ed amato dal grande pubblico. Fu, invece, poco amato dalla critica per quella infinità di film di cassetta, girati sottocosto in pochissimo tempo e senza sceneggiature grazie alla capacità di Totò di improvvisare sulla scena e di riuscire bene al primo ciack, ma che incassarono tanto da permettere alle case di produzione di finanziare i capolavori neorealisti che hanno reso grande l’Italia. Certo questo gli ha impedito di diventare un Charlie Chaplin o un Buster Keaton.
La sua popolarità era affidata al linguaggio, alle battute, i fraintendimenti, le parole storpiate, i bizzarri “neologismi”, le esagerazioni dell’italiano conformista, le traduzioni maccheroniche, i giochi di parole e le assonanze linguistiche, che lo hanno reso un eroe tutto italiano e poco esportabile. Del resto, anche in teatro Totò, vero animale da palcoscenico, si affidava solo al suo estro. Inutile per gli sceneggiatori scrivere dialoghi, perché i gesti e le battute nascevano così dall’osservazione della gente e dal rapporto col pubblico. Per questo fu molto amato, soprattutto negli anni Cinquanta, perché non si poneva come un intellettuale, ma incarnava l’uomo qualunque in difficoltà per il lavoro, lo stipendio, le tasse, per la fame, i soldi; quello che, però, si arrangia sempre, l’italiano onesto truffatore ma timorato di Dio e innamorato di tutte le donne. Per loro scrisse bellissime canzoni come Miss mia cara Miss o la famosissima Malafemmena. Il secondo dopoguerra segna, con l’adesione alla Massoneria, una svolta nella vita di Antonio. Il giornalista Alessandro Ferraù, che scrisse una biografia di Totò già nel 1941, ha voluto sottilmente o ingenuamente segnare questo passaggio attraverso una piccola ma significativa dedica. Nel 1941 Totò gli regalò una foto e nel 1967 un volume di ‘A livella entrambe con la stessa dedica ma nella seconda «ave-va inserito al posto di ‘carissimo Direttore’, la frase ‘al mio carissimo e fraterno amico’» (il corsivo è mio). Tutto gira, dunque, attorno a quella poesia, origine e fulcro della sua iniziazione, i cui primi versi sono apparsi nel 1953, in appendice al libro Siamo uomini o caporali? Un inno alla livella (dal lat. libella, bilancia), all’orizzontalità perfetta, alla Gran-de Eguagliatrice. Il poeta ci racconta in versi di essere stato testi-mone, il giorno dei morti, al cimitero, di un fatto curioso: il fantasma di un marchese e quello di un netturbino si incontrano dove sono sepolte le loro salme, l’una accanto all’altra. Il marchese, irritato dalla vicinanza della spoglia e sporca tomba dell’altro, lo aggredisce: “come avete osato di farvi seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato?! [ … ] Ancor oltre sopportar non posso la vostra vicinanza puzzolente”. Il netturbino, dopo averlo ascoltato, si spazientisce: “Ma chi te cride d’essere… nu ddio? Ccà dinto, ‘o vvuò capì, ca simmo eguale? Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io; ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale”. I due protagonisti si presentano con caratteristiche umane e terrene: il nobile è vestito col cilindro e un gran pastrano, è marchese, signore di Rovigo e di Belluno, porta solo appellativi ma non possiede un nome e parla correttamente; lo “scupatore” è tutto sporco e misero, si chiama Gennaro Esposito e parla in dialetto napoletano. Immancabilmente presenti le due anime di Antonio de Curtis, il principe e il povero, il blasonato e il figlio di N.N. La morte che qui viene celebrata, non è la nemica, non rappresenta la fine, non è drammatica. Per i Fratelli la morte si lega alla simbologia della terra. È un rito di passaggio: rivelazione e introduzione. Putrescat ut resurgat: tutte le iniziazioni attraversano una fase di morte prima di spalancare le porte ad una vita nuova. La morte libera le forze ascensionali dello spirito, è la condizione per accedere ad una vita superiore. Il messaggio è affidato a Gennaro, lo scopatore: “nuje simmo serie… appatenimmo â morte!”. La Morte è, del resto, il campo neutro, dove non esistono distinzioni né per bontà o cattiveria, né per nobiltà o povertà, né di gerarchia e potere: «’A morte ‘o ssaje ched’è? … è una livella». Il livello — l’orizzontale — assicura l’uguaglianza degli esseri, affinché nessuno si sovrapponga agli altri per dominarli, come, nell’esperienza di Totò, i caporali. Come a dire: “siamo uomini, non caporali”. La livella e il filo a piombo sono gli attributi dei due Sorveglianti e la loro dualità corrisponde a quela delle due colonne del Tempio. La livella è costituita da una squadra al vertice della quale è sospeso un filo a piombo: quindi non solo determina l’orizzontale, ma anche la verticale, l’espansione cosmica. Il passaggio dalla perpendicolare alla livella esprime una crescita, quella dal grado di Apprendista a quello di Compagno. La sintesi della perpendicolare con la livella non è realizzata se non per mezzo della squadra, attributo del Venerabile. La livella si lega all’iniziazione, all’inizio del percorso muratorio, esprime la crescita del massone, e come tale possiamo pensare che fu scritta da Totò. Nel 1957 il principe fu colpito da una grave malattia agli occhi, che lo rese via via quasi cieco, ma che non gli impedì di continuare a lavorare fino alla morte, il 15 aprile 1967, quando lo colpì un infarto. Nell’arco degli ultimi dieci anni, malgrado le sue condizioni fisiche, interpretò più di 43 film, tra cui nel 1966 Uccellacci e uccellini, con la regia di Pier Paolo Pasolini, una delle più belle e struggenti interpretazioni di un Totò quasi cieco, per la quale, uno dei meno premiati attori italiani, ottenne il “Nastro d’argento”.
“E se qualche volta sono riuscito anche a commuovervi”, scrisse a conclusione della sua biografia apparsa nel 1952, “ne sono felice, perché [ … ] una lacrima è solo l’altra faccia del sorriso. E ci siamo capiti, perché ognuno di noi è passato attraverso gioie, dispiaceri e amare delusioni nella grande commedia della vita. Altrimenti, se fossimo sempre impassibili, spettatori e non attori, non saremmo veri uomini, ma caporali”.
Le informazioni documentate relative all’appartenenza di Antonio de Curtis alla Massoneria sono state fornite dal Direttore dell’Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani, Vittorio Gnocchini, che ringrazio sentitamente per la disponibilità, l’entusiasmo e la serietà con cui sempre si mette a disposizione per il reperimento dei document
(da il Laboratorio n. 36 maggio-giugno 1998 – Turri Copisteria, Scandicci