L’ALBERO DEL PARADISO. A PROPOSITO DI UN SIMBOLO.

L’ALBERO DEL PARADISO. A PROPOSITO DI UN SIMBOLO.

di Claudio Saporetti

Centro Studi Diyala, Associazione Geo-Archeologica Italiana

Man mano che in Francia deflagravano l’Enciclopedia e le idee di Voltaire, i preti continuavano ad arringare il buon popolo milanese su quale fatica sprecata fosse imparare a leggere o istruirsi su qualsiasi cosa. Stendhal, La Charteuse de Parme

Poi Jahweh – ‘Elohīm piantò un frutteto in Eden, ad oriente, e vi collocò l’uomo che aveva modellato. E Jahweh – ‘Elohīm fece spuntare dal terreno ogni sorta d’alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita nella parte più interna del frutteto, insieme all’albero della conoscenza del bene e del male. Jahweh – ‘Elohīm rapì dunque l’uomo e lo depose nel frutteto di Eden per lavorarlo e custodirlo. E Jahweh – ‘Elohīm diede un comandamento all’uomo, dicendo: “Tu puoi mangiare [il frutto] di tutti gli alberi del frutteto, ma non devi mangiare [il frutto] dell’albero del bene e del male perché, nel giorno in cui ne mangerai, dovrai certamente morire”. Il serpente era la più astuta di tutte le fiere della steppa, che Jahweh – ‘Elohīm aveva fatto, e disse alla donna: È dunque vero che ‘Elohīm ha detto: “Non dovete mangiare [il frutto] di tutti gli alberi del frutteto?”. Rispose la donna al serpente: “Noi possiamo mangiare i frutti degli alberi del frutteto. Ma del frutto dell’albero che sta nella parte interna del frutteto ‘Elohīm ha detto: “Non lo dovete mangiare e non lo dovete toccare, per paura che ne moriate”. Ma il serpente disse alla donna: “Voi non ne morirete affatto! Perché ‘Elohīm sa che quando voi ne mangerete si apriranno i vostri occhi e diventerete come ‘Elohīm, conoscitori del bene e del male”. Allora la donna vide che [il frutto de]l’albero era buono da mangiare, e che era seducente per gli occhi, e che era, quell’albero, attraente per avere successo. Perciò prese il suo frutto e lo mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi, perciò cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture. Questo è il passo che nella Bibbia (Gen. 3,1 sg.) racconta il cosiddetto “peccato originale”. Ho saltato le parti che descrivono i quattro fiumi e la creazione della donna, perché non indispensabili. Cosa si sia detto, inventato, arzigogolato, costruito e architettato su questo brano nei secoli, solo una biblioteca ricchissima potrebbe contenerlo. In poche parole: è stato scritto di tutto. Cosa rappresentava quel “giardino”, o meglio “frutteto”? E in che cosa consisteva quel frutto? E qual era la vera natura del peccato? Ed altre analoghe domande. Temo che le risposte che nel tempo sono state date, spesso fantasiose, altrettanto spesso profonde, filosofiche, antropologiche, magari anche poetiche, pur essendo costruzioni dell’umano cervello e quindi interessanti da considerare e studiare, abbiano evaso la vera natura del passo, quanto meno per quanto riguarda il significato di certi partico lari che si rivelano però fondamentali e probanti. In questo scritto, dedicato all’albero (o meglio agli alberi), cercherò di puntualizzare alcuni concetti nel modo il più possibile semplice e chiaro, specificando subito, però, che quanto riferisco non è certo farina del mio sacco, ma patrimonio comune a quanti hanno la ventura di interessarsi di Orientalistica. La principale lacuna di tutti i commentatori che si sono occupati del brano con le loro considerazioni (vuoi fantasiose, vuoi accurate e profonde) è stata spesso quella di ignorare completamente quella grande cultura che lo ha ispirato. Insomma, non si deve partire dalla Bibbia per spiegare la Bibbia, ma da chi ha profondamente suggerito ai suoi compilatori aspetti peculiari che gli Ebrei hanno accolto e trasfuso. Non si è trattato certo di un semplice riciclaggio, perché gli Ebrei hanno accolto storie, fatti, mitologie, concetti e simbolismi orientali, più precisamente mesopotamici, adattandoli tuttavia alla propria specifica concezione monoteistica. Sta di fatto, però, che questa “eredità” c’è stata, e ne dobbiamo tener conto se vogliamo comprendere fino in fondo i significati dei vari passi del libro biblico della Genesi. Si veda, ad esempio, il racconto del diluvio, preso pari pari da quelli mesopotamici, che ne presentano il medesimo preciso canovaccio. Qui non farò altro che sintetizzare qualche punto fondamentale, rimandando a quanto è già stato trattato da altri studiosi (basti come esempio quanto è stato abbondantemente riportato da P.E. Testa [1969] Genesi, Bibbia Marietti, Torino-Roma). Il Paradiso Terrestre La parola “paradiso” deriva dal persiano e significa “giardino”, ma non necessariamente un appezzamento di terreno con i suoi bravi fiori e le sue brave aiuole. Dovremmo pensare, piuttosto, alla parola “giardino” come viene usata, ad esempio, in Sicilia: eredità semitica, attraverso gli Arabi, per indicare un agrumeto. Visto che nella Bibbia sono citati, indubbiamente, degli alberi, meglio dunque tradurre “frutteto”. In che cosa consista questo boschetto, e quale significato abbia, è suggerito proprio dalla mitologia mesopotamica, secondo cui le varie divinità, per acquisire e conservare i poteri loro precipui, mangiavano i frutti di alberi “magici”. Riporterò qui la traduzione di alcuni passi da cui si evince questo dato. Ghilgameš Delle avventure di questo eroe sumerico, cantato in varie operette, parla la composizione più completa, conosciuta dalle tavolette della biblioteca di Assurbanipal (VII sec. a.C.) ma risalente ad epoca più antica. Ghilgameš è un supereroe che ha compiuto, con un amico, eclatanti imprese. Tuttavia, alla morte di questo amico rimane fortemente impressionato e decide dunque di raggiungere un suo lontano progenitore che è scampato al diluvio e che ha ricevuto dagli dèi il dono dell’immortalità. Nella speranza di strappargli il segreto, Ghilgameš attraversa luoghi pericolosi e penetra in quel cunicolo che quotidianamente il dio Sole percorre dopo il tramonto, per spuntare ancora una volta dall’altra parte del globo (o meglio della piatta terra) e ricominciare così il suo diuturno percorso. Alla fine del suo sotterraneo cammino, il nostro eroe si imbatte in un frutteto, che viene così (Ghilgameš) si rincuorò nel vedere alberi di pietre (preziose). La corniola portava il suo frutto, il grappolo era puro e pulito al guardare. Il lapislazzuli portava il fogliame, ed anche il frutto che portava era delizioso a vedersi. […] […] Il cedro […]. Le sue venature (delle foglie erano? ) di agata? […], i suoi rami (di? ) conchiglie? […] di pietra-sāsu. Come un arbusto spinoso (o) un cardo […] la pietra … Prese il carrubo […] pietra-abašmu. La pietra-šubû, l’ossidiana, […] … Come […] la pietra ašghiqû, che […] conchiglia aveva […]. Ghilgameš [… nel] suo andare (= intanto che girovagava) alzava [i suoi occhi e vedeva] (tutto) ciò. La traduzione è quella che ho presentato nel mio Il Ghilgameš (Milano 2001, 145 sg.), a cui ho fatto seguire questo commento: Quell’insieme di piante dai frutti di pietra preziosa era il personale frutteto del dio Sole, che una volta sbucato dall’interminabile cunicolo aveva bisogno, rifocillandosi di frutti luminosi, di riprendere la sua capacità di illuminare. E pazienza se non sappiamo a quali pietre o materiali preziosi corrispondano alcuni nomi (per ora) intraducibili. … Ma tant’è: mi basta esser convinto che il Sole, per ridiventare quel dio che era, si cibava di un tipo di luce tutt’altro che evanescente ed etereo, ma adatto piuttosto ad uno stomaco da struzzo. E rimaniamo a Ghilgameš, precisamente al punto in cui, deluso nella sua aspettativa, decide di tornare malinconicamente nella sua città. Entra allora nel palcoscenico del racconto la moglie dell’immortale eroe del diluvio, intenerita nel vedere Ghilgameš tanto triste e frustrato. Per sua intercessione, il Noè mesopotamico si decide a rivelare al nostro eroe l’esistenza di una pianta acquatica, il cui frutto dona a chi ne mangia una eterna giovinezza: Sua moglie gli disse: “Ghilgameš è venuto a te esausto e tribolato. Che cosa gli darai, e lui tornerà al suo paese?”. … Gli disse: “Ghilgameš, tu sei venuto esausto e tribolato. Che cosa ti darò, e tu tornerai al tuo paese? Voglio aprire (= rivelare) una parola segreta, e dire [a te] un segreto [degli dèi]! Una pianta c’è, come un pruno sono le sue radici, le sue spine come un rovo perforeranno [le tue mani]. Se raggiungerai questa pianta (con) le tue mani, [troverai la vita!]”. Ghilgameš, appena udito questo, aprì una fossa, legò pesanti pietre [ai propri piedi], si spinse all’abisso, [dimora di Ea (= dio delle acque sotterranee)]. Prese la pianta (che) perforò [le sue mani]. Levò le pesanti pietre [dai suoi piedi, ed] il mare lo posò alla sua sponda. Ghilgameš parlò a lui, a Ur-šanabi il battelliere: “Ur-šanabi, questa pianta è la pianta dell’ansia (= che acquieta l’ansia dell’uomo?), per cui l’uomo nel suo cuore raggiunge la vita. Voglio portarla dentro Uruk-l’ovile, e farla mangiare agli anziani ed esperimentare la pianta! Il suo nome è ‘l’uomo anziano ringiovanirà’. Io (stesso) voglio mangiarla e ritornare alla mia giovinezza!”. … Vide una polla Ghilgameš, le cui acque erano fresche. Scese dentro le acque, e si lavò. (Ma) un serpente annusò l’odore della pianta, [silenziosamente] salì e prese la pianta. Mentre tornava gettò le squame. In quel giorno Ghilgameš si pose (a sedere) e pianse. Al di là di qualche passaggio oscuro, è chiaro che si tratta, anche qui, di un’altra pianta miracolosa, di altra natura: anticipando di secoli e secoli la mitica “fonte dell’eterna giovinezza”, è in grado di ringiovanire i vecchi e, visto che anche Ghilgameš, che non risulta particolarmente anziano, ne vuole approfittare, anche di mantenere giovane chi vecchio ancora non è. Ne è prova l’episodio del serpente, che dopo averla divorata perde le squame e rinnova la vita. Si tratta dunque di un frutto che consentiva agli dèi, che ne mangiavano, una eterna immutabilità, un continuo immarcescibile aspetto. Etana Nel poemetto di Etana si parla continuamente di una pianta ša alādi, cioè “della procreazione”. Etana è un sovrano che ha il problema di avere un figlio, e che cerca in ogni modo di mangiare questa “pianta della procreazione” per poterne generare uno. Traendo dalle mie traduzioni in Etana (Palermo 1990): Etana ogni giorno pregava Šamaš (= il dio Sole): “Tu hai mangiato, Šamaš, il grasso delle mie pecore, la terra ha bevuto il sangue dei miei agnelli. … O signore, dalla tua bocca esca (un suggerimento) per me! Dammi la pianta del procreare! Mostrami la pianta del procreare!, il mio peso rimuovilo, un nome (= discendenza) concedimi!”. Šamaš la sua bocca aprì e ad Etana disse: “Prendi la via, varca il monte, guarda una fossa, (nel) suo interno cerca! Nel suo interno sta l’aquila. Ti mostrerà la pianta [del procreare]”. Come mai quest’aquila nella buca? Il fatto è che questo rapace aveva rotto un giuramento di amicizia con il serpente, divorando i suoi piccoli. La ragione non è chiara, ma in qualche modo doveva essere implicata questa mitica pianta. Difatti l’aquila, nell’annunciare le sue cattive intenzioni, aveva detto ai suoi figli: Salirò ed in cielo sta[rò], scenderò sulla cima dell’albero e mangerò il frutto. In una variante del testo, purtroppo assai rovinata, si legge anche: [I figli del serpente(?)] andranno, cercheranno […]cercheranno la pianta [del procreare], e (allora) i figli del serpente [io] voglio mangia[re]. Salirò [in cielo], (lì)starò, [scenderò sulla cima dell’albero e mangerò il frutto]. Il delitto dell’aquila sembrerebbe dunque dovuto al desiderio di mangiare la magica pianta al posto dei figli del serpente, che, parrebbe, ne avevano anche loro l’intenzione. Se così, viene logico pensare che la “pianta del procreare” non era precisamente un cibo che serviva per fare figli (aquila e serpente avevano già figliato) ma fosse qualcosa di più importante e diverso. Ritornando alla disperazione di Etana, ecco che il nostro personaggio arriva là dove l’aquila giace in una fossa; le promette di salvarla, e l’aquila lo riassicura: Io ti darò la [pianta] del procreare. In un altro passaggio, ecco Etana che dice: Amico mio, dam[mi la pianta del procreare! Il (mio) peso [rimuovi, un n]ome (= discendenza)concedimi! Consegna(mi) [la pia]nta del procreare!». L’aquila, uccello [simile al quale] non ce n’è (altri), [ad Etana disse]: “Vieni, amico mio, […]. Con Ištar signora […]. Con la forza di Ištar signora […] …”. Ecco comparire, con il suo nome, la dea Ištar, preposta alla procreazione degli uomini e degli animali. Ma già da prima Etana aveva sognato una dea, incoronata, potente, molto bella, con dei leoni che le giacevano ai piedi, e che lo assalivano. Con ogni evidenza si trattava infatti proprio di Ištar, il cui cielo doveva essere presumibilmente la meta del viaggio aereo che Etana e l’aquila si apprestavano a compiere, perché la pianta miracolosa non poteva che essere lì, accanto a lei. Il volo di Etana e dell’aquila qui non ci interessa. Diremo solo che non sembra aver avuto successo a causa della caduta dell’aquila, e che Ištar deve essersi anche rifiutata di mettere la sua pianta a disposizione del nostro protagonista: nel suo sogno Etana aveva visto i leoni, che da altre fonti sappiamo essere gli animali simbolici di Ištar, avventarsi contro di lui. Cos’era dunque questa “pianta del procreare”? Era ovviamente quella che dava un frutto (come sempre sconosciuto e misterioso, visto che apparteneva al mondo divino) che dava alla dea Ištar la proprietà di procreare, o meglio far procreare uomini e animali. Come Ghilgameš non riuscì a mangiare il frutto della pianta della giovinezza, così anche Etana non divorò quello della procreazione: frutti evidentemente proibiti all’uomo, che non doveva né poteva uscire dai limiti della sua umanità. Se Ghilgameš non fosse stato beffato dal serpente, se Etana non fosse stato coinvolto in un volo disgraziatamente interrotto, se fossero riusciti, insomma, nel loro intento, che sarebbe accaduto?  Penso che sarebbero stati puniti, forse con la morte, forse con la degradazione della loro esistenza, perché chi non è dio non può aspirare a possedere qualità divine. È un messaggio che dalla Mesopotamia arriverà persino ad Alessandro Magno, che nella sua personale mitologia sarà rimproverato e respinto nel suo tentativo di salire al cielo: monito che ritroviamo espresso simbolicamente anche nelle raffigurazioni medioevali di Friburgo, Bitonto, Fidenza, Otranto, Venezia e altrove. Per inciso, la faccenda degli alberi sacri deve aver influito anche sulla mitologia greca, come d’altronde il racconto del diluvio (Deucalione e Pirra), che contiene parte del canovaccio mesopotamico-biblico (l’avviso al protagonista, la costruzione dell’arca, la colomba, il sacrificio dopo l’avvenimento). Miti greci parlavano infatti di un giardino, o meglio frutteto custodito dalle Esperidi, entro cui era sorto un albero dai pomi d’oro, dono della Madre Terra a Era e meta di una delle fatiche di Ercole. Anche qui ci troviamo di fronte ad un albero sacro. Tra l’altro, la storia contempla anche il fatto che Era, quando si accorse che le Esperidi coglievano i pomi, ordinò ad un fedele drago, di nome Ladone, di arrotolarsi attorno al tronco per farne attenta guardia. Il messaggio mesopotamico, modificato e corretto, è arrivato, come si è visto, nell’antichità del mondo ebraico. Qui Jahweh, in veste molto antropomorfica, risulta aver raccolto in un suo personale frutteto tutti gli alberi i cui frutti gli conferiscono le qualità divine. Con una generosità che non era contemplata nel mondo mesopotamico né lo sarà nella mitologia di Alessandro Magno, il Dio della Bibbia ha donato alla sua creatura umana la proprietà di mangiare il frutto di tutti gli alberi, tranne uno: simbolicamente, gli ha conferito la possibilità di diventare divino (poteva divorare anche il frutto dell’immortalità) ma sempre un gradino più sotto di lui. Questo frutto proibito era quello dell’albero “della conoscenza del bene e del male”. Che significa? Vedremo poi qualcuna delle varie elucubrazioni che ne sono state fatte. Tuttavia, a costo di una semplicità che potrebbe provocare (ma credo a torto) l’accusa di semplicioneria, bisogna dire che quest’albero non era altro che quello che la Bibbia dichiara. Basti solo sottolineare che nella letteratura semitica il modo di indicare la totalità delle cose è spesso quello di citare i due estremi. Per esempio, quando troviamo scritto che in una qualsiasi occasione erano presenti “i piccoli e i grandi”, si voleva significare che c’erano tutti, non soltanto chi era giovanissimo o vecchio. “La conoscenza del bene e del male” è dunque “la conoscenza di quanto esiste tra il bene ed il male”, e cioè la conoscenza di tutto, l’onniscienza. Ne deriva che Dio aveva proibito ad Adamo ed Eva di diventare onniscienti, e che il peccato del primo uomo è stato quello di aver voluto acquisire la conoscenza, uscendo da quello stato di “buon selvaggio”, di ingenuo e pacifico bambino capace di restare sempre giovane e immortale, di avere la bellezza, la potenza, la signoria del suo habitat e quant’altro, ma di restare pur sempre beatamente ignorante. Quale sia il messaggio che la Bibbia abbia voluto infondere, si può intuire ma anche discutere per esaminarlo e approfondirlo, ma credo debba essere chiaro che, se si vuole comprenderlo, si debba partire dall’analisi del testo senza voli immaginari ed eccessive fantasie, ed alla luce della cultura ispiratrice. Il frutto Quasi tutte le raffigurazioni del “peccato originale” mostrano il frutto, solitamente in mano ad Eva. Ed è la mela. Ma la Bibbia si guarda bene dal dare un nome a questo frutto, che infatti era particolare e strano, sconosciuto ai mortali, visto che sappiamo dalla letteratura mesopotamica che doveva essere solamente divino. Si è pensato alla mela per influenza della mitologia greca e dei suoi “pomi d’oro”? Verrebbe da pensarlo, ma il melo delle Esperidi non produceva frutti normali, ma d’oro. Erano dunque speciali, sia che fossero fatti di metallo, sia che d’oro avessero solo il colore, come se fossero i cachi o le arance di oggi. Il fatto è che è stato quasi universalmente dimenticato che il latino malum significa sia “male” che “mela”. Il frutto del male non poteva essere, dunque, che la mela: attribuzione, oltre che falsa, alquanto recente rispetto alla Bibbia, visto che malum è parola latina. Invece già gli Ebrei, ignorando ormai la derivazione mesopotamica, si erano chiesti quale fosse questo frutto misterioso, e fecero un buffo ma simpatico ragionamento: appena ebbero peccato, Adamo ed Eva si trovarono nudi, e subito badarono a coprirsi con delle foglie di fico. Avranno dunque preso le foglie dall’albero più vicino, e cioè dall’albero “del bene e del male”. Che dunque doveva essere un fico. Tra le varie raffigurazioni in cui il l’albero è un fico, cito solo quella che mi è più cara: il grande albero che campeggia nel mosaico pavimentale di Otranto, da tutti (chissà perché) inteso come “albero della vita” contro ogni evidenza. È invece un albero di fico, con Adamo ed Eva che ne colgono il frutto. Di più: siccome l’albero del peccato, si è visto, era l’albero della conoscenza, e dunque anche della scienza, si paragonò l’albero alla scienza stessa, fatta di continua fruttuosa ricerca, proprio come quando si cercano fichi tra le foglie, e se ne trova sempre uno. Il serpente Nell’antica Mesopotamia l’interpretazione della figura del serpente non è, purtroppo, univoca. Tanti sono i casi in cui appaiono in scena serpenti cattivi, ma tanti sono anche quelli in cui il serpente è una figura positiva. Nella Bibbia il serpente è ovviamente negativo, ma viene da chiederci come mai è stato scelto a rappresentare come animale “tentatore” proprio quello, che nella letteratura da cui gli Ebrei traevano spesso, come si è visto, ispirazione, appare sì malvagio, ma talvolta anche buono e benefico. Azzardo un’ipotesi: un po’ come il drago greco che si attorcigliò attorno al melo delle Esperidi, forse questo serpente era un drago. Nulla cambierebbe ai fini della soluzione di questo problema, se non pensassimo che il drago era il simbolo di Marduk di Babilonia, la città nemica, la città della deportazione, la grande meretrice (che invece, se badiamo alla storia, trattò bene gli Ebrei deportati dando loro una certa libertà di pensiero e di azione, tanto da far tornare a Gerusalemme gente benestante o addirittura ricca, mentre altri preferirono rimanere in un paese in cui stavano evidentemente benissimo). Che poi si trattasse di un drago con le sue brave zampe, verrebbe da dedurlo anche dalle parole di Jahweh, che dopo l’episodio condannò l’animale a strisciare. La contrapposizione “perfida Babilonia – santa Gerusalemme” non mancò mai di segnare profondamente l’animo ebraico, sicché pensare ad un drago demoniaco, causa della caduta dei progenitori, non sembrerebbe idea particolarmente peregrina, se non fosse che saremmo costretti a pensare ad una figura di serpente-drago inserita, nel VI secolo a.C. circa, in un racconto risalente ad un periodo precedente, quale sarebbe quello della tradizione Jawista, a cui si farebbe risalire la composizione dell’episodio. Resta comunque il fatto che il serpente risulta molto legato, nella mentalità mediorientale, al sesso ed alla procreazione. Da qui «l’identificazione del peccato originale come l’uso o abuso del sesso, che era molto comune nell’interpretazione rabbinica e patristica» (McKenzie) come vedremo. Il luogo Naturalmente non dobbiamo cercare di sapere dove fosse il Paradiso terrestre ma, ovviamente, dove il compilatore di questo brano del Genesi immaginava che fosse.

Qualche indizio significativo ce lo suggerisce. Intanto c’è quell’espressione “a oriente”, che non può aver indicato che la Mesopotamia, il paese al di là del deserto, a est della Palestina. Poi ci sono i fiumi che avrebbero attraversato questo “Paradiso”: se due di questi fiumi non sono identificabili, gli altri due sono il Tigri e l’Eufrate, il che sembra decisivo. Tra l’altro, almeno uno dei due fiumi ignoti potrebbe indicare sempre la Mesopotamia, se il paese Cuš, che vi è citato, indica i Cassiti (fiume Diyala?). Infine, è curioso e singolare il fatto che il paese in cui fu piantato il frutteto sia stato chiamato Eden, una parola addirittura sumerica che indica la steppa, la piana desertica, e che passò poi ad indicare toutcourt (ma falsamente) il Paradiso stesso. Dunque secondo la testa del compilatore del Genesi (o di chi lo abbia ispirato) il Paradiso terrestre era stato posto da Jahweh nella pianura mesopotamica. Il peccato sensuale/sessuale Un libro di Antonello Gerbi, Il peccato di Adamo ed Eva, edito nel 1933 ma recentemente riproposto con aggiunte (Milano 2011), illustra con encomiabile accuratezza come, nei secoli, il peccato originale sia stato inteso quale peccato di concupiscenza. In altre parole, il “frutto proibito” altro non era che il desiderio sessuale, la proibizione quella di cedervi, ed il peccato l’avervi ceduto. Sia chiaro, ci sono state anche eccezioni con interpretazioni differenti (Mosè Bar Cefa, nel IX secolo, ha  pensato ad esempio ad un peccato di gola!) ma l’ipotesi basata sulla concupiscenza e sul sesso è stata di gran lunga la più seguita. L’elenco dei vari autori del passato che hanno discettato sul passo del Genesi, sempre partendo da questo assunto dato come sicuramente acquisito, è stupefacente. Si va da Filone Giudeo (I sec.), che non ha condannato il desiderio di unirsi ma il piacere fisico, a Clemente Alessandrino (II-III sec.) che ha condannato la fretta della copula, permessa sì ma da realizzare più tardi; e si va poi da Origene a S. Agostino fino ai Càtari ed altri interpreti del Medioevo, quando è stata intesa come frutto proibito la stessa Eva, “mangiata”, cioè conosciuta da Adamo.. E le foglie di fico? Visto che prudono e pungono, erano cilìci. Ogni studioso, antico e non antico, ha detto la sua, creando un intero patrimonio d’intreccio di idee, convinzioni, invenzioni, interpretazioni. C’è chi ha pensato che quel drammatico coito sia stato originato dalla debolezza (S. Ambrogio, S. Bonaventura, Duns Scoto), chi dall’orgoglio (Alberto Magno, S. Tommaso), chi ha creduto che il pomo fosse un frutto afrodisiaco, identificabile con il Manzanillo dei Tropici oppure con la Mandragola (Phisiologus): un frutto che possedeva comunque una qualità tale da operare un mutamento che accentuò la sensualità (Michaelis). C’è stato invece chi ha pensato, in anni recenti, che abbia fatto male perché era marcio! Attraverso Leone Ebreo (XVI sec.), Herder, Kant, Folengo, l’Aretino, Lutero, Calvino, Beverland, Kierkegaard e quant’altri, senza contare uno stuolo di interpreti più recenti, le varie elucubrazioni fantasiose si sono sbizzarrite lungo i secoli: ecco che Eva offre ad Adamo i frutti del suo seno, ecco che ambedue erano ermafroditi, ecco che il serpente nell’arte ha due zampe, le ali e la testa di uccello, come nella porta bronzea di Hildescheim (XI sec.), o la testa di donna (come in Masolino), oppure un corpo intero che pare femminile (Michelangelo), o ha la testa di giovane o di bambino tipo Cupido (Tiziano), o tutto il corpo efebico (Jacopo della Quercia). Certo è che il racconto si è colorato di accentuata sensualità e di lussuria da quando il Cristianesimo ha predicato la mortificazione della carne. Lo stesso Gerbi, alla fine della sua opera, ha riconosciuto che questa teoria del peccato sensuale e sessuale non può essere intesa come legittima. Per lui si tratta di “idiozie, sudicerie, tormentati arzigogoli”. Il peccato sarebbe consistito, invece, nella disobbedienza, per il fatto che i progenitori hanno dato ascolto ad altri dèi. Dunque Adamo ed Eva avrebbero peccato contro il Comandamento “Non avrai altro dio fuori di me”, il che può essere più semplice e ragionevole, solo che Gerbi ignorava quell’immenso patrimonio storico-letterario rivelato dalla recente decifrazione dei testi mesopotamici sumerici e accadici, che hanno svelato la vera natura del passo. In ogni caso, a tutti gli infiniti studiosi ed a quella marea di persone che comunque condivideva quella assurda idea di base, si potrebbe anche obiettare un breve passo che riporterò fra poco, in cui Dio afferma che dopo il peccato Adamo ed Eva erano divenuti, per averlo commesso, come Lui. Il che significherebbe che anche Lui copulava.  Alla fine di questa analisi, non resta che ribadire quanto si è detto prima: il vero peccato fu quello di volere l’onniscienza, che potremmo chiamare semplicemente “conoscenza”, o “scienza”, o anche “saggezza”, o “sapienza”, perché è un dato di  fatto che l’uomo non è certo diventato onnisciente, prerogativa che resta di Dio. Può essere dunque che l’antico Autore abbia voluto giustificare il fatto che l’uomo non è più né un innocente  animale né un beato semidio, visto che ha imparato a “conoscere”, ma che fuori dal “Paradiso Terrestre” la sua “conoscenza” si sia ridotta al livello umano, si sia abbassata alla sola capacità di capire e di acquisire dei dati, non già e non più alla conoscenza del tutto. Peccato, perché in quel “Paradiso” c’era anche “l’albero della vita”, cioè dell’immortalità, ed Adamo non ne aveva mangiato! Dice infatti Jahweh: Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi (= Dio) conoscendo il bene e il male. Ebbene, che non possa, allungando la mano, cogliere ancora (il frutto) dell’albero della vita e mangiandone vivere eternamente! Ma bisogna anche dire che forse quell’antico ebreo che scrisse l’inizio della Bibbia aveva capito che la conoscenza delle cose dona potere, e che l’ignoranza (giust’appunto “beata ignoranza”) rende soggetti. L’uomo è nelle mani di chi ne sa più di lui, di chi conosce il latinorum meglio di quell’ignorante di Renzo Tramaglino, e così Dio, al posto di quel sistema di dominare l’umanità, e cioè farla restare ignorante, è stato poi costretto ad opprimerla. Lo avevano capito anche gli antichi. L’egiziano Anekh-scescionki scriveva: «Non dire “Sono istruito”, ma mettiti ad imparare», mentre il Papiro Insinger riporta il detto: «Anche il piccolo scritto può fare un gran bene». Basti pensare a quale alto livello nella scala sociale fossero gli scribi, anche al tempo di Gesù Cristo. Nei nostri tempi, invece, potremmo chiamare questa “conoscenza” con un altro nome: “cultura”, una cultura intesa anche in senso più ampio, comprensiva di quella predisposizione d’animo verso gli altri, che ogni uomo “colto” dovrebbe avere: rispetto non solo della vita (quel rispetto che mancherà a Caino), ma del pensiero, della personalità, in ultima analisi della libertà degli altri. Mi resta da formulare un pensiero finale: sarà la mania di vedere dappertutto lo stesso monito, ma anche qui mi pare che ritorni il medesimo ossessivo insegnamento: il messaggio che abbiamo trovato in Ghilgameš, in Etana, in Alessandro, è lo stesso che, in fondo, troviamo nel Genesi: non cerchi l’uomo di diventare Dio! Non cerchi Ghilgameš, a cui era già stato concesso un impero, di ottenere l’immortalità degli dèi, non cerchi Etana, a cui era stata data la priorità di un regno, di ottenere la divina forza procreativa, non cerchi Alessandro, che già era diventato il signore della terra, di salire al cielo, non cerchi Adamo, cui erano state donate tante qualità addirittura precipuamente divine, di trapassare il suo stato per uguagliarsi a Dio. L’avere cercato di uguagliarsi a Dio attraverso la “conoscenza” riporta allo stesso tema proiettato al tempo attuale. Oggi la “conoscenza” va ben oltre il concetto che ne avevano gli antichi mesopotamici, per i quali la scienza era fondamentalmente una istruzione nozionistica ancora incapace di formulare regole e concetti generali, patrimonio futuro dei Greci: era una “scienza” frutto della mnemonica acquisizione di dati maniacalmente elencati, o frutto di una diretta esperienza, come quella di Ghilgameš che ha visto tutto, che ha conosciuto tutto, e tutto sa. Ha esplorato ogni [paese, ha ottenuto] la totale saggezza […]. Ora è diverso: la “conoscenza” non si limita certo solo a quello, ma si è enormemente evoluta, come concetto e come attuazione. Tuttavia l’uomo potrebbe avviarsi, con tutt’altri e attuali sistemi, alla stessa tragica conseguenza minacciata a tanti eroi ed inferta ad Adamo. Il che è bene esplicitato da Pietro F. Bayeli, che recentemente ha scritto (Hiram 3/2011, 94 sg.): Valore della conoscenza e conquista della verità sono stati i grandi meriti della mente umana del periodo illuminista. Da allora ogni nuova scoperta scientifica ha aperto nuovi orizzonti, la scienza viene usata come strumento conoscitivo sia del cosmo che dell’uomo stesso. L’identità dell’uomo tuttavia non può racchiudersi nel solo sapere scientifico […] La scienza è un’espressione parziale della mente umana, instancabilmente curiosa di conoscere la verità […] Ma se la scienza è conoscenza, verità e conseguente tecnologia, può essere anche patologia, quando l’uomo ritiene con la scienza di essersi pienamente realizzato attraverso l’onnipotenza, l’egemonia del proprio superbo sapere scientifico […] L’uomo deve imparare a convivere con i propri limiti al fine di ricavare proprio da essi tutte le varianti possibili del compromesso tra le aspirazioni e la realtà […]. Se pensiamo a tutte le mostruosità che la scienza può creare, con la sua capacità di distruggere interamente l’umanità come e più del diluvio, o peggio ancora di clonare o addirittura creare l’uomo “a immagine e somiglianza” di quanto lo scienziato desideri, il pericolo qui sottolineato deve essere allora costantemente presente, perché puntare a Dio è bene, uguagliarsi a Dio è diabolico.

 HIRAM 2/2012

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