CONSIDERAZIONI SU PITAGORA
di A. Menzio
Siamo all’inizio del vi secolo a. C. Contemporanei di Pitagora sono in Cina Lao-Tze che perfeziona e coordina l’esoterismo di Fo-Hi e anche in India l’ultimo Budda, Sakyamuni che, sulle rive del Gange, predica princìpi analoghi a quelli di Pitagora e di Lao. A Roma, dove i senatori si lasciano andare ad ambizioni sfrenate, il clero etrusco invia un iniziato, munito dei libri sibillini: il re Numa. Tutti sono dei riformatori e tutti sono iniziati. La loro influenza è grandissima. Lo scopo della loro missione è comune: rispiritualizzare l’umanità e creare una medesima corrente di pensiero che pervada e percorra genti e paesi, migliorandoli. Migliorare se stessi per migliorare l’umanità. È il nostro scopo. Per lo meno lo proclamiamo tutti i momenti. Fa parte del nostro rituale. Prendiamone nota e riflettiamo sulle origini antiche della nostra istituzione e sulla in interruzione della Tradizione iniziatica. La Grecia conosce tre secoli di splendore artistico e spirituale e ancora oggi noi ragioniamo con i chiari schemi dei suoi filosofi. Due sono le grandi figure (guarda caso di iniziati) che hanno posto le basi di questo irrepetibile momento evolutivo. Orfeo e Pitagora. Mentre Orfeo, ripristinando il culto di Dioniso e approfondendone i misteri, è l’indiscusso maestro della Grecia sacerdotale, Pitagora è il maestro della Grecia laica. Egli infatti coordina i misteri orfici in un sistema, fornisce la prova scientifica del suo insegnamento e offre la prova morale del proprio istituto educativo che è, insieme, civile, morale ed esoterico. Gli scrittori dell’antichità sono tutti concordi nel riconoscergli un carisma eccezionale e i neo-platonici alessandrini, gli gnostici e i primi Padri della Chiesa lo citano come una indiscussa autorità. Dura trentaquattro anni la complessa iniziazione di Pitagora. Ventidue in Egitto e, dopo che Cambise invade la terra dei Faraoni, . dodici a Babilonia. Ha modo di conoscere tutte le saggezze. Da giovane, una notte chiara, di fronte a un tempio dorico, sembra abbia avuto una visione. Lui, uomo, tra la terra e il cielo. La terra gli diceva: fatalità. Concatenazione rigida tra causa ed effetto. Il cielo gli parlava di Dio, di un qualche cosa di misterioso da cui tutto aveva inizio e in cui tutto trovava fine. L’uomo, lui stesso, non era che follia, dolore, sconcerto e sgomento. Ma anche volontà e libertà. Tre mondi. Tre linguaggi diversi. L’uomo in questa scomoda posizione di mezzo: legato alle vicende mortali della terra (leggi: natura) e al tempo stesso attirato dall’infinità misteriosa di Dio. Il Cosmo (parola di sua invenzione) doveva essere la sintesi di questi tre mondi. Guardò la facciata, in particolare il frontone triangolare del tempio. Ecco. Questi tre punti uniti da linee. Era non solo possibile rappresentare graficamente la sua intuizione con un triangolo, ma anche avere in mano uno strumento, il numero (o misura) che consentiva la decifrazione dell’universo, che poteva spiegare certe leggi fisiche e soprattutto l’ordine e l’armonia dell’universo. Capì come i mondi si muovono secondo certi ritmi che sono matematici, che cielo e terra, sempre in bilico ma che devono mantenere un equilibrio, possono essere retti dalla libertà umana e che proprio la funzione dell’uomo (del quale altrimenti non si capirebbe la necessità nell’ambito universale) è quella di avvicinare il materiale a quello spirituale perché si compia una perfetta fusione. Se tutto è numero (geometria) anche l’uomo lo è. Due sono le grandi leggi numerologiche di Pitagora: quella ternaria che regge la costituzione degli esseri e quella settenaria che presiede alla evoluzione. Che poi questi numeri siano magici ciò deriva dall’insegnamento egizio. Uno dei capisaldi del sacerdozio di Menphi era: «La scienza dei numeri e l’arte della volontà sono le due chiavi della magia: esse aprono tutte le porte dell’universo». Pitagora concepisce le sfere della vita e le scienze in un ordine con- centrico. Lo spirito involve nella materia per mezzo della creazione universale, ma evolve, ossia risale verso l’unità (il primo motore) per mezzo della creazione individuale. Cioè con lo sviluppo di una coscienza. Quando noi parliamo di consapevolezza, e vi si insiste parecchio nei primi insegnamenti esoterici, proprio questo vogliamo dire. Uno dei princìpi che ritroviamo come un caposaldo in Massoneria, ci deriva anche esso da Pitagora. Quando giunse a Babilonia Pitagora trovò che nell’alto sacerdozio della città coesistevano tre diverse religioni. C’erano i caldei, ch’erano i superstiti del magismo persiano e i giudei. Una convivenza del tutto pacifica e tollerata dalle autorità. Pensiamo che Daniele, assertore del Dio di Mosè, fu primo ministro di Nabucodonosor, Baldassarre e Ciro. E non facevano certo mistero della propria fede. Ad alto livello i sacerdoti, che erano tutti iniziati, parlavano la stessa lingua e tutti sapevano dell’unità, del principio. Essi consideravano (tranne gli ebrei rigorosamente monoteisti) gli dèi come manifestazioni di diverse qualità dell’essere. Questo atteggiamento di tolleranza verso le religioni, questo riconoscere a ciascuna in particolare e a tutte in generale una parte di verità e una — se vogliamo — funzione conoscitiva e sociale, è uno dei nostri atteggiamenti massonici più rilevanti. Ma torniamo alla magia che noi moderni intendiamo come una sorta di mistificazione da quattro soldi, come un retaggio medioevale e da gente rozza e incolta. Zoroastro che insegnò «Il numero tre regna ovunque nell’universo e la monade è il suo principio» fu un mago e i sacerdoti suoi discepoli ed eredi erano in fondo i premi Nobel della scienza dell’epoca. Tanto per fare un esempio, nei templi dei magi le lampade si accendevano da sé e i corpi erano spostati da un luogo a un altro senza l’intervento di nessuno e di nessuna cosa. I maghi sapevano sfruttare il magnetismo e captare le correnti elettriche dell’atmosfera. Essi conoscevano il potere suggestivo della parola e lo usavano. Dicevano: non mutare le parole evocative perché esse sono i nomi panteistici di Dio, magnetizzate dalle adorazioni di una moltitudine e la loro potenza è ineffabile. Permeato di conoscenze magiche Pitagora attribuì anche al numero qualità magiche, ma solo in quanto il numero è conoscenza e per lui la magia era come per Zoroastro — il principio. Tornato in Grecia, Pitagora va a Delo. Il tempio di Apollo con la Pitia seduta sul tripode posto al di sopra di una fessura da cui uscivano fumi e vapori che mandavano in convulsioni la pitonessa. Due parole su Apollo che, come Dioniso, è una rivelazione della divinità. Mentre Dioniso rappresenta la verità esoterica, l’ultima essenza del- le cose svelata solo agli iniziati, Apollo è la stessa verità ma applicata alla vita terrestre e all’ordine sociale. Apollo è la scienza per mezzo della divinazione, è la bellezza per mezzo dell’arte, è la pace tra i popoli per mezzo della giustizia ed è armonia tra anima e corpo per mezzo della purificazione. In altre parole. Dioniso per l’iniziato è lo spirito divino in evoluzione nell’universo, mentre Apollo è la manifestazione terrestre di questo stesso spirito divino. Apollo è una divinità solare. Rubbia, il Nobel, ha detto recentemente che «capire il Sole è capire l’universo», mentre le ricerche iniziate da Zichichi e altri scienziati sotto il Gran Sasso, sono tutte volte a verificare la teoria dell’unificazione, alla ricerca dei magneti con un solo polo e questi monopoli sarebbero, secondo le più avanzate ipotesi, relativi al big bang. Spiegherebbero cioè la creazione. Non mi pare ci sia una grande differenza tra le intuizioni dei grandi iniziati e i risultati delle più sofisticate e aggiornate ricerche. I magi persiani già giocavano con il magnetismo qualche migliaio di anni fa. Consentitemi di ritornare ad Apollo di cui mi piace ricordare una leggenda delfica. Il Dio giunse a Delfo che era devastata da un orrido serpente. Lo uccise e, risanando la contrada, eresse il tempio. Nelle antiche religioni il serpente simbolizzava il cerchio fatale della vita e il male che ne è l’effetto. Tuttavia da questa vita nasce la conoscenza. Apollo che uccide il serpente è il simbolo dell’iniziato che penetra la natura per mezzo della scienza, la doma con la sua volontà e, rompendo il cerchio fatidico della carne, sale nello splendore dello spirito mentre i resti spezzati della animalità si contorcono nella sabbia. Non è il caso di guardare con occhi nuovi il mito di Eva, Adamo e il serpente