NIHIL NIMIS: TRA FORZA E CORAGGIO
di C. S. (11 Di cembre 2020)
In occasione della Tavola su “Ercole” del Fr. M. L.
La bella Tavola del Fr. M. L, , sul più grande eroe geco Eracle, Ercole per i Romani, mi ha ispirato a riflettere sul rapporto tra “forza e coraggio” e come devono essere interpretati questi concetti da un INIZIATO LIBERO MURATORE. Questa riflessione mi evoca i quattro precetti di Cicerone, che risalgono al 50 a.C. riportati nel suo testo: “ Confini del bene e del male”. In sole otto parole, ciascun precetto è costituito da due parole -come se fossero dei moderni twitter- Cicerone sintetizza la summa della saggezza classica. Essi rappresentano un messaggio forte non solo per l’uomo di duemila anni fa ma anche per l’uomo post moderno e, secondo me, in modo particolare per l’”Uomo Libero Muratore”. Questi quattro precetti sono 1. TEMPORI PARERE (obbedire al tempo); 2. SEQUI DEUM (seguire Dio); 3. SE NOSCERE (conosci te stesso) 4. NIHIL NIMIS (non eccedere).
Ecco, l’ultimo precetto NIHIL NIMIS (non eccedere) è fortemente correlato con il tema di stasera, con il concetto di forza e di coraggio. Questo precetto significa che l’uomo “non deve desiderare nulla di troppo”, com’ era scolpito nel tempio di Apollo a Delfi ( città greca, sede dell’importante tempio di Apollo; si pensava che Delfi fosse il centro del mondo, sede dell’omphalos o ombelico del mondo). Questo significa che l’uomo deve stare lontano dagli estremi o dagli eccessi, deve avere una “ giusta misura”, deve seguire il “giusto mezzo”; deve possedere un equilibrio interiore. Anche Aristotele nell’”Etica Nicomachea” scriveva: “ ogni uomo dotato di scienza rifugge sia l’eccesso sia il difetto, mentre ricerca la medietà…l’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà della virtù”. Quindi secondo Aristotele il criterio della moderazione, del giusto mezzo è legato al carattere virtuoso, giusto, equo, saggio, sapiente, prudente. Questo precetto stimola a “osservare la misura e non oltrepassare il limite” e a questo punto subentra, in modo inscindibile, anche il terzo precetto: “Se noscere” , conosci te stesso, che vuol dire semplicemente: conosci il limite dell’uomo stesso: la sua finitezza, la precarietà della vita, la fragilità umana, il bisogno dell’aiuto altrui, l’esposizione al destino favorevole o sfavorevole, fino a diventare uomini “ imperturbabili” / ”saggi”: non rallegrarsi sfacciatamente nella vittoria e, se vinti, non abbandonarsi al dolore …gioire delle gioie, affliggersi ma non troppo dei mali. Perché nella vita è insito un “ritmo: tempi forti e tempi deboli”, proprio come nelle musica …è una legge metrica. Conoscere se stesso vuol dire sapere che l’uomo è mortale ( come diceva Pindaro- che l’uomo è una “creatura effimera”… “mortale”: “ Viviamo un giorno, cosa siamo mai? Cosa non siamo mai? Un uomo è Sogno di un’ombra”; o come scriveva Anna Arendt: “l’irreversibilità della vita umana, è dominata dal divenire e dalla morte”…” L’uomo la cui vita si muove in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue, semmai un moto ciclico” …“Il metabolismo umano, è un processo irreversibile, senza ritorni né recuperi. Tuttavia il metabolismo umano è legato a quello cosmico, e la morte non è altro che l’interruzione di questo rapporto”; o come diceva Alcmeone (medico greco del VI secolo a. C. ) “l’uomo muore perché la sua vita non ha una la forma perfetta del cerchio e quindi immortale, dove inizio e fine coincidono, ma dell’arco, dove principio e fine sono disgiunti”; o come diceva il filosofo Epitteto: “ La morte soprattutto sia davanti ai tuoi occhi, così non desidererai qualcosa oltre misura” ; oppure come diceva Agostino: “l’uomo si porta addosso la sua natura mortale” …un uomo è destinato alla morte” ). “Conoscere se stessi” vuol dire anche conoscere il “divino che è in noi” e questo deve indurci a ricercarlo…”Deum sequi” e come diceva Seneca “farsi pari a Dio” ( Il Dio di Seneca -non equivale a quello cristiano – è un Dio anonimo, impersonale, è impassibile, non conosce la sofferenza ; al contrario il Dio cristiano è sofferente, conosce la passione sulla Croce), la vocazione del un saggio è quella di “seguire Dio”; il saggio omerico è colui che si “ apre agli dei”. Deum sequi, significa anche : ognuno “segua il suo demone”. Secondo Socrate, il “demone” rappresenta il “demone personale”…il nostro “demone interiore ” …la nostra “divinità tutelare , che ci accompagna tutta la vita, che ci ispira e che detta la nostra decisione finale. Questa divinità interiore è definita anche Daimon: è un essere intermedio tra noi uomini e Dio; e si identifica con il nostro angelo custode, con la nostra anima, con la nostra sorte, con il nostro destino, con il nostro fato…è il divino che è in noi …un compagno inseparabile , un consigliere invisibile. È la nostra voce interiore. Il Demone è quello che ciascuno di noi ha avuto in sorte, e che tiene i fili della nostra vita; come ci suggerisce il mito platonico di “ Er”. Marco Aurelio identificava il Daimon con la ragione, con il pensiero. Rainer Maria Rilke – scrittore e poeta austriaco 1875-1926 – scriveva in una sua lettera a un giovane poeta: “ Nessuno può dare consigli o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé”… segua il suo demone. Pertanto, rilevante risulta non solo conoscere se stessi ( il limite dell’uomo e della natura) ma sapere che sfidare o infrangere il questo limite può essere un’esperienza rovinosa… può essere solo un vano orgoglio. Ricordiamo a questo proposito: il volo di Icaro accostatosi troppo al sole; l’andata all’Ade senza ritorno di Orfeo; il “folle volo” dell’Ulisse dantesco oltre le colonne d’Ercole (XXVI canto dell’inferno).