L’ULTIMO BAGLIORE E LA LUNA DEL MATTINO
di Michele Moramarco
Cremazione/dispersione delle ceneri, sacralità e libertà
“Ram Satya Ek”. Dio è l’unica verità. Sono parole con le quali sovente, nel costume indù, si scorta il trapassato alla pira crematoria.
Sono parole che fanno riflettere sul fatto che la cremazione non si riduce necessariamente – come talora pretendono i suoi critici – ad una prassi sbrigativa, negatrice di fede nell’Eterno.
Non è, neppure storicamente, così. Nella civiltà indo-aria, per più versi madre di quella greco-romana, la dissoluzione dei cadaveri mediante il fuoco è intesa proprio come liberazione dell’uomo dalla precarietà, dalla temporalità del suo organismo biologico, e come omaggio alla Divinità, verso la quale – sulle ali del fuoco, anch’esso manifestazione di un essere celeste chiamato Agni nell’Induismo – s’innalza la sua parte “sottile” e immortale.
Il fuoco vedico (da “Veda”, titolo del più antico testo sacro indù) è altresì collegato alla dimensione famigliare: consumando in esso il proprio involucro materiale, lo spirito umano si avvia lungo il “pitriyana”, il sentiero dei padri, degli antenati, che lo orienterà verso quelle dimore di Luce da cui lo stesso fuoco trae la propria essenza.
Dal focolare domestico alla patria celeste, attraverso la pira funeraria: così, nella civiltà vedica, il fuoco ricollega lo spirito umano a un ciclo di generatività e di radiosità che ben poco ha da spartire con le idee di nulla, di oscurità e di estraniazione, comunemente associate alla morte.
Potremmo dunque assimilare la cremazione, per chi la viva con spirito religioso, ad un “rituale igneo”, ad una celebrazione spirituale associata al fuoco come simbolo dell’energia vivificatrice, purificatrice e trasformatrice di Dio. Nella stessa categoria, ancorché con diverse gradazioni, si trova l’accensione di candele e di fuochi, presente in tutte le tradizioni religiose e comportante lo scioglimento, l’incenerimento o la vaporizzazione di elementi naturali.
Anche la “esposizione al Sole” sulle Torri del Silenzio, praticata dai seguaci della religione zoroastriana (che generalmente non cremano i cadaveri perché non vogliono che il fuoco, essenziale nella loro liturgia, sia in alcun modo “contaminato” dalla morte), rientra comunque nella categoria dei “rituali ignei”, il Sole altro non essendo che una condensazione sferica – e storica – del Fuoco primordiale. Essa rimanda altresì all’idea, cara ai cremazionisti che optano per la dispersione delle ceneri, della restituzione del corpo alla natura: sulle Torri del Silenzio, prima che le ossa siano consumate dall’azione congiunta dei raggi solari e della pioggia, gli avvoltoi trovano cibo per sé, immagine che agli occhi di molti cristiani appare macabra e irriguardosa, mentre per gli zoroastriani ortodossi sono semmai sacrileghi i nostri cimiteri, veri e propri templi dedicati al demone della decomposizione.
Tornando al valore del fuoco tra i simboli spirituali, ricordiamo che nell’Antico Testamento Dio si manifesta in un roveto ardente: Mosè “guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava… E Dio lo chiamava dal roveto” (Es. 3: 2, 4); nel Vangelo di Tommaso, una raccolta di detti e atti attribuiti a Gesù, in uso presso le antiche comunità dei cristiani gnostici, leggiamo: “Gesù disse: colui che è vicino a me, è vicino al Fuoco” (Ev. Th., 89).
Possiamo vedere nel Gesù-Fuoco una metafora dell’amore e della libertà supremi, che stanno in Dio, e alimentare il nostro rito crematorio con una scintilla di quell’amore e di quella libertà?
Raccontano gli Atti degli Apostoli (2:1-13): “E il giorno di Pentecoste tutti erano insieme… e apparvero delle lingue di fuoco e se ne posò una su ciascuno di loro. E tutti erano fuori di sé dallo stupore. Ed altri dicevano: sono pieni di vino dolce”. Commenta in proposito U. Pagnotta: “Il fuoco è libero, ardente, trasformatore… Pentecoste significa, nel simbolo, rinascita dei cuori ardenti, cioè accesi dallo Spirito del Fuoco ovvero dallo Spirito di Dio…Ecco il fuoco sacro, cioè l’esperienza dell’entusiasmo religioso, ed è una “festa” perché Dio si presenta dentro di noi e perché il Fuoco è unità e determina la fusione dei cuori”.
E’ possibile, per noi, vedere nel rito crematorio una simile trasfigurazione “pentecostale” del dolore, una prospettiva di unità, di fusione, di ascesa?.
La dispersione delle ceneri fa temere il distacco totale delle tracce corporee dei propri cari. Si avverte, da parte di molti, la necessità di un luogo di conservazione ultima. Se da un lato tale affettuoso bisogno è assolutamente rispettabile, dall’altro non bisogna dimenticare che proprio in chiave spirituale il ricordo dei cari trapassati è tanto più vivo ed efficace quanto più è profondo, ovvero interiore. Per chi crede nell’Invisibile, il rapporto con chi ci precede in esso passa attraverso risonanze intime, intuizioni, ispirazioni. Anche le lacrime di nostalgia sono un “ponte celeste” che ci unisce a loro. Il luogo della conservazione ultima si trasforma così, a partire dalla nostra coscienza, in qualcosa di più vivo dell’urna e del marmo: affidate al vento (che tanto in greco quanto in ebraico è sinonimo di “spirito”), le ceneri volano come frammenti di memoria sui prati e sulle acque, mentre nella camera del nostro cuore permangono le impronte della vita e della mente che avevano animato quelle ceneri.
Nel capitolo dedicato ai rituali funebri di un suo testo religioso, Keshub Chandra Sen, esponente del movimento riformatore indù che si batté per l’abolizione del “sati” (la pratica per cui le vedove erano tenute ad immolarsi sulla pira del marito), scrisse: “Voi, parenti ed amici, non cercate di tenere in gabbia l’uccello dello Spirito, in procinto di volare, ma aiutatelo ad essere libero, affinché possa innalzarsi cantando il nome di Dio”.
Anche nella spiritualità cristiana, peraltro, troviamo concetti che possono supportare l’idea “dispersionista”: poiché nel corpo o nelle ceneri del trapassato la mente umana intravede una simbolica difesa dal dissolvimento dell’ “Io”, sarà opportuno ricordare che, secondo l’evangelista Luca (17:33), Gesù affermava: “Chi cercherà di salvare la sua vita la perderà; ma chi la perderà, la conserverà”.
E’ insomma diffusa, entro i quadri della spiritualità universale, l’idea che bisogna perdersi per ritrovarsi, dissolversi come un suono nel vento per reintegrarsi nella pienezza della Vita vittoriosa.
Cremazione, educazione ed “esperienze di vetta”.
Devo confessare di essere un cremazionista di ripiego, poiché considero l’esposizione al Sole sulle Torri del Silenzio, ancora in uso presso i credenti nell’antica fede zoroastriana, come la più illuminata tra le tecniche di reintegrazione del corpo in natura, anche se non facilmente praticabile (ricordo, peraltro, come anni fa il leader de WWF Pratesi dichiarò che l’applicazione di tale modalità sulle nostre montagne sarebbe stata auspicabile, poiché avrebbe favorito il ripopolamento di rapaci e di conseguenza l’equilibrio ecologico).
Ciò premesso, vorrei svolgere alcune considerazioni di carattere critico, non apologetico, sulla cremazione nella prospettiva multiculturale entro la quale noi oggi, volenti o nolenti, ci troviamo ad operare.
Nel cremazionismo ottocentesco la tensione etica ed educativa era molto forte. Qui vorrei inserire un elemento di provocazione culturale, rimarcando come nei circoli collegati al movimento cremazionista dei primi tempi ruotassero medici, pensatori, politici ed educatori che si fecero alfieri dei primi asili infantili. Erano i tempi dei Fratelli Gaetano Pini, Pirro Aporti, Paolo Gorini, Michele Coppino, Aurelio Saffi e Domenico Angiulli, di tutta la schiera dei sostenitori di un approccio pensante e dignitoso alla nascita, alla crescita e alla morte.
Il cremazionismo massonico ottocentesco non aveva alcunché di “tanatocentrico”, non si fissava cioè sull’evento-morte, ma si considerava come l’ultimo tratto di un percorso ideale, che prendeva avvio dalla valorizzazione dell’infanzia. E’ dimostrabile che dal medesimo ambiente socio-culturale uscirono tanto l’istanza cremazionista quanto quella educazionista.
Qual è l’intimo vincolo che univa la scelta della cremazione e l’impulso all’allestimento di asili infantili laici ? E’ una domanda che mi sono seriamente posto e alla quale – penso – vi è una sola risposta possibile: l’impegno a liberare l’uomo dalla paura e dal pregiudizio.
A quell’epoca la Chiesa romana era anti-cremazionista e catechizzava l’infanzia con la paura della pena eterna nelle fiamme dell’inferno (dottrina, questa, mai del tutto eliminata dalla teologia cattolica ufficiale, che ancora negli anni ’80 del Ventesimo secolo proclamava una intollerabile distinzione tra bambini battezzati e bambini non-battezzati rispetto al post-mortem).
I riti funebri ecclesiastici – al di là dei valori simbolici di rinforzo che contenevano – costituivano modalità di controllo sociale simmetriche a quelle della catechesi infantile. Il clero, come ha osservato U. Pagnotta, era l’equivalente di Caronte, il mitico traghettatore di anime, e solo attraverso al mediazione clericale – molti credevano – si poteva giungere al Cielo.
Ancora oggi, sia pure in una forma imbastardita e contaminata da un gretto edonismo, la società italiana è affetta da quel che potremmo definire il “complesso di Caronte”.
Contro tali ristrettezze mentali si formò un movimento di emancipazione, che partendo dalla liberazione dei bambini dalle pastoie di una educazione minacciosa e punitiva, giungeva alla liberazione del morente dalla paura della dispersione biologica e dalla coazione all’osservanza di riti sbrigativamente considerati salvifici.
Dignità dell’uomo e libertà dalla paura, dunque, insieme con la tolleranza rispetto a scelte e “rituali” diversi. Pochi forse ricordano che il Fratello Paolo Gorini fu anche un tecnico della imbalsamazione, che è pressappoco l’opposto della cremazione.
E’ vero, il discorso di quei pionieri verteva sulla formazione di una nuova Italia, che doveva aprirsi all’Europa e al mondo dopo il conseguimento dell’unità nazionale. Ma anche noi, oggi, stiamo vivendo una stagione di nuove identità comunitarie, legate alla multiculturalità indotta dai massicci flussi di immigrazione e dovremmo impegnarci a distillare quanto di più edificante le nuove afferenze culturali ci offrono.
A volte è difficile accettare gli stili di vita dell’altro. In alcune popolazioni tribali è costume addobbare il defunto e collocarlo in posizione eretta o seduta, durante la festa sacra celebrata in suo onore. Guardando un documentario televisivo che mostrava tale situazione, ho velocemente cambiato canale, poiché avvertivo un senso di impaurito imbarazzo e di disgusto. Ma riflettendo, ho raggiunto la conclusione che non sarebbe giusto impedire a quelle persone di mantenere una loro “traditio”, che scorre attraverso millenni di storia e che deve perciò essere considerata non come un residuo antistorico, ma piuttosto come un elemento di continuità e di saldatura tra le generazioni. Sarebbe certamente lecito propagare tra quei popoli alternative ai loro riti, ma sarebbe altrettanto rischioso proibirli, perché lo sradicamento e la occidentalizzazione forzata di numerosi gruppi etnici hanno già provocato guai cospicui.
Vorrei concludere questa perorazione della “vitalità” insita nella cremazione con un’ipotesi nuovamente provocatoria: quella che la cremazione possa essere, per chi resta, una “esperienza di vetta”. Con tale espressione (dall’inglese “peak-experience”) s’intende in psicologia quella percezione esaltante del reale, che viene talora suscitata dalla contemplazione di scenari naturali, dalla creazione artistica, dalla comunione amorosa, da intuizioni filosofiche, da prestazioni sportive, ecc.
Ebbene, a chi scrive è capitato di “verticalizzare” la propria percezione del reale proprio assistendo alle ultime fasi del procedimento crematorio, quando il corpo del trapassato si era ormai quasi completamente volatilizzato ed io, guardando i resti impregnati di fuoco, luogo di luce e di calore (che da sempre sono rispettivamente associati all’intelletto ed all’amore), mi sentii quasi “sopra me stesso”, integrato in uno stato di gloria e di pienezza, partecipe, con la coscienza e la volontà, di un percorso di ascesa universale.
Uscito dal locale crematorio, in un mattino splendido, mi venne spontaneo guardare il cielo, e notai la luna, ancora tenuemente visibile. La mia precedente “esperienza di vetta” venne suggellata dal pensiero che come un baleno attraversò allora la mia mente: “cremare un trapassato è come guardare la luna del mattino”.