SIMBOLOGIA E RITUALITÀ

SIMBOLOGIA E RITUALITÀ

Riassumo e riporto da « Era Nuova »

Millenni addietro accadde che sulle pendici meridionali dell’altopiano

del Tibet e nel deserto egiziano si trovassero a lavorare, in epoche ben poco diverse ed indipendentemente, alcune delle menti più chiare che il genio umano abbia avuto la ventura di annoverare.

Il lavoro di questi saggi precorse di gran lunga lo sviluppo della civiltà dei loro tempi ed accese due veri e propri fari di pensiero e di civiltà. «I sapienti dell’India e quelli dell’Egitto raggiunsero, indipendentemente, risultati assolutamente identici. Essi postularono l’esistenza di quell’Ente che noi chiamiamo G.’.A.’.D.’.U.’. ed immediatamente, quasi folgorati dallo splendore accecante di sì grande concetto, sentendo le loro menti, già di tanto superiori a quelle dei loro contemporanei, smarrirsi nell’immensità di questo Ente, che riunisce in sé l’infinito e l’eterno, compresero che questa verità non avrebbe potuto essere afferrata dagli altri uomini, e che per ciò stesso questi non vi avrebbero mai creduto. Perché tale verità colpisse quelle menti impreparate, era necessario volgarizzarla ed imporla; e nacquero il simbolo, il culto, la superstizione e, dal moltiplicarsi dei simboli, il politeismo; logica incongruenza della natura umana, che spinse i saggi scopritori della più monoteistica delle dottrine, anzi dell’unica dottrina monoteistica, a dare vita alle due più poliforme di politeismo: l’induismo e la religione di Amon-Ra.

«Sotto questa forma si ha dunque il primo ingresso del simbolo nella filosofia intesa come scienza; e per lo scienziato, cioè il ricercatore di verità, cioè il Massone, questo è ancor oggi il valore da attribuirsi al simbolo.

«Un artificio didattico atto a rendere più agevole, più immediata e soprattutto più profonda la comprensione e l’acquisizione di alcuni concetti basilari di fondamentale importanza».

Tali concetti basilari vengono assimilati per mezzo dei simboli e divengono base imprescindibile di ragionamento, carne e sangue dell’essere pensante, il quale troverà automaticamente assurdo qualsiasi stato di cose in contrasto con il principio assimilato, quasi, diremmo, per istintiva ripugnanza. Il filosofo Cartesio affermava infatti

che la verità deve essere più che conosciuta: della verità bisogna vivere.

La Massoneria mira appunto a questa forma di conoscenza, in quanto dichiaratamente essa non tende alla formazione semplicemente di dotti, ma a quella di veri e che vivono di propri Iniziati, cioè di uomini verità assimilate.

L’esperienza storica ci conferma che solo dalle comunità praticanti metodi simbolici sono sorti i Grandi Iniziati in quanto appunto il metodo simbolico è il più immediato e il più atto a penetrare nella profondità della coscienza e subcoscienza dell’essere pensante per deporvi, in modo permanente, il seme della verità.

Così è stato per gli autori del Veda, per i Rosacruciani di Egitto, per il quasi mitico Zoroastro, per Socrate, Platone e Aristotile, per Confucio, per il sovrumano ebreo di Nazareth. Tutti questi grandi Maestri, che furono tutti Grandi Iniziati, hanno dato al mondo princìpi eterni ed immutabili, in quanto veri aspetti della Verità e li hanno espressi sotto la forma di simboli, miti, parabole,  ecc..

Gran parte della simbologia massonica è di origine egizio-hiramica e comunque paleo-orientale. Questi simboli hanno vissuto millenni ed hanno mostrato la via della verità a centinaia di generazioni. Ma non ci si fermi al simbolo, si risalga al principio, sempre, e lo si tenga ben presente nel compiere un atto, nel guardare un oggetto ed a poco a poco, nel nostro subcosciente il simbolo sarà unito indissolubilmente al concetto, lo rappresenterà completamente e, quel che è più importante, accessibilmente.

Allora e solo allora, il simbolo avrà assunto la sua vera funzione che è quella di veicolo, di intermediario tra un concetto ed il nostro più intimo io. Ma si tenga sempre presente che l’importante è il concetto, il principio e che il simbolo è solo uno strumento meraviglioso, adatto a rappresentarlo.

«Ma di un ultimo pregio del metodo simbolico dobbiamo essere grati alla saggezza che ci viene dai secoli passati ed è il carattere estetico che tale metodo infonde nell’insegnamento, quel carattere che assume tanto spesso la forma di divina arte, che culla i nostri spiriti, li acquieta affrancandoli dalle più torbide passioni, li sprona all’esaltazione, li innalza all’empireo del saggio, al di sopra delle meschinità, fino al concepimento di quell’amore universale che resta la più alta vetta di perfezione attinta dall’animo umano». Sin qui da «Era Nuova».

Ho detto all’inizio che non si può prescindere da una rigorosa preparazione nei vari gradi se si vuole comunicare con i propri FFr.’., ovunque essi risiedano, e che l’armonia della costruzione dipende appunto dall’uniformità delle pietre che la compongono.

Ora, i simboli e le allegorie sono il denominatore comune a tutti i Liberi Muratori e rappresentano l’armatura che regge l’’edificio massonico intorno alle quale si avviluppa e si sviluppa ogni ornamento massonico (saggezza, amore. beneficenza, tolleranza, ecc. e quindi armonia, perfezione).

Il simbolismo permette ai Massoni di comunicare tra di loro; è quindi lingua universale. Risolve immediatamente della morale. ogni problema Tramanda ai posteri la luce delle grandi verità immortali.

Rappresenta una difesa per i Massoni contro l’ignoranza, la superstizione, la prevenzione, l’opposizione che albergano nel mondo profano. Infine aiuta i Liberi Muratori a dirigersi nel labirinto pressoché inestricabile del passato e rappresenta per la Massoneria la sua origine, la sua storia.

Eleviamoci ora all’altezza del pensiero di Guénon (1886-1951). Perdonate questa mia espressione che, del resto, certamente giustificherete considerando quanto scrive, tra l’altro, Corrado Rocco nella introduzione al libro già citato «Considerazioni sulla Via Iniziatica» da lui stesso tradotto: «…il lavoro cui il Guénon si è dedicato per esporre l’autentico insegnamento tradizionale è l’unico esistente in Occidente che possa servire da punto di partenza per qualsiasi “realizzazione”. Anzi è forse anche possibile affermare, con altri studiosi di questioni tradizionali, che dal XIV secolo, e pensiamo specialmente a Maestro Eckart, falsamente chiamato un “mistico speculativo”, non s’incontrino a nessun titolo in modo netto e sicuro le nozioni fondamentali di questo insegnamento, vale a dire quelle dell’«Identità Suprema” e della “Liberazione”, la cui rimessa a giorno è unicamente dovuta al Guénon in questi ultimi anni.

«La sua opera è un tutto completo: nessuna delle questioni trattate è lasciata senza una spiegazione esauriente e precisa; quasi tutti gli aspetti del mondo moderno vi sono constatati nelle loro cause e nei loro retroscena con una documentazione perfetta e indiscutibile. Su di essa la cosiddetta “critica” non può trovare appiglio, per il fatto stesso che la Verità è al di sopra del pensiero umano e si raggiunge solo per l’Intelletto trascendente, che si pone da intermediario fra l’individualità come tale e gli stati superiori dell’essere». Nel libro citato, Guénon tratta, nel Cap. XV, de «I Riti Iniziatici» e dice: «Siamo stati spinti quasi di continuo in precedenza a fare delle allusioni ai riti, poiché costituiscono l’elemento essenziale per la trasmissione dell’influenza spirituale e per il collegamento alla “catena” iniziatica, sicché può dirsi che, senza i riti, non vi sia in alcun modo iniziazione». …omissis…

«E’ necessario notare in primo luogo che la presenza dei riti è un carattere comune a tutte le istituzioni tradizionali, di qualsiasi ordine, exoteriche ed esoteriche, prendendo questi termini nel senso più largo, come abbiamo già fatto in precedenza. Questo carattere è una conseguenza dell’elemento “non-umano” implicato essenzialmente in tali istituzioni, poiché si può dire che i riti abbiano sempre lo scopo di mettere l’essere umano in rapporto, direttamente o indirettamente, con qualche cosa che supera la sua individualità e che appartiene ad altri stati d’esistenza: è d’altronde evidente che non è necessario in tutti i casi che la comunicazione così stabilita sia cosciente per essere reale, poiché s’opera abitualmente mediante certe modalità sottili dell’individuo, modalità in cui la maggioranza degli uomini è attualmente incapace di trasferire il centro della propria coscienza. Ad ogni modo sia l’effetto apparente o no, sia immediato o differito, il rito porta sempre in se stesso la sua efficacia, a condizione, ben inteso, che sia compiuto in conformità alle regole tradizionali che ne assicurano la validità, e al di fuori delle quali non sarebbe più che una forma vuota ed un vano simulacro; questa efficacia non ha niente di “meraviglioso” né di “magico”, come talvolta dicono alcuni con un’intenzione palese di denigrazione e di negazione, poiché risulta semplicemente dalle leggi nettamente definite secondo cui agiscono le influenze spirituali, leggi di cui la “ tecnica ” rituale non è insomma che l’applicazione e la messa in opera.

«Queste considerazioni sull’efficacia inerente ai riti, fondata su leggi che non lasciano adito alla fantasia o all’arbitrario, è comune a tutti i casi senza eccezione; ed è vero sia per i riti d’ordine exoterico e sia peri riti iniziatici, e fra i primi, sia per i riti appartenenti a forme tradizionali non religiose e sia per i riti religiosi. A tal proposito dobbiamo ricordare ancora, poiché è un punto molto importante, che, come abbiamo già spiegato in precedenza, tale efficacia è interamente indipendente dal valore dell’individuo in se stesso che compie il rito; solo la funzione conta qui, e non l’individuo come tale; in altri termini, la condizione necessaria e sufficiente è che egli abbia ricevuto regolarmente il potere di compiere il rito; poco importa se non ne capisce veramente il significato e se non crede alla sua efficacia, ciò non può impedire che il rito sia valido se tutte le regole prescritte sono state convenientemente osservate». …omissis…

«L’iniziazione, in effetti, non è, come le realizzazioni mistiche, qualche cosa che cada da oltre le nubi, se così si può dire, senza che si sappia come e perché; essa si basa invece su leggi scientifiche positive e su regole tecniche rigorose; non sarà mai di troppo insistervi, ogni volta se ne presenterà l’occasione, alfine di evitare qualsiasi possibilità di malintesi sulla sua vera natura.

«In riguardo alla distinzione fra riti iniziatici e riti exoterici, non possiamo qui che indicarla assai sommariamente, poiché, se si dovesse entrare in sarebbe dettagli, rischieremmo di dilungarci troppo; specialmente opportuno ricavare tutte le conseguenze dal fatto che i primi sono riservati e non concernono che un’élite munita di qualificazioni particolari, mentre i secondi si rivolgono indistintamente a tutti i membri di un determinato ambiente sociale, il che dimostra, qualunque siano talvolta le similitudini apparenti, come lo scopo non possa essere in realtà lo stesso. Di fatto, i riti exoterici non hanno per scopo, come è per riti iniziatici d’aprire a all’essere certe possibilità di conoscenza, cui riti iniziatici e, d’altra non tutti possono essere adatti; parte, è essenziale notare che, sebbene necessariamente essi facciano anche appello all’intervento di un elemento di ordine sopra- individuale, la loro azione non è mai destinata a superare il dominio dell’individualità. Ciò è molto visibile nel caso dei riti religiosi, che possiamo prendere particolarmente per termine di paragone, poiché sono i soli riti exoterici che conosca attualmente l’Occidente: tutte le religioni si propongono unicamente di assicurare la “salvezza” ai loro aderenti, ed è una finalità appartenente ancora all’ordine individuale, e, in qualche modo per definizione, il loro punto di vista non si estende oltre; i mistici stessi non considerano altro che la “salvezza” e mai la “Liberazione”, mentre questa è invece lo scopo ultimo e supremo di ogni iniziazione.

«Un altro punto di importanza capitale è il seguente: l’iniziazione, a qualsiasi grado, rappresenta per l’essere che l’ha ricevuta un’acquisizione permanente, uno stato che, virtualmente od effettivamente, egli ha raggiunto una volta per sempre, e che ormai nulla può togliergli». …omissis… «Ne deriva immediatamente questa conseguenza, che i riti iniziatici conferiscono un carattere definitivo e indelebile; è d’altronde lo stesso, in altro ordine, di certi riti religiosi, i quali, per questa ragione, non possono mai essere rinnovati dallo stesso individuo, e proprio per tal motivo sono quelli che presentano l’analogia più accentuata coni riti iniziatici, ad un punto tale da poter essere in un certo senso considerati come una specie di trasposizione  di questi ultimi nel dominio exoterico.

« Un’altra conseguenza è quella da noi già indicata di sfuggita, ma su cui conviene insistere alquanto: la qualità iniziatica, una volta ricevuta, non è per nulla legata al fatto di essere membro attivo di tale o di tal altra organizzazione; allorché il collegamento ad una organizzazione tradizionale è stato effettuato, non può essere infranto per nessun motivo e sussiste anche quando l’individuo non abbia più con questa organizzazione una relazione apparente, il che ha un’importanza del tutto secondaria a tal riguardo. A prescindere da altre considerazioni, solo quella citata basterebbe per mostrare quanto le organizzazioni iniziatiche differiscano profondamente dalle associa- zioni profane, cui non possono essere assimilate oppure paragonate in qualche modo; colui che abbandona un’associazione profana o ne è escluso non ha più alcun legame con ciò che essa, e ridiventa esattamente era prima di farne parte; invece, il legame stabilito dal carattere iniziatico non dipende affatto da contingenze quali possono essere quelle di una dimissione o di una esclusione, che sono semplice- mente d’ordine “amministrativo”, come già detto, e non toccano che le relazioni esteriori; se nell’ordine profano tutto si riduce a queste relazioni, per cui un’associazione non può dare altro ai suoi membri, queste stesse relazioni esteriori non sono invece nell’ordine iniziatico che un mezzo del tutto accessorio ed affatto necessario, relativamente alle realtà interiori che soltanto interessano in verità.

E’ sufficiente, pensiamo, rifletterci un po’ per rendersi conto come quanto abbiamo detto sia di un’evidenza perfetta; in tal modo, stupisce il constatare, e ne abbiamo avuto molte volte l’occasione, una disconoscenza di nozioni tanto semplici ed elementari»

Nel Cap. XVI «Il Rito e il Simbolo» Guénon prosegue: «Abbiamo indicato in precedenza come il rito e il elementi simbolo, che sono entrambi essenziali di ogni iniziazione, e che in modo generale si trovano pure associati invariabilmente in tutto ciò che presenta un carattere tradizionale, siano in realtà strettamente legati dalla loro stessa natura, Infatti, ogni rito comporta necessariamente un senso simbolico in tutti i suoi elementi costitutivi, e, inversamente, ogni simbolo produce (il che è proprio della sua essenziale destinazione), in colui che lo medita con le attitudini e le disposizioni richieste, effetti rigorosamente paragonabili a quelli dei riti propriamente detti, sotto riserva, beninteso, che vi sia, al punto di partenza di questo lavoro di meditazione, e come condizione preliminare, la trasmissione iniziatica regolare, al di fuori della quale d’altronde anche i riti non sarebbero che un vano simulacro, il che avviene nelle parodie della pseudo iniziazione. Bisogna altresì aggiungere che, quando si tratta di riti e di simboli veramente tradizionali (e quelli sprovvisti di questo carattere non meritano di essere chiamati è ugualmente “ non-umana ”; in tal tali), la loro origine ad modo, l’impossibilità di assegnare essi un autore o un inventore determinato, già l’abbiamo detto, non è affatto dovuta ad ignoranza, come possono supporre gli storici ordinari i (quando anche non arrivano a vedervi, come ultima speranza, che il prodotto di una specie di “ coscienza collettiva », che, pur se esistesse, sarebbe in ogni caso assolutamente incapace di dar nascita alle cose di ordine trascendente di cui si tratta), ma è una conseguenza necessaria di questa origine stessa, che può essere sol- tanto contestata da coloro che disconoscono totalmente la vera natura della tradizione e di tutto ciò che ne fa parte integrante, come evidentemente è il caso sia dei riti e sia dei simboli,

« Se si vuole esaminare più da vicino questa identità ingenita del rito e del simbolo, si può dire in primo luogo che il simbolo, inteso come figurazione “ grafica ” quale è più ordinariamente, non sia in

qualche modo che la fissazione di un gesto rituale. D’altronde, avviene spesso che il medesimo tracciato del simbolo debba effettuarsi regolarmente in condizioni tali da conferirgli tutti i caratteri di un rito propriamente detto; se ne ha un esempio molto netto in un dominio inferiore, quello della magia (che malgrado tutto è una scienza tradizionale), con la confezione delle figure talismaniche, e, nell’ordine che ci riguarda più immediatamente, il tracciato degli vantra, nella tradizione indù, ne è un esempio non meno lampante.

« Ma non è tutto, dato che la nozione del simbolo alla quale ci siamo riferiti è in vero troppo angusta: non vi sono soltanto simboli figurati o visuali, vi sono anche simboli sonori; abbiamo già indicato altrove la distinzione di queste due categorie fondamentali, che, nella dottrina indù, è quella dello vantra e del mantra. Allora precisammo anche che la loro prevalenza rispettiva caratterizzava due specie di riti, che, in origine, si riferivano, per i simboli visuali, alle tradizioni dei popoli sedentari i, e, per i simboli sonori, a quelle dei popoli nomadi; d’altronde, è evidente che, fra gli uni e gli altri, la separazione non può essere stabilita in modo assoluto (e perciò parliamo soltanto di prevalenza), tutte le combinazioni essendo qui possibili, per gli adattamenti molteplici prodottisi durante le età e per cui sono state costituite le diverse forme tradizionali da noi attualmente conosciute. Queste considerazioni mostrano abbastanza chiaramente il legame esistente in modo del tutto generale fra i riti e i simboli; ma, possiamo aggiungere che, nel caso dei mantra, un tal legame è più immediatamente apparente: infatti, mentre il simbolo visuale, una volta tracciato, resta o può restare allo stato permanente (ed è per un tal motivo che abbiamo parlato di gesto fissato), il simbolo sonoro invece non è manifestato che nell’adempimento stesso del rito. Questa differenza si trova attenuata quando una corrispondenza è stabilita fra simboli sonori e simboli visuali; è quello che avviene con la scrittura, che rappresenta una vera fissazione del suono (non del viene con la suono stesso come tale, s’intende, ma di una possibilità permanente di riprodurlo); ed è appena necessario ricordare a tal proposito che ogni scrittura (almeno alle sue origini) è una figurazione essenzialmente simbolica. D’altronde, non avviene diversamente per la parola stessa, cui questo carattere simbolico non è meno inerente per la sua natura: è evidentissimo che la parola, qualunque sia, non può essere altro che un simbolo dell’idea destinata ad esprimere; anche ogni linguaggio, sia orale che scritto, è in vero un insieme di simboli, ed è precisamente per ciò che il linguaggio, malgrado tutte le teorie “ naturalistiche ” immaginate nei tempi moderni per tentare di spiegarlo, non può essere una creazione più o meno artificiale dell’uomo, né un semplice prodotto delle sue facoltà d’ordine individuale.

«Vi è anche, per gli stessi simboli visuali, un caso abbastanza paragonabile a quello dei simboli sonori sotto il rapporto da noi indicato: un tal caso è quello dei simboli che non sono tracciati in modo permanente, ma soltanto usati come segni nei riti iniziatici (special- mente i “segni di riconoscimento” di cui precedentemente abbiamo parlato) , ed anche religiosi (il “segno della croce” ne è un esempio tipico e da tutti conosciuto); qui, il simbolo non è in realtà che una cosa sola con lo stesso gesto rituale. D’altronde, sarebbe del tutto inutile voler fare di questi segni una terza categoria di simboli, distinta da quelle di cui abbiamo parlato fin qui; probabilmente certi psicologi li considererebbero in tal modo, e li designerebbero come simboli “ motori ” o con qualche altra espressione del genere, ma, essendo evidentemente fatti per essere scorti dalla vista, essi rientrano perciò stesso nella categoria dei simboli visuali; e, in quest’ultima, in ragione della loro “ istantaneità ”, se può dirsi, sono quelli che presentano la similitudine più grande con la categoria “complementare, quella dei simboli sonori. D’altronde, il simbolo grafico” stesso è, ripetiamo, un gesto o un movimento fissato (il movimento stesso o l’insieme più o meno complesso di movimenti che bisogna fare per tracciarlo, e che gli stessi psicologi, nel loro linguaggio speciale, chiamerebbero indubbiamente uno “schema motore”; e, in riguardo ai simboli sonori, si può anche dire che il movimento degli organi vocali, necessario alla loro produzione (si tratti d’altronde dell’emissione della parola ordinaria o di quella di suoni musicali), costituisca insomma un gesto alla stessa stregua di tutte le altre specie di movimenti corporei, da cui d’altronde non è mai possibile isolarlo interamente. In tal modo, questa nozione del gesto, presa nella sua più estesa accezione (del resto più conforme a ciò che implica veramente la parola dell’accezione più ristretta ad essa data dall’uso corrente), riconduce tutti questi casi differenti alla  unità, sicché può dirsi che essi abbiano proprio in ciò il loro principio comune; e tal fatto ha, nell’ordine metafisico, un significato profondo, che non possiamo pensare di sviluppare qui, alfine di non allontanarci troppo dal soggetto principale del nostro studio.

«Si deve poter comprendere ora senza difficoltà come ogni rito sia letteralmente costituito da un insieme di simboli; questi ultimi infatti non comprendono soltanto gli oggetti usati e le figure rappresentate,

come si potrebbe essere tentati di pensare quando ci si attiene alla nozione più superficiale, ma anche i gesti effettuati e le parole pronunziate (d’altronde queste ultime non essendo in realtà, secondo quanto già abbiamo detto, che un caso particolare di quelli), in una parola tutti gli elementi del rito senza eccezione; e questi elementi hanno in tal modo valore di simboli per la loro stessa natura e non in virtù di un significato sovrapposto proveniente da circostanze esteriori e non veramente inerenti ad essi. Si può dire altresì che i riti siano i simboli “messi in azione”, che ogni gesto rituale sia un simbolo “agito”; non è insomma che un modo diverso per esprimere la stessa cosa, mettendo soltanto specialmente in evidenza il carattere che presenta il rito di essere, come ogni azione, qualche cosa che si compie necessariamente nel tempo, mentre il simbolo come tale può essere considerato da un punto di vista “intemporale”. In questo senso, si potrebbe parlare di una certa preminenza del simbolo in rapporto al rito; ma, rito e simbolo non sono in fondo che due aspetti di una stessa realtà; e quest’ultima non è altro in definitiva che la corrispondenza che rilega fra loro tutti i gradi dell’Esistenza universale, sicché, per sua virtù, il nostro stato umano può essere messo in comunicazione con gli stati superiori dell’essere.

Il discorso continua, sempre più avvincente e sempre più ricco di insegnamenti, nel Capitolo seguente (XVII) «Miti, Misteri e Simboli» e benché nella mia esposizione tratti più innanzi del Mito e dei Misteri traendo da « La Massoneria nei suoi valori storici e ideali » di G. Francocci, ritengo utile anticipare quanto dice in proposito Guénon perché è strettamente collegato con il simbolismo e con la ritualità.

Egli scrive nel Cap. XVII: conducono « Le considerazioni da noi esposte ci abbastanza naturalmente ad esaminare un’altra questione connessa, vale a dire la questione dei rapporti del simbolo con ciò che è chiamato “mito”; a tal proposito, facciamo notare in primo luogo di aver parlato talvolta di una certa degenerescenza del simbolismo che ha dato origine alla “mitologia”, prendendo quest’ultimo termine nel senso che gli si dà abitualmente, e che in effetti è esatto quando si tratta dell’antichità cosiddetta “classica” ma che forse non troverebbe una valida applicazione al di fuori di questo periodo della civiltà greca e latina. Pensiamo anzi che sia sempre conveniente altrove evitare l’uso di questa parola, per non dar luogo a spiacevoli equivoci e ad ingiustificate assimilazioni; ma, se l’uso impone questa restrizione, bisogna pur dire che la parola “mito do in se stessa e nel suo significato originale, non contiene nulla che indichi una tale degenerescenza, insomma assai tardiva, e dovuta sussisteva di una tradizione molto anteriore. Conviene aggiungere che, se si può parlare di “miti” in riguardo a questa stessa tradizione, a condizione di ristabilire il vero significato della parola e di evitare tutto ciò che vi si annette troppo spesso di “peggiorativo” nel linguaggio corrente, non vi era allora, in ogni caso, della “mitologia”, poiché quest’ultima, come l’intendono i moderni, non è altro che uno studio intrapreso “dall’esteriore” e che, si potrebbe dire, implica per conseguenza una incomprensione al secondo grado. «La distinzione che si è voluta talvolta stabilire tra “miti” e “simboli” è in realtà infondata: per alcuni, mentre il mito è un racconto che presenta un significato diverso da quello che esprimono restrizione del tutto inaccettabile, poiché qualsiasi immagine presa per rappresentare un’idea, per esprimerla o suggerirla in un modo qualsiasi e ad ogni grado, è proprio per tal motivo un segno o, ed è la stessa cosa, un simbolo di quest’idea; importa poco se si tratta di una immagine visuale o di qualsiasi altra specie di immagine, poiché un tal fatto non introduce qui alcuna differenza essenziale e non cambia assolutamente nulla al principio stesso del simbolismo. Quest’ultimo, in tutti i casi, si basa sempre su un rapporto di ana- logia o di corrispondenza fra l’idea che si tratta di esprimere e la immagine grafica, verbale od altra, mediante la quale la si esprime; da questo punto di vista del tutto generale, le parole stesse, come abbiamo già detto, non sono e non possono essere che simboli. Invece di parlare di una idea e di una immagine come abbiamo fatto, si potrebbe pure parlare più generalmente di due realtà qualsiasi, appartenenti ad ordini differenti, fra cui esista una corrispondenza avente il suo fondamento ugualmente nella natura dell’una e del l’altra: in queste condizioni, una realtà di un certo ordine può essere rappresentata da una realtà di un altro ordine, ed allora questa è un simbolo di quella.

«Ricordato così il principio del simbolismo, vediamo che questo è evidentemente suscettibile di una moltitudine di modalità diverse; il mito non ne è che un semplice caso particolare, costituente una di queste modalità; si potrebbe dire che il simbolo sia il genere, e il mito una delle specie. In altri termini, si può considerare un racconto simbolico allo stesso modo ed alla stessa stregua di un disegno simbolico o di molte altre cose ancora che abbiano le stesse caratteristiche e che rappresentino la stessa parte; i miti sono racconti simbolici, come le “parole”, che in fondo non ne differiscono essenzialmente; non ci sembra che vi sia in ciò qualche cosa che possa dar ‘adito alla minima difficoltà, quando si sia compresa bene la nozione generale e fondamentale del simbolismo.

«Ma, dopo quanto precede, è opportuno precisare il significato proprio dello stesso termine “mito”, che può condurci a certi rilievi non senza importanza, e riattaccantisi al carattere e alla funzione del simbolismo considerato nel senso più determinato, per cui si distingue dal linguaggio ordinario e vi si oppone anche sotto certi riguardi. Si considera comunemente il termine “mito” come sinonimo di “favola”, intendendo semplicemente in tal modo una finzione qualsiasi, più spesso rivestita di un carattere più o meno poetico; è l’effetto della degenerescenza di cui parlavamo, ed i Greci, dalla cui lingua questo termine è preso, hanno certamente essi stessi la loro responsabilità in ciò che in verità è una alterazione profonda e una deviazione del significato primitivo. Per essi infatti la fantasia individuale cominciò abbastanza presto a darsi libero corso in tutte le forme dell’arte, che, invece di restare propriamente ieratica e simbolica, come presso gli Egiziani e i popoli dell’Oriente, prese presto per tal motivo tutt’altra direzione, mirando molto meno  ad istruire di quanto mirasse invece a piacere, e giungendo a produzioni la cui maggioranza sono quasi sprovviste di ogni significato reale e profondo (salvo per quel che poteva ancora sussistervi, fosse pure incoscientemente, d’elementi appartenenti alla tradizione anteriore), e dove, in ogni caso, non si trova più traccia di quella scienza eminentemente “esatta” che è il vero simbolismo; è insomma l’inizio di ciò che può chiamarsi l’arte profana e coincide sensibilmente con l’inizio di quel pensiero ugualmente profano che, dovuto all’esercizio della stessa fantasia individuale in un altro dominio, doveva essere  conosciuto col nome di “filosofia”, La fantasia esercitò di cui si tratta si particolarmente sui miti preesistenti: i poeti, che non erano più gli scrittori sacri come all’origine e non possedevano più l’ispirazione “soprumana”, sviluppandoli e modificandoli secondo la loro immaginazione, circondandoli di ornamenti superflui e vani, li oscuravano e li snaturavano, sicché divenne spesso difficilissimo ritrovarne il significato e ricavarne gli elementi essenziali, salvo forse con il paragone coni simboli consimili che si possono incontrare altrove e che non hanno subito la stessa deformazione; e si potrebbe dire che infine il mito non fosse più, almeno per la maggioranza, che un simbolo incompreso come è restato per i moderni. Ma non si tratta che dell’abuso e, potremmo dire, della “profanazione” nel senso proprio della parola; bisogna considerare invece che il mito, prima di ogni deformazione, era essenzialmente un racconto simbolico, come abbiamo detto, il che era proprio la sua unica ragion d’essere; già da questo punto di vista, “ mito ” non è interamente sinonimo di “favola”, poiché quest’ultimo termine (in latino fabula da fari, parlare) non designa etimologicamente che un racconto qualsiasi, senza affatto specificarne l’intenzione o il carattere; anche qui d’altronde il significato di “finzione” è venuto ad annettervisi soltanto ulteriormente. Vi è di più: questi due termini “mito” e “favola”, che si è giunti a prendere per equivalenti, sono derivati da radici che in realtà hanno un significato completamente opposto, poiché, mentre la radice di “favola” designa la parola, quella di “mito”, per quanto strana la cosa possa apparire a prima vista allorché si tratta di un racconto, designa invece il silenzio.

«Infatti, il termine greco muthos, “mito”, viene dalla radice mu, e quest’ultima (che si ritrova nel latino mutus, muto) rappresenta la bocca chiusa, e per conseguenza il silenzio; è questo il senso del verbo muein, chiudere la bocca, tacersi (e, per estensione, arriva a significare anche chiudere gli occhi, in senso proprio e figurato); l’esame di qualcuno dei derivati di questo verbo è particolarmente istruttivo. Così, da muò (all’infinito muein) sono derivati immediata- mente altri due verbi che non ne differiscono che pochissimo per la loro forma, muaò e mueò; il primo ha le stesse accezioni di muò, e bisogna aggiungervi un altro derivato, mullò, che significa anche chiudere le labbra, e pure mormorare senza aprire la bocca. In riguardo a mueò, ed è proprio il più importante, significa iniziare (ai “ misteri ”, il cui nome è ricavato anche dalla stessa radice come lo si vedrà fra poco, e precisamente per l’intermediario di mueò e mustés) e, per conseguenza, ugualmente istruire (ma soprattutto istruire senza parole, come era effettivamente nei misteri) e consacrare; dovremmo anzi dire in primo luogo consacrare, se per “consacrazione” s’intende, come si dovrebbe normalmente, la trasmissione di una influenza spirituale, o il rito per cui questa è regolarmente trasmessa; nel linguaggio ecclesiastico zione è cristiano, da quest’ultima acce- provenuta più tardi per lo stesso termine quella di conferire l’ordinazione, che in effetti è anche una “consacrazione” in tal senso, quantunque in un ordine differente dall’ordine iniziatico.

«Ma si dirà: se la parola “mito” ha una tale origine, come è avvenuto che sia servita a designare un racconto di un certo genere? È che questa idea di “silenzio” deve essere riferita alle cose che, in ragione della loro stessa natura, sono inesprimibili, almeno direttamente e per il linguaggio ordinario; una delle funzioni generali del simbolismo è effettivamente di suggerire l’inesprimibile, di farlo presentire, o meglio “assentire”, mediante le trasposizioni che permette di effettuare da un ordine all’altro, dall’inferiore al superiore, da ciò che è più immediatamente afferrabile a ciò che non lo è se non molto più difficilmente; tale è precisamente la destinazione principale dei miti. È d’altronde in questo modo che, anche all’epoca “classica”, Platone è ricorso all’uso dei miti per esporre concezioni che superavano la portata dei suoi abituali mezzi dialettici; e questi miti, che ertamente egli non ha affatto “inventato”, ma soltanto “adattato”, poiché portano il marchio incontestabile di un insegnamento tradizionale (come lo portano anche certi procedimenti di cui fa uso per l’interpretazione dei termini, e che sono paragonabili a quelli del nirukta nella tradizione indù), questi miti, diciamo, sono ben lungi dal non essere che gli ornamenti letterari più o meno trascurabili che vi scorgono troppo spesso i commentatori e i “critici” moderni, per i quali è sicuramente molto più comodo scartarli così, senz’altro esame, piuttosto che darne una spiegazione anche approssimativa; essi rispondono invece a ciò che vi è di più profondo nel pensiero di Platone, di più libero dalle contingenze individuali, e che egli non può, a causa di questa stessa profondità, esprimere che simbolicamente: la dialettica contiene spesso in lui una certa parte di “gioco”, il che è molto conforme alla mentalità greca, ma, quando l’abbandona per il mito, si può star sicuri che il gioco è cessato e che le cose di cui si tratta hanno in qualche modo un carattere “sacro”;

« Nel mito, ciò che si dice è dunque una cosa diversa da ciò che si vuol dire; possiamo notare di sfuggita che questo è anche il significato etimologico del termine “allegoria” (da allo agoreuein, letteralmente “dire altra cosa”), che ci dà un altro esempio delle deviazioni di significato dovute all’uso corrente, poiché infatti attualmente non designa più che una rappresentazione convenzionale e “letteraria”, d’intenzione unicamente morale e psicologica, e che più spesso rientra nella categoria delle cosiddette “astrazioni personificate”; vi è appena bisogno di dire che nulla può essere più lontano dal vero simbolismo. Ma, per ritornare al mito, se non dice ciò che vuol dire, esso lo suggerisce che è il fondamento per quella corrispondenza analogica e l’essenza stessa di ogni simbolismo; si potrebbe dire che si serbi il silenzio pur parlando e da un tal fatto il mito ha ricevuto la sua designazione .

«Ci resta da attirare l’attenzione sulla parentela dei termini “mito” e “mistero”, entrambi derivati da una stessa radice: il termine greco mustérion, “mistero”, si riattacca pure direttamente al- l’idea di “silenzio”; locché d’altronde può interpretarsi in parecchi significati differenti, ma legati l’uno all’altro, e di cui ciascuno ha la sua ragion d’essere da un certo punto di vista. Notiamo in primo luogo che, secondo la derivazione da noi precedentemente indicata (da mueo), il significato principale della parola è quello riferentesi all’iniziazione, ed infatti è proprio in tal modo che bisogna intendere ciò che era chiamato “misteri” nell’antichità greca. D’altra parte, il che dimostra pure il destino veramente singolare di certe parole, un altro termine strettamente imparentato con quelli da noi menzionati è, come d’altronde già abbiamo indicato, quello di “mistico de il quale etimologicamente si applica a qualsiasi cosa concerna i misteri: mustikos infatti è l’aggettivo di mustés, iniziato; esso equivale dunque originariamente a “ iniziatico” e designa tutto ciò che si riferisce all’iniziazione, alla sua dottrina e al suo oggetto stesso (ma, in questo antico significato, non può essere mai applicato a persone); ora, per i moderni, questa stessa parola “mistico”, il solo fra tutti questi termini di ceppo comune, è arrivata a designare esclusiva- mente qualche cosa che, come abbiamo visto, non ha assolutamente nulla in comune con l’iniziazione e che anzi a certi riguardi presenta caratteri ad essa opposti.

«Ritorneremo ora a parlare dei diversi significati del termine “mistero”: nel significato più immediato, diremmo volentieri più grossolano o per lo meno più esteriore, il mistero è ciò di cui non si deve parlare, su cui è conveniente serbare il silenzio o che è proibito far conoscere dal di fuori; è in tal modo che comunemente lo si intende, anche quando si tratta dei misteri antichi; e nell’accezione più corrente, ricevuta ulteriormente, il termine non ha altro significato che questo. Pertanto, questa proibizione di rivelare certi riti e certi insegnamenti, pur tenendo conto delle considerazioni di opportunità che talvolta vi hanno potuto sicuramente rappresentare una parte, ma che hanno sempre un carattere puramente contingente, deve in realtà essere considerata soprattutto anche essa fornita di un valore simbolico; già ci siamo spiegati su questo punto parlando della vera natura del segreto iniziatico (Cap. XIII). Come abbiamo detto a tal proposito, la cosiddetta “disciplina del segreto” che era d’obbligo sia nella Chiesa cristiana primitiva e sia nei misteri antichi (e gli avversari religiosi dell’esoterismo dovrebbero ben ricordarsene), è molto lungi dall’apparirci unicamente come una semplice precauzione contro l’ostilità, del resto molto reale e spesso  pericolosa, dovuta all’incomprensione del mondo profano; vi scorgiamo altre ragioni di un ordine più profondo, e che possono essere indicate dagli altri significati contenuti nel termine “mistero”. Aggiungiamo d’altronde che non per una semplice coincidenza vi è una stretta similitudine fra i termini “sacro” (sacratum) e “segreto” (secretum): si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di ciò che è messo da parte (secernere, mettere da parte, da cui il participio secretum), riservato, separato dal dominio profano; parimenti, il luogo consacrato è chiamato templum, la cui radice tem (che si ritrova nel greco temnò, tagliare, togliere, separare, da cui femenos, cinta sacra) esprime anche la stessa idea; e la “contemplazione”, il cui nome proviene dalla stessa radice, si riattacca altresì a questa idea in virtù del suo carattere strettamente “interiore”.

«In riguardo al secondo significato della parola “mistero”, già meno esteriore, designa ciò che si deve ricevere in silenzio, e su cui non conviene discutere; da questo punto di vista, tutte le dottrine tradizionali, ivi compresi i dogmi religiosi che ne costituiscono un caso particolare, possono essere chiamati misteri (l’accezione di questa parola estendendosi allora a domini i diversi dal dominio iniziatico, ma dove ugualmente s’esercita una influenza “non umana”), perché sono verità le quali, per la loro natura essenzialmente sopra-individuale e sopra-razionale, sono al di sopra di ogni discussione. Ora, si può dire, per ricollegare questo significato al primo, che diffondere inconsideratamente fra i profani i misteri così intesi, sarebbe come darli in preda inevitabilmente alla discussione, procedimento profano per eccellenza, con tutti gli inconvenienti che possono risultarne e che riassume perfettamente la parola “«profanazione” da noi usata precedentemente ad .un altro proposito, e che deve essere presa nella sua accezione in pari tempo più letterale e più completa; il lavoro distruttore della “critica moderna” in riguardo ad ogni tradizione è un esempio troppo eloquente di ciò che vogliamo dire perché sia necessario insistervi.

 «Vi è un terzo senso infine, più profondo di tutti, secondo cui il mistero è propriamente l’inesprimibile, che si può contemplare soltanto in silenzio (e conviene ricordare quanto abbiamo detto prima sull’origine della parola “contemplazione”); siccome l’inesprimibile è in pari tempo e proprio per tal motivo l’incomunicabile, la proibizione di rivelare l’insegnamento sacro simbolizza, da questo nuovo punto di vista, l’impossibilità d’esprimere mediante le parole il vero mistero di cui questo insegnamento è per così dire l’abito, che insieme lo manifesta e lo vela. L’insegnamento concernente l’inesprimibile non può evidentemente che suggerirlo con l’ausilio di immagini appropriate, che saranno come i sostegni della contemplazione; secondo quanto abbiamo spiegato, questo fatto significa che un tale insegnamento deve prendere necessariamente la forma simbolica, Tale fu sempre, e presso tutti i popoli, uno dei caratteri essenziali dell’iniziazione ai misteri, qualunque possa essere il nome con cui sia stata d’altronde designata; si può dunque dire che i simboli, ed in particolare i miti, quando questo insegnamento si tradusse  in parole, costituiscano veramente, nella loro prima destinazione, il linguaggio stesso di questa iniziazione ».

Ancora nel Capitolo XVIII «Simbolismo e Filosofia», René Guénon tratta del simbolismo e ad esso raffronta la filosofia. Cito solamente alcuni passi allo scopo di richiamare il suo pensiero sull’argomento poiché la dimostrazione di quanto egli afferma può essere seguita soltanto leggendo interamente quanto egli ha scritto nel capitolo in parola: «Tuttavia, sotto un altro rapporto, vi è un’opposizione

fra filosofia e simbolismo, se quest’ultimo s’intende nell’accezione

più ristretta che gli si dà abitualmente, e che d’altronde è anche

la medesima in cui consideriamo il simbolismo quando lo vediamo

proprio come una caratteristica delle dottrine tradizionali:

questa opposizione consiste nel fatto che la filosofia, come qualsiasi

cosa si e prima nelle forme ordinarie del linguaggio, è essenzialmente

analitica, mentre il simbolismo propriamente detto è essenzialmente

sintetico. La forma del linguaggio è per definizione stessa “discorsiva”

al pari della ragione umana di cui lo stesso linguaggio è il principale

strumento e di cui segue o riproduce il procedimento quanto

è più esattamente possibile; invece il simbolismo propriamente detto

è veramente “intuitivo”, vale a dire è, in modo del tutto naturale,

incomparabilmente più adatto del linguaggio per servire da punto

di appoggio all’intuizione intellettuale e soprarazionale, ed è precisamente questo il motivo per cui costituisce il modo d’espressione per eccellenza di ogni insegnamento iniziatico. In riguardo alla filosofia, essa rappresenta in qualche maniera il tipo del pensiero discorsivo (ciò che non significa ben inteso che ogni pensiero discorsivo abbia un carattere limitazioni specificamente filosofico), il che le impone da cui non può liberarsi; il simbolismo invece, come appoggio d’intuizione trascendente, apre possibilità veramente il limitate.

«La filosofia, per il suo carattere discorsivo, è esclusivamente razionale, poiché un tal carattere appartiene in proprio alla ragione stessa; il dominio della filosofia e le sue possibilità non possono dunque in alcun caso estendersi oltre ciò che la ragione è capace di raggiungere; ed altresì, essa non rappresenta che un certo uso abbastanza particolare di questa facoltà, poiché è evidente, non fosse che per l’esistenza di scienze indipendenti, che vi sono, nel- l’ordine stesso della conoscenza razionale, molte cose non entranti nell’ambito della filosofia. Non si tratta d’altronde affatto di conte- stare il valore della ragione nel suo dominio proprio e finché non pretende oltrepassarlo; ma questo valore non può essere che relativo, come questo dominio lo è ugualmente; e, del resto, la Stessa parola ratio non ha in senso originario il significato di ‘«rapporto” ? In certi limiti, nemmeno contestiamo la legittimità della dialettica, pur i filosofi abusandone troppo spesso; ma questa dialettica, in ogni caso, non deve essere che un mezzo, non un fine in se stesso, e altresì può avvenire che questo mezzo non sia indi- stintamente applicabile a tutto i soltanto, per rendersene conto, bi- sogna uscire dai limiti della dialettica e la filosofia come tale non lo può ». ..omissis…

« Di fronte a questi titoli del simbolismo, che ne fanno il valore trascendente, quali sono quelli che può rivendicare la filosofia? L’origine del simbolismo si confonde veramente con l’origine dei tempi, se anche non sta in un certo senso oltre i tempi, poiché questi ultimi in realtà non comprendono che un modo speciale della manifestazione (4); d’altronde, già lo notammo, non v’è alcun simbolo autenticamente tradizionale che si possa riferire ad inventore umano, di cui si possa dire che sia stato immaginato da tale o talaltro individuo; e ciò stesso non dovrebbe far riflettere coloro che ne sono capaci? Invece ogni filosofia non rimonta che ad un’epoca determinata, insomma sempre recente, anche se si tratta dell’antichità “classica”, che è un’antichità molto relativa (il che prova d’altronde come, anche umanamente, questa forma speciale del pensiero non abbia nulla d’essenziale); essa è l’opera di un uomo il cui nome ci è conosciuto al pari della data in cui è vissuto, e questo stesso nome serve d’ordinario per designare quest’opera; non vi è dunque nulla che non sia umano e individuale. Perciò dicevamo in precedenza che si può soltanto pensare di stabilire un qualsiasi paragone fra la filosofia e il simbolismo a condizione di limitarsi a considerare quest’ultimo esclusivamente dal lato umano, poiché, per tutto il resto, non si può trovare nell’ordine filosofico né equivalenza né corrispondenza di un qualsiasi genere.

«La filosofia è dunque, se si vuole, e per vedere le cose dal verso

migliore, la “saggezza umana”, od una delle sue forme, ma in ogni

caso non è altro; per tal motivo diciamo che è ben poco in fondo;

se non è altro, è perché è una speculazione del tutto razionale, e la

ragione è una facoltà puramente umana, proprio quella per cui si

definisce essenzialmente la natura individuale umana come tale.

“Saggezza umana”, come dire “saggezza mondana”, nel senso in

cui il “mondo” è inteso specialmente dal Vangelo; potremmo dire altresì ugualmente “saggezza profana”; tutte queste espressioni

sono in fondo sinonimi, ed indicano chiaramente che non si tratta

della vera saggezza, ma tutt’al più di una sua ombra assai vana, ed

anche troppo spesso “invertita”». …omissis…

«Possiamo, per concludere su tal punto, riassumere in poche

parole il fondo del nostro pensiero: la filosofia non è propriamente

che “sapere profano” e non può pretendere a nulla di più, mentre

il simbolismo, inteso nel suo vero significato, fa parte essenzialmente

della “scienza sacra”, che anzi senza di esso non potrebbe esistere

in vero, o per lo meno esteriorizzarsi, poiché ogni mezzo d’espressione

appropriato le farebbe difetto ». …omissis…

da VOLUME “VERSO LA LUSE ” di FRANCO MASSIMO

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