SULLA MORTE
R. F.
Io nutro una profonda stima ed ammirazione per coloro che sinceramente non temono la Morte. Ciò dimostra una profonda maturità che supera e vince uno dei più profondi misteri della vita.
La Morte, limite naturale dell’esistenza degli individui, anche se non spezza la continuità della specie, significa perdere la vita e quindi le facoltà fisiche e spirituali che la costituiscono. Diventa un problema filosofico per le implicazioni metafisiche ed esistenziali che la morte, come fenomeno umano, sottende.
La Morte è l’ispirazione della filosofia, è il problema filosofico per eccellenza e la stessa filosofia (come pure ogni religione) non è che “un controveleno alla certezza della Morte”.
La tesi di Platone parte da una radicale svalutazione del corpo e concepisce la Morte come liberazione, catarsi suprema, la quale risolve la crisi profonda che riguarda l’Uomo come essere composto. Tale concezione viene ripresa dal Cristianesimo, che concepisce la Morte essenzialmente come “transitus”, passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena.
La tesi materialistica concepisce invece la Morte come il disgregarsi del composto, come rottura di una forma biologica. Il problema filosofico della Morte viene risolto liberando la Morte stessa dall’alone di mistero che la circonda, riducendola ad un fenomeno naturale, e suggerendo una serena accettazione di essa. Il Saggio non teme la morte, perché “quando c’è la Morte noi non ci siamo più”. Affrontare la Morte, inteso come problema, da un punto di vista culturale (da un punto di vista cioè in cui si tengono presenti i contributi della filosofia, della sociologia e della psicanalisi) è compito non facile e ci pone di fronte a tutta una serie di problemi a cui è possibile, in questa sede, soltanto accennare di sfuggita.
Poter riflettere sulla Morte da parte dell’Uomo, significa anzitutto essere consapevoli che la Morte non è un muro contro cui ci si avventa nel buio, che essa non è uno stritolamento dell’essere vivente da parte di ostili forze esterne, come sostenuto da alcune religioni africane. La Morte certamente può infiltrarsi attraverso l’effetto di queste forze, ma la Morte è inerente allo stesso processo della Vita.
La Morte è in qualche modo un atto dello stesso essere vivente. Questa consapevolezza sembra a noi oggi un fatto naturale, tuttavia essa non era presente in epoche lontane dalla nostra, quando l’Uomo non aveva ancora raggiunto un certo grado di sviluppo psichico e intellettuale che gli permettesse di apprendere dall’esperienza al fine di estrarre una regola, una legge, dai numerosi avvenimenti osservabili, arrivando cioè alla conclusione che “tutti gli uomini sono mortali”.
Presso certe popolazioni “primitive” è estranea tale consapevolezza della Morte come fatto inerente alla vita, e la Morte è il risultato dell’azione o dell’influenza maligna di un nemico, sia in forma umana sia in forma spirituale.
I numerosi miti che i popoli primitivi hanno costruito intorno all’origine della Morte avvalorano perciò la tesi secondo cui, durante la lunga preistoria del genere umano, la Morte non fu considerata un attributo ineluttabile della condizione umana.
Nell’ambito del pensiero filosofico la storia del problema, è da un lato la storia dei tentativi di accettare che il decesso non segni la fine assoluta e che la sopravvivenza non sia illusione, ed è dall’altro lato la storia del progressivo emergere dello scetticismo verso queste affermazioni e queste credenze.
Il problema si sposta sempre più dalla necessità di dimostrare l’irrealtà della Morte, al tentativo di trovare un “modus vivendi” emotivo e intellettuale conciliando il nostro spirito con la certezza che, cessato l’ultimo battito del polso, tutto finisce. I due aspetti principali di questo problema sono: come dominare la paura di morire e come neutralizzare o rifiutare la deduzione, apparentemente inevitabile, che il nostro breve soggiorno sotto il sole sia uno scherzo senza senso, una tragicommedia assurda.
Il problema del significato dell’esistenza umana, problema fondamentale della filosofia, acquista la sua vera e pratica importanza attraverso la totale scoperta della Morte da parte dell’uomo.
I gruppi umani sono sempre stati colpiti, in un modo o nell’altro, dalla brutalità e dalla inevitabilità della Morte. Tuttavia la coscienza collettiva, impadronendosi delle realtà percepite o vissute, le inserisce in complessi immaginari. In tal modo la Morte ha potuto essere avvicinata al sonno, allo svenimento, all’incubo ecc, oppure essere trasformata in tecnica di liberazione (civiltà dell’India) o di redenzione (cristianesimo).
In Occidente, oggi, malgrado l’apporto del Cristianesimo e le consolazioni che ne traggono i fedeli, la Morte è vissuta innanzitutto come distruzione: con essa l’essere diviene non essere; attraverso di essa, la presenza si muta in assenza.
Al contrario, le cose non stanno così agli occhi del bramino o del buddista, per i quali morire significa lasciare l’apparenza illusoria degli esseri e delle cose al fine di ritrovare l’”Uno-Tutto”; come non stanno così in certe popolazioni dell’Africa, in cui i morti continuano “a vivere” con i viventi che li nutrono e li vezzeggiano. Si tende oggi a dare, a volte, scarsa importanza allo studio culturale del problema della Morte.
L’argomento secondo cui l’interesse per la Morte ci porta a trascurare il compito concreto e urgente di migliorare la condizione umana, promovendo il benessere umano, dimentica che anche la Morte appartiene alla condizione umana e che la riflessione sulla Morte è innanzitutto una riflessione sulla vita.
Disprezzare i problemi emotivi e intellettuali che sorgono dalla certezza di dover morire è uno sgusciar via da quella che deve essere considerata la particolare responsabilità della filosofia e delle scienze umane verso un compito che soltanto queste possono assumersi in un’epoca in cui la forza della religione sembra essere spesso in diminuzione nella coscienza dell’uomo. …. Io nutro una profonda stima ed ammirazione per coloro che sinceramente non temono la Morte