8 dicembre 1992.
Riflessioni in un mattino d’inverno
Guardo, attraverso i vetri, la neve che cade. Mi piace, mi dà gioia,
mi restituisce fresche sensazioni. E la prima neve di questo inverno.
Peccato che il suo bianco immacolato sia di breve durata, si trasformerà
presto in un grigio pantano, come grigia è ormai tutta la città.
Mi assale una grande nostalgia di vette incontaminate, di profondi
silenzi interrotti soltanto di quando in quando dallo scricchiolio di
passi sulla neve. Nostalgia di un mondo che oggi ci sembra tanto tanto
lontano. Purezza incontaminata, silenzio.
Sono momenti questi che invitano alla riflessione. Riflessione sui tanti
avvenimenti che oggi ci turbano, sul mondo inquieto in cui siamo immersi, sulle certezze di ieri che ci sembrano oggi improvvisamente
svanite, lasciandoci la sofferenza, l’inquietudine del dubbio e la malinconia della delusione.
Su tutti quegli scheletri emersi dagli armadi — e pur sapevamo che
c’erano[G1] — putrefatti, maleodoranti, inquietanti.
Un continuo, inarrestabile, fastidioso cicaleccio ci assorda, lo starnazzare di un pollaio. Quanto si parla! e le affermazioni di oggi verranno domani disinvoltamente smentite. La memoria è breve, sia che si tratti di immani tragedie, di bambini affamati e uccisi, o di fatti banali, destini di popoli, o di fatui pettegolezzi da alcova.
Ieri[G2] si è inaugurata la stagione scaligera con il Don Carlos di Verdi
(non di Zeffirelli, come taluno ha voluto indicare). Mi ha molto colpito
che il pubblico sia stato invitato all’austerità. Per quale ragione,
mi sono chiesta. Il nostro solito atteggiamento falsamente moralista
ha fatto capolino? Per riabilitare agli occhi del mondo e del Paese
l’ex capitale morale? Per coprirci il capo di cenere è recitare un pubblico
«mea culpa» perla sempre più dilagante Tangentopoli (non certo
emblema di austerità), lasciando negli armadi e negli scrigni lussuose
toilettes e preziosi gioielli? Una nuova forma di pubblicità per una
rinnovata, depurata immagine nazionale?
La presentazione di un’opera creata da un italianissimo genio, a mio
parere, in uno splendido teatro, già gloria e vanto di una splendida
Milano, e testimone di tempi gloriosi e di appassionate vicende patriottiche, avrebbe richiesto, proprio oggi, uno spettacolo da Mondovisione. Per proiettare, anche se solo l’immagine di per una solitaria serata, – una Italia, sì oggi avvilita e contusa, ma anche patria di artisti sublimi e scrigno di splendide (anche se vergognosamente trascurate) opere d’arte. Il presente grigiore non può, non deve annullare il passato, a cui dobbiamo ancorarci per quanto di buono e glorioso ci ha dato.
Il cicaleccio, lo starnazzare neppure questo avvenimento ha risparmiato. Leggo sulla «Stampa» di oggi: «Sulla Scala si abbatte una bufera». Cosa è accaduto? Il tanto celebrato tenore ha preso male un acuto, il loggione ha impietosamente protestato con fischi e invettive, il Sovrintendente ha rabbiosamente replicato nei confronti dei contestatori, il regista ed il direttore d’orchestra si sono sentiti offesi. Malinconica conclusione!
Ancora una volta, in armonia con lo spirito del tempo, quella che ieri sarebbe stata una legittima comprensibile protesta sul piano artistico, si è tramutata in aggressività, volgarità, maleducazione. Un grande tenore può anche sbagliare, è un essere umano. Potrei forse fare una riflessione sull’uso intenso, «commerciale» che personaggi giunti all’apice della notorietà e del successo, insaziabili, fanno della propria immagine, e sull’altrettanto umana vicenda dell’inesorabile declino a cui tutti siamo soggetti. Potrei fare una riflessione sul conclamato regista, già grande, grandissimo in molte sue opere, che vuole Oggi ad ogni costo essere innovatore, maestro di maestri. Forse sbaglio, ma penso che un’opera d’arte debba sempre esprimere il momento e la sensibilità del suo creatore. Il tempo corre, ma l’oggi non cancella il ieri, rimane una linea di continuità, con la sua memoria, i suoi insegnamenti e anche i suoi ammonimenti. Possiamo immaginarci la «Divina Commedia» nel nostro attuale involgarito linguaggio, la possiamo immaginare senza l’arcana, misteriosa armonia della poesia di Dante, senza il fascino del dolce «Stil Novo»? E possiamo immaginare Dante e Virgilio, nel loro viaggio attraverso l’Inferno, il Paradiso, il Purgatorio, in «blue jeans» e scarpe Timberland? Io no.
La neve continua a cadere e intorno a me è tutto bianco. E penso ancora come possiamo, proprio noi, nel mondo in cui ci troviamo, e con le armi che possediamo, volerci erigere a giudici ed interpreti del passato. Noi che brancoliamo, che non sappiamo neppure come costruire il futuro.