DISTILLAZIONE
L’Alchimia dell’Elixir
Fra le operazioni alchemiche, la distillazione venne occupando un ruolo centrale presso quegli alchimisti che, seguaci della teoria della materia elaborata dal filosofo Ruggero Bacone, ritennero possibile ottenere la materia prima di tutte le cose attraverso la separazione delle componenti elementari delle sostanze di partenza. Non si trattava, cioè, di ottenere semplicemente la sostanza liquida (mercurio) e quella urente (zolfo) che, secondo la teoria dei metalli posta alla base dell’alchimia metallurgica, erano le due esalazioni che componevano i metalli, costituite a loro volta dai quattro elementi. Per Bacone, e poi per lo pseudo-Raimondo Lullo, come negli scritti attribuiti ad Arnaldo da Villanova, in quelli di Giovanni Dastin e di Giovanni da Rupescissa, il primo stadio dell’opus alchemico doveva consistere nella separazione dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco, segnalati dai quattro diversi colori) che costituivano, mescolati in proporzioni diverse, tutte le realtà: questa separazione era ottenuta attraverso un uso sapiente del fuoco che, in fasi successive, faceva salire verso l’alto, nel vaso, dapprima la parte più volatile della sostanza prescelta (parte che veniva equiparata all’elemento più leggero, ignis/fuoco), poi successivamente le parti considerate rispettivamente aria e acqua, mentre il residuo che permaneva sul fondo del vaso era denominato terra. Si vede, pertanto, che sotto il termine di ‘distillazione’ gli alchimisti medievali potevano comprendere anche operazioni che oggi non sono così definite (oggi infatti si riserva l’uso di questo termine alla separazione in un liquido delle componenti di volatilità differente). Se la distillazione avveniva in un vaso dotato di un canale o becco per lasciar uscire le sostanze ‘elevate’, cioè volatilizzate, si ottenevano in successione quattro prodotti, identificati ciascuno con un elemento (la parte ignea era anche definita oleum), che potevano essere ricombinati in equilibrio perfetto per ottenere un corpo non più corruttibile, il lapis o elixir. In effetti, la difficoltà maggiore nel distillare era legata proprio al momento della raccolta del prodotto, e solo dopo che varie tecniche vennero messe alla prova per poter raffreddare il becco dell’alambicco si riuscì ad ottenere il distillato di sostanze come il vino, o altre di origine vegetale. Questa tecnica venne usata in ambito farmacologico prima che alchemico, come mostrano gli scritti di Taddeo Alderotti e Arnaldo da Villanova, e costituì, insieme alla problematica del prolungamento della vita, lo stimolo maggiore ad una convergenza della ricerca alchemica con quella farmacologica, sulla cui base l’alchimia dell’elixir avrebbe suscitato un duraturo interesse presso i medici fino ben dentro l’età rinascimentale. Se però si effettuava una serie ripetuta di distillazioni in un vaso sigillato ermeticamente, si aveva la vera e propria distillazione alchemica: quella cioè in cui la materia prima, ottenuta attraverso la dissoluzione dei legami che tenevano assieme il composto elementare, si separava nelle sue componenti e si congiungeva ripetutamente (per un numero di volte che era indicato con numeri simboleggianti la totalità, come sette, dieci, cento e i suoi multipli), fino a trasformarsi, senza aggiunta né sottrazione di sostanza, nella propria perfezione. Questa era propriamente la quintessenza, per il cui ottenimento sono raffigurati nei manoscritti vasi di tipo particolarissimo, come il ‘pellicano’ o il ‘vaso doppio’, in cui il canale d’uscita sfocia nel corpo del vaso stesso. E poiché questo processo aveva un equivalente spirituale nel tema del sacrificio che produce la reintegrazione, a questi vasi sono stati attribuiti, nelle interpretazioni allegoriche dell’alchimia che fanno pernio sul tema della salvezza, significati attinenti la chiusura del lavoro interiore.