Dolce nella memoria. Quando le campane cominciarono a
squillare e cominciarono le onde del suono a dilatarsi intorno su le terre
benedette, noi ci fermammo nel mezzo del sentiero.
– È la Purificazione – disse Giacinta.
Ave, Maria!
Io ricordo: ella era tutta bianca, in una veste di lana
quasi monacale. Le pieghe abbondavano su ‘l petto, le si stringevano fitte
alla vita, le ricadevano libere fino ai piedi. Ella aveva nella pelle del
collo, della nuca, delle tempie, sparso un colore dolce di oro, qualche cosa
d’indefinibilmente aureo e trasparente, sotto la peluria a pena visibile. Su
‘l pallore delle guance le perle pendenti dalla conchiglia rosea
dell’orecchio stillavano uno splendore vago, talvolta leggermente opaco. Era
scoperta una parte della nuca, su cui fioriva una nebbia meravigliosa di
capelli: il resto del collo era coperto dalla cravatta di velo bianco alta,
sotto i giri delle perle: il resto dei capelli era fermato in un gran nodo
fulvo e si diffondeva ai lati in una velatura di cipria che li faceva
sembrare cinerei.
Ricordo tutto.
Ella disse: – Ave, Maria! – candidamente. Poi mi sorrise
da quella bella bocca smisurata. E restammo un momento ad ascoltare le
campane che suonavano nella grande solennità del mattino di febbraio.
Eravamo in vicinanza di Fontanella. Su quelle alture li
ultimi vapori bianchi si sollevavano dal suolo e si fondevano nell’aria; e
come le alture si umiliavano al piano, succedeva ai vapori un vivo
scintillamento di brina recente. Tutto il terreno pareva cristallizzato, e su
quel fondo mobile di splendori li alberi nudi sorgevano come fredde efflorescenze
di pietra. Da un lato un gran mucchio d’alberi di fico grigi aveva delle
forme mostruose di ramificazione. Rammento ancora che certi altri alberi dai
rami numerosi e sottili, forse olmi, forse pioppi mi dettero l’impressione
puerile di giganteschi millepiedi eretti su una estremità.
Giacinta pregava; vedevo le sue labbra muoversi al
proferire sommesso delle sillabe. Io la guardavo. Ella non era veramente
bella, di una bellezza pura; nel sorriso la bocca le si allargava salendo ai
lati verso i lobi degli orecchi, ma i denti avevano una nitidezza gemmea; li
occhi avevano l’iride piccola e il globo grande addolcito da quella tinta
lieve d’indaco che è comune nei bambini. Così mi piaceva. Già ella aveva
messo nella mia puerizia vergine un turbamento, qualche cosa che somigliava
un germe d’amore. Ella usciva dai sedici anni, donna.
E dopo un momento disse: – Andiamo verso la chiesa.
Camminavamo al fianco, pe ‘l sentiero rompendo a pena con
qualche parola il silenzio. Da un lato si stendevano le vigne morte coi
tralci rossi che aspettavano i tagli del ronco, poiché presentivano la
primavera; dall’altro lato si allungavano i solchi di grano nell’infanzia
verde e gentile. Quando sboccammo su la strada di Chieti, un branco di pecore
ci guardò passare; le mansuete bestie nere e bianche stavano con la testa
alta, con li orecchi rosei contro la luce, su l’erbe corte nell’idillio
mattinale: e due o tre poppanti cercavano irrequietamente i capezzoli tra le
zampe delle madri.
Giacinta sorrise quasi teneramente, volgendosi; ella era
pia.
II.
La chiesa stava in fondo a una strada protetta da uerci
che avevano una gravità di patriarchi ed una età di numi. Di fuori gli
scrostamenti dell’intonaco lasciavano vedere il mattone rossastro, si
aprivano ai lati le finestre semilunari. Su la cuspide ottusa della facciata
una croce di ferro tendeva le braccia. Era una chiesa di architettura
semplice e rude, simile a quelle che i fanciulletti con poche linee tracciano
sui margini dei libri odiosi. Si affacciavano attorno su la piazza le case
dei coloni, i cumuli alti di paglia secca. Io conservo ancora un’impressione
di colore; le pignatte di terracotta vermiglia su certi fusti d’albero
contorti altissimi in quel cielo di un azzurro così spirituale. Ed ho ancora
dinanzi la faccia cava di quella femmina malata che ci tese la mano per
l’elemosina su la porta. Una faccia d’una tinta indefinibile, dove di vivo
non restavano che due occhi tristemente glauchi di rospo solitario nell’ombra
di un fazzoletto nero a piccoli fiori gialli legato sotto il mento. Una mano
che faceva pensare alla palma pelosa dell’anatra.
Entrammo nella chiesa io e Giacinta tra la folla. I
contadini ossequienti ci lasciavano passare nella graveolenza dell’olio
ch’essi portavan lucido ai capelli. Giungemmo nel mezzo; dove cominciava
digradando verso l’altare, la mèsse delle cristiane inginocchiate, una gran
mèsse varia di teste coperte dai fazzoletti di seta gialli, rossi, neri, a
palle, a strisce, a fiorami. L’altare sorgeva intorno tutto fiammeggiante di
ceri votivi, i cui raggi si rinfrangevano su le palme di zinco sottoposte, su
le dorature false della custodia, su i fiori artificiali di fili d’argento e
di lana. Presso l’altare, da una eminenza la Vergine sovrastava alla turba
dei fedeli; la Regina delle Vergini, tutta bella nella veste di raso azzurro
a ricami d’oro, tutta gloriosa nel diadema di metallo bianco a grosse pietre
gemmanti, tutta illuminata dall’adorazione di quelle anime peccatrici che
supplicavano il perdono.
Io e Giacinta eravamo rimasti in piedi, stretti l’uno
contro l’altra dalla pressione della folla, silenziosi, guardando. Nell’aria,
già fatta tepida da tanti aliti umani, in mezzo alle esalazioni della turba
nuotavano li odori acuti delle giunchiglie, delle viole e del rosmarino. Un
chiarore cupo scendeva dalle finestre semilunari coperte di tende rosse. Non
si udiva che il soffiare dei mantici su l’organo e a tratti quando uno apriva
la porta per entrare, la voce lamentevole e rauca della mendicante malata.
– Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat
juventutem meam… – cominciò il prete a’ piedi dell’altare.
Giacinta stava immobile, ascoltando. Ella sola era in
mezzo a tutto quel tumulto di colori nella penombra; ella sola era diritta ed
esile, emergente come un gran fiore d’acqua che si protenda verso la luce. Ed
ella credeva, ella era pia. Accanto a noi, rammento, s’alzava una specie di
tabernacolo di legno scuro, chiuso da tre vetrate, che custodiva il simulacro
di San Rocco in gesso dipinto. Stavamo sotto la protezione del santo. Un cane
barbone, accovacciato sopra il piedistallo, ergeva il muso verso il
protettore; e il martire dalla barba nera, additando con la sinistra mano una
piaga paonazza sul ginocchio nudo, con la destra sorreggendosi al bastone di
pellegrino, guardava immobile nel vuoto con due occhi di vetro bianco forati.
In cima al tabernacolo pendevano due piedi accoppiati e un braccio, formati
rozzamente nella cera, rossicci come vere mutilazioni di membra d’uomini, ex
voto.
– Confitebor tibi in cithara, Deus, Deus meus! – seguitava
il prete, con la voce cavernosa, a’ piedi dell’altare. L’organo in alto
metteva degli accordi profondi ma sommessi, cambiando ad ogni momento il
tono. Le canne lucenti dello strumento sorpassavano la sommità del
baldacchino; e là dietro, nel coro, dallo strappo di una tendina apparve d’un
tratto il sole e si allungò nell’aria in una striscia d’oro tutta
formicolante di atomi. Una parte del Cristo crocefisso si disegnò scura su
quella striscia gloriosa.
– Gloria Patri. et Filio, et Spiritui Sancto…
Tutta la turba si piegava in un raccoglimento e la gran
voce dell’organo rispondendo dominava il canto rauco del prete. L’ombra era
accresciuta dal contrasto del sole nel coro; cresceva il tepore alimentato
dai fiati dei genuflessi, un tepore pesante che persuadeva la sonnolenza, che
abbatteva li spiriti nella contemplazione inerte del dio.
– Domine exaudi orationem meam.
Io e Giacinta eravamo stretti l’uno contro l’altra, Una
specie di affievolimento cominciava a prendermi, un calore intenso mi saliva
alla faccia; aveva una sensazione strana di tutto quell’agglomeramento di
uomini sopra cui passava l’onda della preghiera, nell’ombra rotta dai
bagliori tremoli dell’altare. Io pure credevo; e dalla mia fede di fanciullo
i suoni dell’organo sacri e l’odore dolce che emanava da Giacinta suscitavano
delle visioni confuse, delle visioni infinite, di mezzo a cui, non so perché,
fiorivano certi ricordi vaghi della prima infanzia; il ricordo, per esempio,
di tanti gigli dai grandi calici argentei che mi assopirono co ‘l profumo una
sera di giugno nella stanza di mia sorella; il ricordo di un grappolo di nidi
che io feci cadere con una canna dalla grondaia, una mattina di primavera,
per rubare le piccole ova perlate alle rondini covanti.
– Oremus te, Domine, per merita Sanctorum tuorum…
E li accordi dell’organo misero un lungo fremito su tutte
le teste. Giacinta s’inchinò. Io la tenevo per la mano. Ella era più alta di
me; io le appoggiavo leggermente il mio capo su la spalla. Io non so quel che
ella sentisse; ma la mia era una sensazione pura e mite; era un languore che
mi saliva a poco a poco le vene, era quasi una tenerezza che mi vinceva
l’anima e mi faceva piegare le ginocchia inconsciamente e piegare il capo.
– Tu solus Dominus, tu solus Altissimus, Jesu Christe…
Ci fu un movimento confuso in tutta la turba
inginocchiata, ci fu su tutta la turba il passaggio rapido di qualche cosa di
biancastro. Erano forse le mani che facevano il segno della croce dalla
fronte al cuore. L’organo d’improvviso ascese alle voci acute, gittò nella
navata un grande accordo gioioso d’Inno che attraversò tutte quelle anime
come un fascio di raggi e le assunse al paradiso.
Ma si sentì tra la folla il tintinnare delle monete di
bronzo su ‘l piatto che il chierico portava in giro; poi si sentì in alto lo
scorrere stridulo delle tendine rosse. Una gran luce piovve dall’alto; fu una
emersione di colori, in basso, alla luce.
– Kyrie, eleison. Christe, eleison, Kyrie, eleison.
Cominciarono le voci nel coro, malferme, incerte; le voci
delle bambine che non si vedevano. Parvero zampilli salire in quell’aria dove
il sole di febbraio diffondeva una virginale beatitudine di nimbo, quasi una
evanescenza di polviscoli biondi. Io chiusi li occhi, ebbi un lungo brivido
di letizia, mi strinsi a Giacinta che seguiva a voce bassa la litania; e
l’istinto dell’amore, che si andava determinando lentamente nel mio organismo
di fanciullo, metteva in quella letizia mistica una vena lieve di desiderio
sensuale. Io vedevo, a traverso le palpebre, un bagliore roseo, una gran
selva rosea fiorire, a traverso il tessuto vivente delle mie palpebre.
– Sancta Maria, ora pro nobis!
Le voci si facevano sicure e limpide; le cadenze
dell’organo si seguitavano in tono minore. La turba aveva da prima un
ondeggiamento di teste indistinto; poi, a poco a poco, trascinata dal
cantico, stupefatta dal calore e dall’odore misto dell’incenso e dei fiori, a
poco a poco, si protese in avanti, si protese verso la Vergine, con uno di
quelli impeti ciechi che la superstizione dà alle anime semplici. La Vergine
risplendeva nella luce superiore; avea la faccia bianca e impassibile, li
occhi immoti e senza sguardo e in que’ globi di cristallo la fascinazione
intensa che è solo nelli occhi delli idoli informi e dei pesci morti.
– Virgo prudentissima. Virgo veneranda. Virgo
predicanda…
Allora tutte le voci irruppero; fu un gran cantico di
tutte le voci, una grande elevazione di laudi nell’aria, in alto, verso la
navata che coronavano i raggi del sole crescenti e i vapori del turribolo, in
alto, in alto.
– Rosa mystica. Turris Davidica. Turris eburnea…
In alto! Una tenerezza infinita di amore invadeva la turba
genuflessa, un soffio ardente e dolce passava sopra tutte le teste e le
prostrava nella preghiera su ‘l pavimento.
– Consolatrix afflictorum, ora pro nobis!
Giacinta cantava anch’ella, reclinata, con un rossore
spirituale su ‘l volto, con lucidi li occhi, vibrando come uno strumento
sonoro. Io non avevo piegato le ginocchia, non v’era spazio intorno a me; ma
una specie di sbigottimento folle mi teneva, perché io solo soprastavo a
tutti li altri in giro, e quelle creature umane così prostrate e così
ciecamente imploranti, quella vivente massa di materia da cui irrompeva un
così alto inno di passione quasi inconsciamente, e quel sole che empiva la
navata e qua e là s’abbatteva su i dorsi, e quei vapori strani ora nauseanti
ed ora celesti, e sopra tutte le cose quella madonna immobile e rigida, quei
santi immobili e rigidi guardanti nel vuoto, mi davano uno spettacolo
pauroso, mi sconvolgevano la piccola anima incolta.
E l’inno cresceva, le litanie ascendevano; pareva che al
lungo fremito le canne dell’organo scoppiassero.
– Regina virginum. Regina Sanctorum omnium, ora pro
nobis!
L’agnello di Dio veniva ora nel cantico, l’agnello di Dio
che scancella i peccati del mondo. Era l’ultima elevazione delle laudi.
– Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix!
L’organo cessò; si propagò il rombo della navata, e il
rombo cessò. Si faceva nella chiesa un silenzio, dove i credenti ancora
prostrati respiravano gravemente. Poi tutte le fronti si rialzarono, tutte le
mani si levarono nel segno della Croce; un bisbiglio corse nella turba; dalla
porta aperta entrò un’ondata di aria libera purificatrice. Dal coro venivano
voci rotte; dietro l’altare si vedeva un ondeggiamento confuso di stendardi.
Io e Giacinta eravamo ancora sotto il tabernacolo di San
Rocco. Quando sollevai li occhi verso di lei, ella mi sorrise; ma io non so
ora fermare nelle parole quel sorriso: fu come il passaggio di qualche cosa
di benigno e di luminoso su la sua faccia che restò triste; non fu un moto
della bocca né delli occhi, no; parve, ecco, quasi un bagliore che accendesse
il profilo pensoso di una statua bianca; no, neppure; io non trovo la frase.
Restammo dopo in silenzio, aspettando che dalla sacrestia cominciasse a
svolgersi la processione. Alla porta, su lo spiazzo, un gruppo di uomini
vociferava: si metteva all’incanto la gloria di portare su li omeri il peso
dell’immagine di Maria.
– Cinque carlini! Un ducato! Due ducati!…
La turba aspettava. Quasi tutte le femmine le mani
incrociate su ‘l ventre e nelli occhi uno stupidimento smorto; li uomini
guardavano verso la porta, con un mormorìo. In mezzo a loro, nel solco
lasciato libero, su ‘l pavimento cominciò a muoversi una massa incerta, nerastra,
un mucchio di cenci, e a strisciare lentamente verso l’altare.
– Due ducati! tre ducati!
Da quel mucchio di cenci usciva una testa umana, come dal
guscio di una testuggine sbuca la testa verdastra tentennando. Era la
mendicante malata; io la riconobbi con un brivido di ribrezzo, perché ella
non aveva più il fazzoletto che la coprisse: appariva un cranio deforme,
pieno di rosicchiature simile a un teschio dissotterrato dove ancora
rimanesse qualche ciocca di capelli grigi e qualche avanzo di cotenna
rossiccia. E quel cranio veniva innanzi su ‘l pavimento, sospinto dal corpo
che le palme delle mani e le ginocchia sorreggevano.
– Tre ducati! tre ducati e mezzo!
La mendicante faceva tante croci con la lingua su i
mattoni, in gloria di Maria; voleva andare sino ai piedi di Maria; voleva
essere degna di baciarle il lembo della veste. Raccoglieva le forze,
contraendosi, puntando le dita dei piedi scalzi. Dai due lati del solco la
gente guardava con l’indifferenza di chi è avvezzo a uno spettacolo di orrore.
Ma sopraggiunse un uomo alto, vestito di una cappa turchina, con un gran naso
adunco, iroso; percosse col piede la mendicante, la rialzò brutalmente da
terra, la trascinò fuori della porta: – Via! via!
– Tre ducati e mezzo! quattro ducati!
L’incanto era finito. Dietro la sacrestia cominciò a
squillare il campanello; poi, d’un tratto, un grande scoppio di campane in
alto fece tremare la chiesa dalle fondamenta. E i primi stendardi si mossero
orizzontali, uscirono all’aria, si raddrizzarono e sventolarono; erano due
stendardi violacei con le trine d’argento. Din don! din don! Si
mossero gl’incappati azzurri, con i ceri accesi, a due a due, in fila.
Din don, din don dan! Si mosse un terzo stendardo,
altissimo, di scarlatto cupo orlato d’oro, con una palla d’oro in cima
all’asta. Din don dan! Si mosse il Cristo gigantesco, inchiodato su la
croce, tutto chiazzato di lividure e di sangue, portato su la bocca dello
stomaco da un uomo mambruto sorretto da due altri ai lati.
Din don, don don! Gli strumenti d’ottone cominciarono
una marcia trionfale; i mortaletti saltarono. Si moveva alfine la Vergine
delle Vergini, la Stella mattutina, la Torre d’avorio, in mezzo alle grida
del suo popolo, e usciva al sole, usciva a spargere la benedizione su tutte
le campagne seminate.
– Alleluja! alleluja!
La turba delle femmine e delli uomini trascinata seguiva
lo scintillare e l’ondeggiare del manto in alto. Li stendardi investiti dal
vento sbattevano e si attorcigliavano alle aste. Nella strada la polvere si
sollevava a buffi involgendo tutta la pompa. Il baldacchino rosso oscillava
su i quattro sostegni dorati, minacciando i preti cantori.
Io e Giacinta vedemmo allontanarsi la processione tra le
querci patriarcali, vedemmo li ultimi sventolamenti violacei nell’aria
chiara, vedemmo brillare la croce su ‘l diadema della Madonna, perdersi poi
tutte quelle forme mobili nel fiammeggiamento del sole che proteggeva la
campagna deserta…
– FINE –
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