CIBI E BEVANDE NELL’ANTICA ROMA

Cibi e bevande nell’antica Roma

di: Eugenia Salza Prinia Ricotti

Allestimenti spettacolari: animali guarniti come figure mitologiche, dolci come statue. Il vino dei padroni del mondo.

      Nella presentazione del vassoio che si trova nel Satyricon, il trionfo cen­trale, circondato da polla­stre ed altre delicatezze, era costituito da una lepre guarnita di ali in modo da rappresentare Pegaso, il mitologico cavallo alato. Attorno a questa parte centrale vi era poi una ca­naletta, nella quale erano stati collocati pesci che sembrava nuotassero nella salsa. Una presentazione barocca, fantastica, ma affascinante, probabilmente simile a quella che nella realtà veniva disposta nel vassoio di Oplontis.

      Altri allestimenti spettacolari con­sistevano nel portare a tavola animali cucinati interi: grossi pesci, cinghiali, maiali e persino vitelli. Dato che la gente mangiava con le dita e non ave­va posate, essi andavano tagliati a pez­zi di dimensioni possibili. Per questo esistevano gli scalchi, servitori che se­guivano speciali scuole, come quella tenuta alla Suburra da un tal Trifero. Era da lui che essi venivano addestrati su come tagliare in modo perfetto e ra­pido qualsiasi arrosto. Travestiti a vol­te da personaggi mitologici, venivano al seguito del vassoio e si scagliavano sull’animale da affettare come se fosse un pericoloso nemico, facendo dell’o­perazione di dividerlo in pezzi uno spettacolo di varietà.

      Ormai qualsiasi portata veniva pre­sentata con molta ricercatezza. Anche i pasticceri ricorrevano a presentazioni spettacolari per i loro dolci. Nel ban­chetto di Trimalcione il dessert è addi­rittura una statua di pasta dolce, rap­presentante Priapo mentre sorregge nel grembo della veste ogni genere di frutta: un tipo questo molto frequente nella statuaria. Tutto ciò naturalmente non era limitato al banchetto di Tri­malcione. Anche se in esso tutto è for­zato e caricaturato per poter far ridere il lettore, il tipo di presentazione dei cibi doveva comunque esser simile a quello descritto da Petronio, e queste portate dovevano far parte di molti banchetti compreso quello imperiale.

      Ormai in tutte le case, quando si offri­va una cena, si seguiva il tipico sche­ma del banchetto romano che partiva dalle uova sode, passava attraverso gli antipasti più complicati, gli arrosti più saporiti ed approdava infine ai dolci, alla frutta ai fiori ed ai profumi distri­buiti durante il simposio.

      Questo speciale tipo di dopocena ha sempre fatto parte di tutti i banchet­ti dell’antichità. Con diverse forme, naturalmente. A Roma era molto più morigerato di quello dell’epoca d’oro greca. 

      Ma questo era da prevedersi, in quanto ai banchetti romani, a diffe­renza di quelli greci, partecipavano spesso mogli e figlie dei convitati e quindi bisognava comportarsi bene. Lo spettacolo più spinto che poteva a­ver luogo nella riunione romana era quello che veniva offerto dalle balle­rine gaditane, graziose fanciulle spa­gnole che danzavano agitando i fian­chi a suon di nacchere, mentre attor­no a loro tutti battevano ritmicamen­te le mani, più o meno come si fa an­cor oggi in Andalusia. Anche se ogni tanto qualche poeta le criticava, trovandole troppo spinte, non sembra che le povere figliole offrissero ragio­ne di scandalo e, infatti, pare che molti mariti vi assistessero con a fianco le proprie spose.

      Per il resto si chiacchierava e si be­veva secondo uno speciale cerimonia­le. I vini che venivano serviti erano ormai squisiti. I Romani potevano permetterselo, perché erano senza di­scussione i padroni del mondo. I mi­gliori erano sempre quelli che si im­portavano dalla Grecia, ma anche in Italia se ne producevano di eccellenti. Li elencano i poeti, quando descrivo­no i lunghi dopocena romani. Anche a Roma, come ad Atene, si eleggeva uno dei convitati che dirigesse il sim­posio: in latino egli veniva chiamato magister bibendi, ossia «direttore del bere», e dava disposizioni sul come si dovesse preparare la mistura di vino ed acqua decidendo poi a chi biso­gnasse brindare.

      Ciò voleva anche dire che egli fi­niva con lo stabilire quanto si doves­se bere: infatti, quando i Romani brindavano alla salute di qualcuno, tracannavano tante coppette quante e­rano le lettere che componevano il nome del festeggiato; ed i nomi ro­mani erano particolarmente lunghi. Grazie al cielo, il vino era solitamen­te molto diluito: si usava mettere tre parti di acqua per una di vino. 

      D’in­verno, come abbiamo visto, si ag­giungeva acqua bollente e a volte, per averla sempre pronta, si usavano inte­ressanti bollitori, che funzionavano con lo stesso sistema dei samovar russi: uno molto bello si trova nel­l’Antiquarium di Pompei. D’estate il vino veniva invece allungato con la neve, raccolta d’inverno sulle cime dei monti ed immagazzinata in depositi sotterranei dove, coperta di paglia, si conservava per tutta l’estate.

      I più belli fra tali depositi sono quelli principeschi di Villa Adriana, che, scavati nel tufo, sono costituiti da una serie di gallerie poste ai lati di un canale di servizio. Questo ha un fondo a sezione concava ed un’inclinazione verso settentrione necessaria per il de­flusso dell’acqua di fusione. La neve, una volta immagazzinata e ben stivata nei bracci laterali, veniva sigillata con paglia e fieno. Dato che si intaccava un braccio per volta, gli altri lasciati chiusi ed intatti potevano durare mol­tissimo, soprattutto perché l’intonaco, che rivestiva questi speciali depositi, era leggerissimo, e formava una sorta di enorme thermos nel quale la neve si conservava bene.

      Nell’antica Roma se ne usava mol­ta: essa serviva per preparare speciali piatti ghiacciati; per confezionare sor­betti e, quando d’estate il sole faceva riscaldare l’acqua nelle piscine delle terme, era sempre con la neve che la si faceva freddare. Ma l’uso più diffuso era, come sempre, quello di far gelare le bibite durante il periodo caldo. In quella stagione non c’era triclinio e ce­na elegante che ne facessero a meno e con vino ghiacciato si chiudeva il ban­chetto estivo. Era quasi sempre buio quando i convitati, sazi e leggermente brilli, sa­lutavano il loro ospite. Quasi sempre la cena prendeva fine al tramonto; ma quando ci si avviava al tetto domestico si aveva spesso bisogno di torce o di lanterne e, quando non si era ricchi ed accompagnati da forti ed atletici schia­vi, bisognava pregare tutti gli dei di esser salvati dai cattivi incontri: le strade erano piene di banditi e di risso­si ubriaconi. Era fortunato colui che riusciva ad arrivare sano e salvo al proprio letto. A volte però era proprio a casa che iniziava la battaglia. Qui, ad attendere l’amato compagno, vi era spesso una moglie od un’amante: co­munque una donna amareggiata, che si sentiva offesa e che pensava di esser stata abbandonata e trascurata.

      I bellissimi versi di Properzio, che rientrando dopo una cena vede la sua bella ancora addormentata mentre giace sul letto illuminata dalla luce della lu­na, inondano di poesia la fine del suo banchetto. E la scena che scoppia subi­to dopo il risveglio della dolce creatura non riesce a sciogliere l’incantesimo: l’amata è troppo bella e l’ira contribui­sce soltanto a renderla più desiderabile. Ma questa scena ci dice pure che, anche se le grandi dame e le imperatrici romane partecipavano con gli uomini ai banchetti e si sdraiavano sui letti tricli­niari, non a tutte era consentito di segui­re il loro esempio. Anche in epoca impe­riale il romano medio preferiva, come Properzio, lasciare a casa la sua donna e limitava la disturbatrice presenza fem­minile alle riunioni con gente seria e per bene. Parenti stretti possibilmente, cene di tutto riposo: insomma, quelle nelle quali non si beveva troppo e si era sicuri di non dover fare a pugni per difendere l’onore della propria consorte.

      Ecco, quindi, quel magnifico spettacolo che fu la cena romana con tutti i lussi più raffinati che i Romani avevano importato dalla Grecia, dall’Egitto e dall’Oriente; e tutte le usanze ed i costumi che ave­vano assorbiti ed elaborati: un tipo di banchetto che con essi si diffuse poi fino agli estremi confini del loro impero.

      Certamente, come si diceva al principio, l’estendersi del potere centrale avrà anche potuto togliere varietà alla vita conviviale del mon­do dell’epoca; ma chi se ne poteva lamentare? Con i Romani la cena, questa parte così fondamentale del­l’antica vita sociale, aveva preso un carattere speciale, estremamente in­teressante ed importante; ed essa re­stò in uso con pochi cambiamenti fi­no alla fine dell’impero. Forse durò addirittura fino a quando, con l’arri­vo del medioevo e la scomparsa dei letti tricliniari, la gente si sedette at­torno a lunghe tavole ed iniziarono i digiuni e le penitenze. Con la fine di Roma, anche il mondo brillante ed edonistico dell’antichità era, almeno apparentemente, finito.

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