Parmigianino a Fontanellato
“E avesse voluto Dio ch’egli avesse seguitato gli studi della pittura, e non fosse andato dietro ai ghiribizzi di congelare mercurio per farsi più ricco di quello che l’aveva dotato la natura e il cielo!”.
Così scrive il Vasari nella prima e nella seconda edizione delle “Vite” riferendosi a Girolamo Mazzola detto il Parmigianino. Una cronaca manoscritta locale del 1572 informa:
“Furono insigni pittori a’ tempi nostri, et di belliss.e, et legiadrisse maniere di pittura inventori Francesco di Mazoli celeberrimo di tal arte et peritiss.o Alchimista, che tanto come l’oro di gran lunga vale più di ciascun altro metallo, e vagliono l’opere sue incomparabilmente molto più dell’oro”.
Questa inclinazione del Mazzola è diventata, ai giorni nostri per molti studiosi d’arte, la principale chiave di lettura della sua espressione pittorica. Comunque è bene sottolineare che un interesse di questo tipo non è affatto strano in un uomo della prima metà del Cinquecento. Si pensi a Rosso Fiorentino, tra i migliori amici del Parmigianino a Roma, il cui interesse per l’alchimia traspare dal ciclo dei suoi dipinti ad Arezzo, dall’incisione con Mercurio e gli alambicchi e da quella con Saturno e Filira; si pensi al Beccafumi di cui il Vasari ricorda:
“stampò con acqua forte alcune storiette molto capricciose d’archimia; dove Giove e gli altri Dei volendo congelare Mercurio, lo mettono in un crogiuolo legato, e faccendogli fuoco attorno Vulcano e Plutone, quando pensano che dovesse fermarsi, Mercurio volò via e se ne andò in fumo”.
Per il Parmigianino si può parlare di un vero e proprio stile pittorico alchemico. Afferma Argan: “ …La sua passione è l’alchimia, e anche questo può essere un segno della tendenza arcaistica che stranamente si associa a un modernismo ad oltranza, addirittura utopistico”. Non è ben chiaro come il Mazzola sia giunto all’alchimia. Dell’Arco osserva:
”L’Emilia è molto favorevole alle ricerche alchimistiche: dal tempo del Cossa e Tura ai misteri di Dosso Dossi, per toccare il giovane Guercino. E a Parma troviamo addirittura dei riflessi in Correggio, a parte alcune riprese testuali del Bedoli e del Bertoja. Tuttavia un vero e proprio circolo alchemico parmense, se pure esisteva, non poteva certo essere in odore di santità come in altri momenti storici. Penso alla Ferrara del Quattrocento, quando l’alchimia domina congiuntamente all’astrologia; penso alla Firenze di Francesco I, il «principe dello studiolo»; penso all’alchimia di stato di Rodolfo II, «Ermes della Germania», a Praga”
Una prima ipotesi sull’origine degli interessi alchemici ci affonda quindi nella stessa cultura parmense che aveva una tradizione esoterica. Ancora il Dell’Arco afferma: ”Ricordo tre personaggi del ’400 studiati dal Thorndike: Biagio Pelacani cultore di scienze sperimentali, Basinio da Parma astrologo; e soprattutto Giorgio Anselmi che a metà del ‘400 scrive di magia e di astrologia e appare anche al corrente dei segreti alchemici”.
A sua volta Edoardi da Herba di Parma dedica un capitolo agli scienziati occulti, e ricorda un Massimiano Matteo di Garimberti, il grande Anselmi, e soprattutto il nonno Georgio dei Marchesi Pallavicini di Varano.
Un’altra ipotesi è quella che proprio dai suoi committenti il Parmigianino possa essere stato iniziato all’alchimia. Non è un segreto che il Sanvitale che commissionò al Mazzola Diana e Atteone, si occupasse di arte alchemica. Comunque sia arrivato a interessarsi di alchimia il Parmigianino la percepisce come una scienza sperimentale, così come era conosciuta da Marsilio Ficino e da Pico della Mirandola.
Nel ’500 ormai l’alchimia rappresenta un nuovo universo da esplorare a trecentosessanta gradi. Afferma Garin: ”Si intuisce che qui è la via nuova che aprirà all’uomo l’imperio sulla natura. E’ proprio questa volontà di connettersi con ciò che tutta la teologia medievale aveva combattuto, mostra ancora una volta, se pur ce ne fosse bisogno, la profondità della frattura rinascimentale”. Anche Lutero non aveva prevenzioni verso la “buona arte dell’alchimia”, sia per “la grande utilità nella lavorazione dei metalli”, ma anche “per i suoi significati allegorici e nascosti che sono bellissimi, significando la resurrezione dei morti nel Giorno del Giudizio”.
La dottrina alchemica non è solo un metodo chimico, ma anche un vero e proprio sistema filosofico. L’uomo ha a disposizione quest’arte per salvarsi da questo mondo infernale, per fuggire da questa realtà controllata dal principe delle tenebre. Il drago è il suo carceriere che apparentemente dorme, ma che è sempre pronto a scattare contro il malcapitato che si prepara alla fuga. L’iconografia pittorica infatti è ricca di draghi trapassati dalla lancia di San Giorgio su di un cavallo bianco. Il premio sarà la figlia del re: una dolce ed aggraziata fanciulla-bambina. E’ un percorso che ritorna all’origine, all’essenza primordiale, all’anima del mondo, allo spirito universale, alla libertà totale, ad un paradossale caos ordinato, dove non è ancora avvenuta nessuna corporificazione e decadimento, dove in potenza ogni forma e sostanza sono possibile. Qui il tempo si arresta essendo anch’esso frutto del decadimento. Infatti il “metodo alchemico” considera che il passato il presente e il futuro vengono a trovarsi sullo stesso piano. Non è un caso che la figura dell’ouroboros, il serpente che si mangia la coda, rappresenti il cosmo nelle sue trasformazioni.
Il processo è quello della trasformazione della nostra prima materia, ancora impura, in una materia sempre più vicina allo spirito universale, mediante una successione di cicli sempre uguali di morte e di rinascita. Il metodo consiste nell’unire l’acqua con il fuoco usando i diversi calori che la natura ci offre. L’incoronazione finale della Vergine è il risultato che il cavaliere armato di lancia e di corazza si propone.
La simbologia alchemica è un vero “labirinto”. L’opera del Parmigianino ne mostra alcuni esempi. “C’è una flora ermetica”, osserva il Dell’Arco. “ Il mondo alchemico è una foresta, la “selva philosophorum”, il “giardino chimico. Al centro è l’albero del bene e del male. Compiuti i sette gradini dell’iniziazione, l’alchimista può coglierne i frutti, cioè può raggiungere la conoscenza. C’è poi l’albero delle mele d’oro allusivo del giardino delle Esperidi (Ercole è identificato di solito con l’alchimista). Al centro c’è la fontana della giovinezza. C’è poi il seminatore (altra metafora dell’alchimista). Tra i fiori c’è la rosa, che è un traslato dell’opera.
C’è una fauna ermetica. Gli uccelli sono alati o senza ali, rappresentando il principio volatile e il fisso. Spesso combattono tra loro. Ci sono il leone, il cane, l’aquila che possono anche essere colorati per indicare le sfumature della materia. Ci sono l’agnello, il cervo, l’orso, il pellicano. C’è la fenice, il corvo (nigredo), il cigno (albedo). C’” il pavone (come l’arcobaleno , indica i diversi colori che assume la pietra durante l’opera). C’è la salamandra (il fuoco), i pesci (l’acqua), la colomba (l’aria), il montone (la terra). Ci sono la lumaca, il drago, l’unicorno. C’è infine il serpente: quello che ha suscitato la smania della conoscenza nell’Eden, quello di Mosè, e i due serpenti che si allacciano sul caduceo di Ermes.
C’è un olimpo ermetico. A ogni metallo corrisponde un simbolo e una divinità. Saturno è il piombo, Giove lo stagno, Venere il rame, Marte il ferro, Apollo l’oro, Diana l’argento.
Ercole è l’alchimista (per le sue fatiche mitiche). Dedalo e Icaro rappresentano la pericolosità dell’opera. Vulcano è il fuoco e spesso è identificato con l’alchimista. Ermafrodita è la pietra filosofale. Orfeo, che con le sue musiche risveglia i morti è il profeta, il protettore dei misteri e dell’iniziazione. La metafora preferita diventa quella di Saturno come “età dell’oro”, ma si parla anche di “Ercole nel giardino delle Esperidi” (le mele d’oro), di “Danae” conquistata da Giove in veste di pioggia aurea, della “conquista del vello d’oro da parte di Giasone”, di “Atalanta e Ippomene” (i pomi d’oro), del “Vaso di Pandora”.
C’è un sacrario ermetico. E i personaggi vengono scovati in Grecia, in Egitto, nel mondo ebraico, a Bisanzio, in Arabia, e poi nella sfera occidentale. Tra i primi alchimisti è reputato Democrito, e Diogene è il ricercatore per definizione. Essi spesso sono identificati con l’alchimista. Poi c’è san Giovanni che avrebbe trasmutato i ciottoli in riva al mare in oro e pietre preziose (è misterico poi il serpente che gli nasce nel calice). C’” Salomone: a lui sono attribuiti i primi trattati ermetici, e il suo sigillo è quello della compenetrazione dei triangoli a formare una stella, segno dei quattro elementi. C’è anche naturalmente Mosè il “grande iniziato”.
Chi si recasse a Fontanellato, piccola cittadella agricola vicino a Parma, potrebbe visitare la Rocca di Sanvitale nella quale, in una piccola stanza, è steso l’affresco commissionato nel 1523 dal Conte Galeazzo Sanvitale al Parmigianino. In questo spazio limitato, lungo le pareti ed il soffitto è raccontata la tragica vicenda mitologica di Atteone trasformato in cervo e poi divorato dai suoi stessi cani, per aver sorpreso casualmente Diana-Artemide al bagno (a sinistra particolare di Diana al bagno). E’ utile ricordare che Atteone era figlio di Aristeo il quale era figlio di Apollo, e che Chirone aveva addestrato Atteone alla caccia e alla guerra.
Si narra che questa piccola stanza – in origine non aveva la finestra – riservata alla sola famiglia, fu fatta affrescare per ricordare il figlio di Paola Gonzaga e Galeazzo Sanvitale, morto dopo pochi mesi che era stato dato alla luce. Altri credono che quella saletta fosse semplicemente adibita a bagno come indicherebbe lo specchio circolare incastonato al soffitto e il tema trattato dall’affresco. Ma c’è anche chi sostiene che quello fosse uno spazio sacro simile a quello dei santuari eleusini dedicato alla trasmissione nelle conoscenze più elevate.
Personalmente scelgo l’ultima di queste ipotesi, perché la prima non è sostenuta da alcun documento storico che comprovi la veridicità sulla morte di questo bambino, e la seconda è troppo esile per essere presa in considerazione: gli affreschi in quella stanza, che non aveva nessuno sfogo per l’umidità, infatti non avrebbero potuto conservarsi per quattrocento anni.
La leggenda che gli affreschi fossero ordinati per ricordare la morte del bimbo regale, potrebbe avere una motivazione squisitamente alchemica: qui come a Eleusi, probabilmente, si ricordava alla luce delle torce la “separazione tra la madre e il figlio”, e si prometteva l’immortalità agli esseri sofferenti. Troviamo infatti nell’affresco un bambino tra le braccia di una adolescente proprio sopra alla lunetta dove il cervo muore sbranato dai cani.
Alla base degli affreschi una scritta indirizzata a Diana afferma: “Di’, o Dea, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, perché lo dai in pasto ai cani? Solo per una colpa è lecito che i mortali subiscano pene: una simile ira non si addice alle dee”. Questo rimprovero fatto alla dea non vuole forse attirare l’attenzione sulla superbia e sull’orgoglio degli uomini che non essendo stati ancora toccati dalla luce della verità pretendono di giudicare ciò che non conoscono?
Il ciclo di figure inizia con la rappresentazione di Paola Gonzaga che con la mano sinistra tiene tra l’indice e il pollice due spighe di grano, mentre la destra con l’indice teso, indica un vaso greco a due anse contenente vino. Lo sguardo è rivolto verso il visitatore mentre le labbra accennano un sorriso malizioso, forse per indicare l’insegnamento che in silenzio si dona a chi ha occhi attenti e la mente allenata dallo studio dei classici ermetici. La figura ci ricorda Demetra e Dionisio i culti dei quali sono molto simili.
Il racconto continua. Due cacciatori inseguono una ninfa. Quello in primo piano è Atteone che sta per afferrare con la sinistra la fuggitiva, mentre nella destra tiene stretto un arco nella sua parte superiore. Sulle spalle ha un manto verde e attorno alla vita uno violetto. Il cacciatore in secondo piano, che ha un manto rosa sulle spalle, guarda i due levrieri bianchi legati con una cordicella alla sua mano destra. I collari dei levrieri sono uno rosso e l’altro azzurro. Anche la ninfa, che ha un manto rosso sulle spalle, una veste bianca ed una cintura in tessuto verde, alla quale è legato un corno, guarda i suoi inseguitori: tiene con il polso sinistro, una cordicella dorata alla quale è legato un levriero bianco, a un passo avanti a lei, che ha un collare sul quale spicca una conchiglia.
Abbiamo qui alcune indicazioni operative utili. I cani sono tre, due da una parte e uno dall’altra e ci indicano i rapporti necessari nella preparazione della prima materia. Anche i collari ci forniscono una preziosa informazione, utile alla preparazione delle materie che dovranno unirsi.
I levrieri sono fermi tranquilli, hanno le orecchie abbassate sembra che non partecipino alla dinamica centrale dell’inseguimento. A loro il pittore ha dedicato la prima e la quarta lunetta, uno spazio decisamente maggiore rispetto a quello dedicato ai tre personaggi che vengono dipinti nelle due lunette centrali. È evidente il desiderio del Mazzola di attirare l’attenzione del visitatore con quella apparente contraddizione di calma contrapposta alla dinamica centrale. Staticità e calma ci indicano come il metodo sia unico. I cani, che rappresentano simbolicamente l’eterna fedeltà, qui ci suggeriscono che il metodo non solo è uno ma non perfezionabile nel tempo. La dinamica centrale dell’inseguimento ci indica come le due materie, che in questo caso sono all’inizio dell’opera, siano suscettibili di continue future trasformazioni, e che, essendo di natura contraria, maschile e femminile, quando vengono strettamente in contatto, sviluppano una elevata “agitazione”, tipica delle tempeste di cui parlano gli antichi filosofi.
Passiamo alla parete successiva, dove il racconto si sviluppa all’interno di tre lunette. Vediamo Diana nuda al centro, immersa nell’acqua sino alle cosce, mentre osserva Atteone che inizia a trasformarsi. È evidente dalle palme rivolte verso l’alto che Diana ha spruzzato Atteone con l’acqua in cui è immersa. Alle spalle di Diana due ninfe fanno il bagno
Atteone non ha più la barba né le braccia e le spalle virili. Ora, con la testa di cervo, e l’arco nella destra ha le braccia e le mani chiare e delicate, le vesti bianche, il mantello rosso, e un nastro verde, che sostiene un corno, ai fianchi. Atteone è divenuto la ninfa che inseguiva: l’amante si è trasformato nell’amata.
La prima materia ha iniziato a trasformarsi grazie all’intervento di Diana, che l’ha spruzzata con l’acqua nella quale è essa stessa immersa. Ma questa metamorfosi è appena all’inizio. Anche qui il pittore e l’ideatore dell’affresco hanno voluto aiutarci indicandoci il percorso che la materia deve ancora compiere. Infatti alle spalle di Diana le due ninfe ci indicano che l’operazione precedente, quella con l’acqua lunare, deve essere ripetuta ancora due volte.
Presto Atteone si trasformerà completamente in cervo. Quando la putrefazione si sarà realizzata la materia sarà pronta per l’ultima trasformazione.
Il racconto mitologico sta per giungere al termine. Nelle successive quattro lunette, ciò che gli uomini considerano profondamente ingiusto sta per accadere: Atteone morirà sbranato dai suoi stessi cani per una colpa casuale, non volontaria.
Lo sdegno appartiene senza dubbio a coloro che non hanno alcuna conoscenza ermetica, mentre l’iniziato approverà quella morte, che considera gloriosa e necessaria per il completamento della Grande Opera. Gli antichi filosofi hanno rappresentato questa delicata operazione con il serpente che divora se stesso.
Al centro della parete un suonatore di corno osserva il cervo sbranato da tre levrieri bianchi: quello in primo piano ha il collare ornato da una doppia conchiglia. Nella quarta lunetta guardando a destra un vecchio con una fluente barba e con il capo coperto dal berretto frigio parla ad un giovane che è al suo fianco.
La prima scena appare drammatica, ma sembra che non sia vissuta così dai soggetti in questione. Il cervo è calmo e sereno: accetta questa fine cruenta. I tre levrieri hanno iniziato la loro azione senza acrimonia né ferocia. Se poi osserviamo con attenzione i quattro animali, con sorpresa scopriamo che il cervo Atteone e i cani hanno gli stessi occhi malinconici e fedeli. Non solo, il suonatore di corno, che osserva la scena, non è per nulla spaventato e accompagna con la musica gli ultimi istanti di vita del cervo. Questa non è una rappresentazione di morte, ma al contrario di vita.
L’immagine dell’ultima lunetta, la quattordicesima, non ha bisogno di commenti. È risaputo che il berretto frigio è il simbolo dell’adeptato cioè di coloro che sono giunti al termine della Grande Opera. Il giovane con il viso attento ma un po’ perplesso sta osservando l’anziano Filosofo che gli sta trasmettendo, da bocca a orecchio, come è nella tradizione, l’insegnamento più prezioso della scienza ermetica: la parola perduta.
Ora se spostiamo lo sguardo un poco più in alto, al centro della parete, tra le due lunette, vediamo un neonato tra le braccia di una adolescente. Il bimbo –quello a cui sarebbe stato dedicato il tempio– è il risultato di ciò che è accaduto poco più sotto. Lo sguardo intenso della graziosa adolescente, che sostiene il neonato, e il sorriso accennato sulle sue labbra, rivolti al visitatore, vogliono rassicurarci che tutto è giusto, tutto è perfetto, che dalle tenebre è sorta la luce.
Volgiamo ora lo sguardo verso l’alto. All’apice di ogni lunetta in cui sono stati dipinti i personaggi del racconto, alcune finestre circolari lasciano intravedere parti di cielo: in totale sono quattordici il doppio di sette. Inseriti tra le lunette, putti esili e delicati giocano: tra le mani hanno melograni, foglie di palma e uva. Più in alto, tutto attorno, un pergolato di pampini termina all’apice con una siepe aerea di forma ottagonale ricca di rose bianche, e al centro delle quali, nel soffitto è stato incastonato uno specchio.
Il visitatore è sorpreso da questo particolare gazebo, che mostra un netto contrasto tra gli affreschi della fascia alta che sono dedicati alla letizia e quelli della fascia bassa dove si svolge il sacrificio di Atteone. Qui il cielo e la terra sono messi a confronto. In breve, la terra, il mondo in cui viviamo, è caratterizzata dalla separazione cioè la condanna subita dall’uomo per una colpa inconsapevole e il cielo è la terra promessa.
Il Mazzola e il Sanvitale ci donano qui un altro insegnamento operativo di enorme valore. Collocando lo specchio al centro del soffitto ci vogliono indicare lo strumento ed il metodo operativo, che permetterà all’uomo di raggiungere la Gerusalemme Celeste.
Lo specchio rappresenta la luna, la natura femminile, che si manifesta riflettendo i raggi del sole sul nostro mondo sublunare. Ne consegue che la terra, resa fertile da questa benefica “pioggia”, farà tornare in vita il seme, che mediante putrefazione, in seguito si svilupperà e fruttificherà. Senza la luna questo processo sarebbe impossibile. Essa infatti ci permette di entrare nel giardino chiuso del re, prima ammansendo il drago che lo sorveglia e poi ad uscirne con i frutti maturi, raccolti sui rami degli alberi.
Ma non è ancora finito l’insegnamento che i due iniziati si sono proposti di darci. Lo specchio, visto nella sua funzione, riflette la realtà concreta della nostra quotidianità, e per questo non cessa di essere specchio riflettente, cioè non muta la sua natura, la sua funzione. Esso rimarrà sempre specchio e continuerà a riflettere ogni cosa senza che la sua natura ne sia minimamente alterata.
Lascio ora il lettore alle riflessioni personali, così come avveniva nel passato, quando l’iniziando varcava la porta di quel tempio segreto al lume di candela e quando ne usciva, portando prigioniere nella sua mente le immagini dipinte sulle pareti e il riflesso della debole luce proveniente dall’alto. Ormai, iniziato alle conoscenze superiori, egli si allontanava in silenzio dal cuore della Rocca di Sanvitale, consapevole che era nato a nuova vita.