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La
tolleranza è in generale la virtù di tutti gli esseri deboli destinati a
vivere insieme ai loro simili. L’uomo, così grande per intelligenza, è
tuttavia così limitato da errori e passioni, che non si farà mai abbastanza
per ispirargli riguardo agli altri la tolleranza e la sopportazione di cui
ha tanto bisogno per se stesso e senza le quali sulla Terra non vi
sarebbero che liti e disordini. E’ proprio per avere proscritto le dolci e
concilianti virtù della tolleranza e della sopportazione che tanti secoli
sono stati l’obbrobrio e la sventura dell’umanità. E non c’è da sperare che
senza queste virtù possiamo mai riuscire a ristabilire fra noi la pace e la
prosperità.
Sono
molte senza dubbio le sorgenti delle nostre discordie: in ciò siamo fin
troppo fecondi. Ma giacché è soprattutto in materia di credenze e di
religione che i pregiudizi distruttivi trionfano con il massimo d’influenza
e di buoni motivi apparenti, quest’articolo si impegnerà a combattere
proprio queste fonti di discordia. Innanzi tutto fonderemo sui princìpi più
evidenti la giustizia e la necessità della tolleranza; su questa base
tracceremo i doveri dei principi e dei sovrani. Che triste compito dover
dimostrare agli uomini verità così chiare e così importanti e che gli
uomini possono misconoscere solo avendo rinnegato la loro natura! Ma se
ancora oggi v’è chi chiude gli occhi all’evidenza e il cuore all’umanità,
dovremo noi forse in quest’opera osservare un vile e colpevole silenzio?
No; qualunque sia l’esito, osiamo almeno reclamare i diritti della
giustizia e dell’umanità, e tentiamo ancora una volta di strappare al
fanatico il pugnale e la benda al superstizioso.
Entro
in argomento con una riflessione molto semplice e tuttavia molto favorevole
alla tolleranza: la ragione umana non ha una misura precisa e determinata;
ciò che è evidente per l’uno è sovente oscuro per l’altro; sappiamo bene
infatti che l’evidenza è una qualità relativa, che può dipendere dalla luce
sotto la quale vediamo gli oggetti, o dal rapporto fra gli oggetti e i
nostri organi sensoriali, o da un’altra causa qualunque; di modo che un
certo grado di luce sufficiente a convincere l’uno è insufficiente per un
altro di spirito meno pronto o diversamente disposto; dal che segue che
nessuno ha il diritto di imporre per regola la sua ragione né di pretendere
di assoggettare gli altri alle sue opinioni. Volere che io creda secondo il
vostro giudizio sarebbe proprio come esigere che io guardassi con i vostri
occhi. E’ dunque chiaro che ciascuno di noi ha la sua maniera di vedere e
di pensare, che dipende ben poco da lui. L’educazione, i pregiudizi, gli
oggetti che ci circondano, e mille cause segrete, influiscono sui nostri
giudizi e li modificano all’infinito. Il mondo morale è ancora più variato
del mondo fisico: gli spiriti rassomigliano ancor meno dei corpi. E’ vero
che abbiamo dei princìpi comuni sui quali andiamo abbastanza d’accordo; ma
tali princìpi primi sono pochissimi, e le conseguenze che ne derivano
diventano sempre meno chiare a mano a mano che se ne allontanano, come le
acque che si intorbidano allontanandosi dalla sorgente. Allora le credenze
divergono e diventano tanto più arbitrarie quanto più ciascuno ci mette del
suo e giunge a conclusioni più particolari. La divergenza dapprima non è
molto sensibile; ma ben presto, più si va avanti e più ci si smarrisce e
divide: mille strade conducono all’errore, una sola alla verità, e
fortunato chi sa riconoscerla! Ciascuno si illude sulla certezza della sua
posizione, senza riuscire a persuaderne gli altri. Ma se in questo
conflitto di opinioni è impossibile comporre le divergenze e accordarci su
tanti punti delicati, se insomma le nostre credenze ci dividono e non
possiamo essere unanimi, sforziamoci almeno di avvicinarci e di incontrarci
sui principi universali della tolleranza e dell’umanità. Che cosa c’è di più
naturale che sopportarci a vicenda, e dire a noi stessi con verità e
giustizia: «Perché chi sbaglia deve cessare di essermi caro?
L’errore
non è forse sempre stato il triste appannaggio dell’umanità? Quante volte
anch’io ho creduto di vedere il vero dove poi ho riconosciuto il falso?
Quanti ho condannato per poi adottarne le idee? Ah, non c’è dubbio che ho
acquisito fin troppo il diritto di diffidare di me stesso, e mi guarderò
bene dall’odiare mio fratello perché non la pensa come me!».
Chi
dunque può constatare senza dolore e indignazione che il motivo stesso che
dovrebbe muoverci all’indulgenza e all’umanità, l’insufficienza dei nostri
lumi e la diversità delle nostre opinioni, è invece proprio quello che ci
divide con più furore?
Diventiamo
accusatori e giudici dei nostri simili: li citiamo con arroganza al nostro
tribunale personale ed esercitiamo sulle loro credenze l’inquisizione più
odiosa; e come se fossimo infallibili l’errore non trova grazia ai nostri
occhi. Tuttavia, che cosa c’è di più perdonabile dell’errore, quando è
involontario e ci si presenta sotto le apparenze della verità? Quando rendiamo
omaggio all’errore, non intendiamo forse onorare la verità?
Un
principe non è forse onorato da tutti gli onori che rivolgiamo a qualcuno
che abbiamo scambiato per lui? Il nostro equivoco può diminuire forse ai
suoi occhi il nostro merito, quando vede in noi il medesimo fine e la
medesima dirittura di quelli che meglio informati si rivolgono giustamente
alla sua persona?
Contro
l’intolleranza non vedo ragionamento più forte del seguente: non si adotta
l’errore in quanto errore. Talora accade che si perseveri nell’errore
volontariamente per motivi di interesse, e allora l’errore è colpevole. Ma
non capisco che cosa si possa rimproverare a chi sbaglia in buona fede, a
chi prende il falso per il vero senza cattiva intenzione né negligenza, a
chi si lascia abbagliare da un sofisma e non avverte la forza del
ragionamento che lo combatte. Chi è d’intelligenza limitata, chi manca di
discernimento o di acume, non è per questo colpevole: gli errori ci possono
essere imputati solo quando oltre alla mente vi partecipa la volontà; ciò
che fa l’essenza del crimine è l’intenzione diretta di agire contro i
propri stessi lumi, di fare quello che si sa che è male, di cedere a
passioni ingiuste, di contravvenire alle leggi dell’ordine che ben
conosciamo. Insomma, tutta la moralità delle nostre azioni risiede nella
coscienza, nel motivo che ci fa agire.
Ma,
direte voi, vi sono verità di tale evidenza che ad esse non ci si può
sottrarre senza chiudere volontariamente gli occhi, senza rendersi
colpevoli di testardaggine o di mala fede! Ma chi siete voi per
pronunciarvi al riguardo e per condannare i vostri fratelli? Penetrate sino
al fondo della loro anima? I suoi recessi sono dunque aperti ai vostri
occhi? Dividete forse con l’Eterno l’attributo incomunicabile di scrutatori
della coscienza? In realtà non vi è problema che esiga più attenzione,
prudenza e moderazione di quello che voi invece pretendete di risolvere con
tanta confidente leggerezza! Credete dunque proprio che sia così facile
segnare con precisione i confini della verità; distinguere giustamente il
punto spesso invisibile in cui essa finisce e in cui comincia l’errore;
stabilire ciò che ogni uomo deve riconoscere e ciò che non può rifiutare
senza peccare?
Ma
chi, ripeto, può penetrare la natura intima delle coscienze e tutte le
modificazioni di cui sono suscettibili? Vediamo bene tutti i giorni che non
c’è verità così chiara che non patisca contraddizioni; che non c’è sistema
che non vada incontro ad obiezioni spesso così forti quanto le ragioni su
cui si fonda. Ciò che è semplice ed evidente per l’uno appare falso e
incomprensibile all’altro. E ciò non deriva soltanto dalla diversità della
capacità intellettuale, ma anche dalle differenze stesse di carattere:
perché anche fra i più grandi genii si osserva varietà di opinioni, e anzi
una varietà maggiore che fra gli uomini comuni.
Ma
senza fermarci a queste generalità, entriamo un po’ nei particolari. E dato
che talvolta la verità si stabilisce meglio partendo dal suo contrario
invece di procedere per via diretta, se noi riusciremo a dimostrare con
poche parole l’inutilità, l’ingiustizia e le funeste conseguenze
dell’intolleranza, avremo dimostrato la giustizia e la necessità della virtù
opposta.
Di
tutti i mezzi che si usano per arrivare ad uno scopo, la violenza è sicuramente
il più inutile e il meno adatto per ottenere ciò che ci si propone.
Infatti, per raggiungere un qualsiasi fine, bisogna innanzi tutto
accertarsi della natura e convenienza dei mezzi prescelti: è perfettamente
evidente che ogni causa deve avere in sé un rapporto necessario con
l’effetto che da essa ci si attende, di modo che si possa vedere l’effetto
nella causa e il successo nei mezzi. Così, per agire su dei corpi, per
muoverli e dirigerli, si impiegheranno forze fisiche; ma per agire su delle
coscienze, per piegarle o determinarle, ci vorranno forze di altro genere:
per esempio, ragionamenti, prove, motivazioni. Non è certo con dei
sillogismi che tenterete di abbattere un bastione o di fare crollare una
fortezza; e non è certo con il ferro e con il fuoco che riuscirete a
distruggere errori o a raddrizzare false credenze.
Chiediamoci
ora: qual è lo scopo dei persecutori? Quello di convertire coloro che
tormentano, cioè di mutare le loro idee e credenze per ispirarne altre
opposte: insomma, di dare loro un’altra coscienza e un’altra mentalità. Ma
che rapporto c’è tra le torture e le credenze? Forse ciò che ora mi appare
chiaro ed evidente mi sembrerà falso tra i tormenti? Una proposizione che
considero assurda e contraddittoria mi diverrà forse chiara sul patibolo? E
dunque, ripeto, è forse con il ferro e con il fuoco che la verità emerge e
si comunica? Prove e ragionamenti possono convincermi e persuadermi:
mostratemi la falsità delle mie opinioni e vi rinuncerò spontaneamente e
senza sforzo; mentre i vostri tormenti non otterranno mai ciò che le vostre
ragioni non hanno potuto ottenere.
Per
rendere la nostra argomentazione più evidente, ci permetteremo ora di dare
la parola a uno sventurato che, prossimo a morire per la fede, parli così
ai suoi persecutori: «Fratelli miei, che cosa volete da me? Come posso
soddisfarvi? E’ forse in mio potere rinunciare alle mie credenze per
assumere le vostre? E’ forse in mio potere trasformare e rifondere
l’intelletto che Dio mi ha dato, vedere attraverso altri occhi, diventare
insomma un’altra persona?
Quand’anche
la mia bocca esprimesse l’abiura che voi desiderate, dipenderà forse da me
che l’animo mio si accordi con la mia bocca? E che valore potrà mai avere
questo forzato spergiuro ai vostri stessi occhi? E voi, voi che mi
perseguitate, potreste mai risolvervi a rinnegare il vostro credo? Non
riporreste forse la vostra gloria in questa stessa costanza che vi irrita e
vi arma contro di me? Perché volete dunque costringermi, con barbara
incoerenza, a mentire contro me stesso e a rendermi colpevole di una viltà
che vi farebbe orrore? Per quale strano accecamento per me solo rovesciate
tutte le leggi divine ed umane?
Torturate
gli altri colpevoli per strappare loro la verità, e torturate me per
strapparmi delle menzogne. Volete che vi dica ciò che non sono, e non
volete che vi dica ciò che sono. Se il dolore mi obbligasse a rinnegare le
credenze che professo, approvereste la mia abiura, ancorché vi debba
apparire ben sospetta. Insomma. punireste la mia sincerità e ricomprereste
il mio tradimento. Mi giudicate indegno di voi finché sono in buona fede, e
vi apprestate a graziarmi appena cessi di esserlo? Discepoli di un Maestro
che predicò unicamente la verità, credete forse di aumentarne la gloria
offrendogli l’adorazione degli ipocriti e degli spergiuri? Se io abbraccio
e difendo la menzogna, essa ha per me tutte le apparenze della verità: Dio
che conosce il mio cuore vede bene che esso non è complice degli sviamenti
della mia intelligenza e che nelle mie intenzioni onoro la verità, ancorché
di fatto possa ancora combatterla. E quale altro interesse, quale altro
motivo potrebbe animarmi? Se mi espongo a patire tutto, a perdere tutto
quanto ho di più caro, non è certo per seguire credenze che riconosco
errate: sarei un pazzo furioso, più degno della vostra pietà che del vostro
odio. Se mi espongo a patire tutto, se sfido torture e morte, è dunque per
salvare ciò che mi è più prezioso della stessa vita: i diritti della mia
coscienza e della mia libertà. E che vedete allora voi nella mia
perseveranza che meriti la vostra indignazione?
Voi
dite che le mie credenze sono le più perniciose e condannabili. Ma non
avete altro che il ferro e il fuoco per convincermi e farmi ricredere? Che
strani mezzi di persuasione i roghi e i patiboli! In questo modo
misconoscete la forza stessa della verità, giacché essa non esercita così
il suo imperio ma ha armi più vittoriose. Le armi che voi impugnate provano
solo la vostra impotenza. Se è vero che la mia sorte vi commuove, che
deplorate i miei errori, perché precipitare la mia rovina, che forse avrei
potuto prevenire? Perché privarmi di un lasso di tempo che Dio mi concede
per illuminarmi? Pretendete di fargli cosa grata usurpandone i diritti con
il prevenire la sua giustizia? Pensate di onorare un Dio di pace e di carità
offrendogli i vostri fratelli in olocausto ed elevandogli trofei fatti con
i loro cadaveri?». Tale sarebbe la sostanza delle parole che il dolore e il
sentimento strapperebbero allo sventurato, se le fiamme che lo circondano
gli permettessero di concluderle.
Comunque,
più si approfondiscono i metodi degli intolleranti, e più se ne avverte la
debolezza e l’ingiustizia. Avrebbero almeno qualche pretesto se al Creatore
potessero piacere omaggi forzati e contemporaneamente sconfessati
dall’intimo dell’animo. Ma è solo la sincerità dell’intenzione che dà
valore al sacrificio, e se il Creatore chiede soprattutto il culto
interiore, con quale occhio l’Essere infinito guarderà i temerari che osano
attentare ai suoi diritti e profanare la sua opera più bella opprimendo
anime delle quali è geloso? Nessun re sulla Terra si degnerebbe di
accettare dell’incenso offerto dalla sola mano, e non ci si vergogna di
esigere per Dio un tale indegno incenso?
Perché
questi sono i successi così vantati dai persecutori: fare degli ipocriti o
dei martiri, dei vili o degli eroi; lo spirito debole e pusillanime che si
sgomenta innanzi alle torture abiura fremendo la propria fede e detesta
l’autore della sua colpa, mentre l’anima generosa che sa contemplare con
occhio asciutto la tortura che le si prepara resta ferma e inalterabile,
guarda con pietà i persecutori, e vola al trapasso come a un trionfo.
L’esperienza è fin troppo eloquente: quando il fanatismo ha fatto scorrere
fiumi di sangue sulla Terra, non si sono forse visti innumerevoli martiri
indignati e impavidi contro ogni ostacolo? E riguardo alle conversazioni
forzate, non le vediamo forse rientrare non appena il pericolo è cessato?
Non
è forse vero che l’effetto finisce con la causa, e che chi ha ceduto per un
momento corre appena può dai suoi, per piangere con loro la sua debolezza e
riprendere con entusiasmo la propria libertà naturale? No, non conosco
bestemmia più orribile di quella di dirsi autorizzati da Dio a seguire i
princìpi della persecuzione.
E’
dunque vero che la violenza è molto più adatta a rafforzare nella propria
religione i perseguitati anziché a convertirli o a risvegliare, come si
dice, la loro coscienza assopita.
Diceva
giustamente un politico: «Non si può certo distogliere un’anima da una
religione rendendola colma di quella stessa religione avvicinandola al
momento in cui la fede acquista la massima importanza.
Le
leggi penali in fatto di religione incutono paura, è vero; ma anche la
religione ha le sue leggi penali che incutono anch’esse paura; e allora le
anime vengono prese in mezzo da questo atroce contrasto di differenti
paure. Voi dite di non voler assolutamente indurre un uomo a tradire la sua
coscienza, ma soltanto a scuotersi di dosso i pregiudizi e a distinguere la
verità dall’errore che professa aiutandolo con la paura e la speranza.
Ma
chi mai potrebbe, vi domando, in quei momenti critici, dedicarsi alla
meditazione e all’esame che proponete? Per tale esame sono appena
sufficienti la condizione di massima serenità, l’attenzione più intensa e
la libertà più piena; e voi volete che un’anima che si dibatte nell’orrore
della morte, continuamente ossessionata dalle immagini più spaventose, sia
più capace di riconoscere e penetrare la verità misconosciuta in tempi più
tranquilli? Che assurdità! Che contraddizione!».
No,
no. Effetto della violenza sarà sempre, lo ripetiamo, quello di rafforzare
i perseguitati nei loro sentimenti. Le credenze dei loro nemici, per la
stessa maniera crudele in cui si presentano, incontreranno la più ostile
resistenza: la religione e le persone dei persecutori verranno sempre
accomunate in un unico sentimento di orrore. Devono prendersela solo con se
stessi dunque coloro che, possedendo la verità, la tradiscono indegnamente,
la confondono con l’impostura dandole le sue armi e le sue bandiere,
favoriscono i pregiudizi e il misconoscimento in chi l’avrebbe forse potuta
abbracciare.
No,
checché se ne dica, la verità ha bisogno solo di se stessa per affermarsi e
conquistare le intelligenze e i cuori. La verità brilla di luce propria, e
deve combattere con le sue sole armi: dal suo stesso seno trae la sua
forza, non vuole soccorsi estranei che oscurerebbero o diminuirebbero la
sua gloria. L’imperio della verità sta nella sua eccellenza: rapisce,
trascina e soggioga per la sua bellezza. La verità vince mostrandosi quale
essa è. L’errore invece è in se debole e impotente, incapace di progressi
senza violenza e costrizione. Perciò fugge con cura ogni esame o
chiarimento che potrebbe solo nuocere alla sua causa.
L’errore
ama portare i suoi colpi e diffondere i suoi dogmi impuri in mezzo alle
tenebre della superstizione e dell’ignoranza: allora disprezzando i diritti
della coscienza e della ragione esercita impunemente il dispotismo
dell’intolleranza e governa i suoi sudditi con scettro di ferro; se il
saggio osa levare la sua voce, la paura subito lo mette a tacere; e guai
all’audace che proclama la verità in mezzo ai nemici della verità! Cessate
dunque, cessate persecutori di diffondere la verità con le armi, di togliere
al cristianesimo la gloria dei suoi fondatori, di calunniare il Vangelo e
di confondere il figlio di Maria con il figlio di Ismaele. Con quale
diritto potete infatti richiamarvi al Cristo, e ai mezzi di cui si è
servito per instaurare la sua dottrina, se seguite le orme di Maometto? I
vostri stessi princìpi non sanciscono forse la vostra condanna?
Gesù,
vostro modello, non ha mai usato altro che dolcezza e persuasione; Maometto
ha sedotto gli uni e costretto gli altri al silenzio; Gesù ha fatto appello
alle proprie opere, Maometto alla spada; Gesù dice: «Guardate e credete»;
Maometto: «Muori o credi».
Di
quale dei due vi dimostrate discepoli? Sì, non lo dirò mai abbastanza, la
verità differisce dall’errore tanto nei suoi mezzi quanto nella sua
essenza. Dolcezza, persuasione, libertà: ecco i suoi divini caratteri, che
appena si offrono ai miei occhi trascinano il mio cuore verso di lei. Ma là
dove regnano la violenza e la tirannide non è più lei che vedo ma il suo
fantasma.
Credete
davvero che nella tolleranza universale che vorremmo stabilire favoriremmo
più i progressi dell’errore che quelli della verità? Se tutti gli uomini
adottassero i nostri princìpi e si accordassero mutuo aiuto; se tutti gli
uomini si liberassero dei loro pregiudizi più cari e considerassero la
verità come un bene comune, di cui sarebbe ingiusto sia privare gli altri
sia credersi depositari esclusivi; se tutti gli uomini rinunciassero alla
certezza delle loro convinzioni e si spingessero sino ai confini della
Terra per comunicarsi in pace le loro credenze e opinioni, per pesarle
senza parzialità sulla bilancia del dubbio e della ragione – non credete
invece che nel silenzio unanime delle passioni e dei pregiudizi si vedrebbe
la verità riprendere i suoi diritti, estendere a poco a poco il suo
dominio, e si vedrebbero le tenebre dell’errore fuggire e svanire davanti a
lei, come ombre lievi all’avvicinarsi della fiaccola del giorno?
Tuttavia,
non pretendo che l’errore non farebbe allora nessun progresso, né che
l’infedele abbandonerebbe facilmente menzogne rese rispettabili dalla forza
dei pregiudizi e della tradizione. Sostengo soltanto che i progressi della
verità sarebbero ben più rapidi, perché con il suo ascendente naturale essa
avrebbe meno ostacoli da superare per penetrare negli animi.
Ma,
checché se ne dica, nulla è più contrario alla verità dei metodi
dell’intolleranza, che tormenta e degrada l’uomo asservendo le sue opinioni
al suolo che lo nutre, comprimendo in una cerchia ristretta di pregiudizi
la sua intelligenza attiva, vietandogli il dubbio e il libero esame come se
fossero delitti, subissandolo di anatemi se per un istante solo osa
ragionare e pensare in modo diverso. Non c’è mezzo più sicuro per
eternizzare gli errori e imprigionare la verità.
Ma
senza insistere oltre sui metodi degli intolleranti, gettiamo un rapido
sguardo sulle conseguenze che ne derivano, e giudichiamo la causa dei suoi
effetti. Qual è il male maggiore che si può arrecare agli uomini?
Confondere tutti i princìpi che li governano; rovesciare le barriere che
separano il giusto dall’ingiusto, il vizio dalla virtù; troncare tutti i
nodi della società; armare il principe contro i sudditi e i sudditi contro
il principe; spingere i padri gli sposi, gli amici, i fratelli gli uni
contro gli altri; accendere al fuoco degli altari la fiamma delle furie;
insomma, rendere l’uomo odioso e crudele all’uomo, spegnere nei cuori ogni
sentimento di giustizia e di umanità. Ma sono proprio questi i risultati
inevitabili dei princìpi che noi combattiamo.
I
crimini più atroci, spergiuri, calunnie, tradimenti, parricidi, tutto è
giustificato e santificato dalla causa: l’interesse della Chiesa, la
necessità di estendere il suo regno e di proscrivere ad ogni costo coloro
che le resistono, tutto autorizza e anzi consacra. Strana inversione di
idee, abuso incomprensibile di quanto vi è di più augusto e di più santo!
La religione, data agli uomini per unirli e renderli migliori, diventa il
pretesto stesso delle loro più atroci follie.
Tutti
i delitti commessi sotto il manto della religione sono ormai legittimi; il
colmo della scelleratezza diventa il colmo della virtù; si esaltano come
eroi individui che i giudici terreni condannerebbero alla pena capitale; si
rinnova per il Dio dei cristiani il culto abominevole di Saturno e di Maloch;
il fanatismo e la più impudente temerarietà trionfano e la Terra vede con
orrore che si deificano i mostri.
No
ci si accusi di intingere la penna nel fiele. Di fronte a un simile
rimprovero abbiamo fin troppe giustificazioni: abbiamo in mano prove che ci
fanno fremere.
Ma
non vogliamo approfittarne: è meglio lasciare nell’oblio questi tristi
segni della nostra vergogna e dei nostri delitti, e risparmiarci un quadro
troppo umiliante per l’umanità. E’ certo comunque che l’intolleranza
costituisce una fonte inesauribile di mali: perché ciascun partito si
arrogherà i medesimi diritti, ogni setta farà uso della violenza e della
costrizione, chi resta oppresso in un luogo diventerà oppressore in un
altro, i vincitori avranno sempre ragione, i vinti saranno i soli eretici e
non potranno lamentare che la propria debolezza; per fare trionfare le
proprie credenze e confondere gli avversari basterà un potente esercito; le
sorti delle verità seguiranno le sorti delle battaglie e gli uomini più
feroci saranno stimati i migliori fedeli; ovunque si vedranno soltanto
roghi, supplizi, esecuzioni capitali e proscrizioni. Calvinisti, cattolici,
luterani, ebrei e ortodossi, tutti si dilanieranno come bestie feroci; i
luoghi in cui regna il Vangelo saranno segnati dalla carneficina e dalla
desolazione; saremo preda degli inquisitori; la croce di Gesù diventerà la
bandiera del crimine e i suoi discepoli si inebrieranno del sangue dei loro
fratelli.
La
penna ci cade di mano di fronte a questi orrori, i quali tuttavia
scaturiscono direttamente dall’intolleranza; perché non credo che mi si
vorrà opporre l’obiezione, così spesso già condannata, che la vera Chiesa
sia la sola in diritto di impiegare la violenza e la costrizione, mentre
gli eretici non potrebbero agire senza commettere crimine per l’errore così
come essa agisce per la verità.
Un
sofisma così puerile reca in sé la sua confutazione: chi non vede infatti
che è assurdo persino porre la questione, e pretendere che quelli che noi
chiamiamo eretici si riconoscano tali e si lascino tranquillamente sgozzare
senza difendersi?
Concludiamo
che l’intolleranza universalmente instaurata armerebbe tutti gli uomini gli
uni contro gli altri e farebbe nascere infinite guerre ideologiche.
Infatti, anche supponendo che gli infedeli non si facessero persecutori per
difendere i loro princìpi religiosi, prenderebbero tuttavia le armi per
motivi politici e di interesse. Se i cristiani non riuscissero a sopportare
coloro che non adottano le loro idee, giustamente tutti i popoli farebbero
lega contro di loro e cospirerebbero alla rovina di questi nemici del
genere umano che sotto il manto della religione non ritenessero illegittimo
nessun mezzo per torturarlo e asservirlo.
In
verità, mi domando, che cosa avremmo da rimproverare a un principe dell’Asia
o del Nuovo Mondo che facesse impiccare il primo missionario che gli
inviassimo per convertirlo?
Il
dovere più essenziale di un sovrano non sta forse nel garantire la pace e
la tranquillità nei suoi Stati, e nel proscriverne con cura quegli uomini
pericolosi, che dapprima nascondono la loro debolezza con ipocrita mitezza
e poi, appena ne hanno la possibilità, non cercano altro che diffondere
dogmi barbarici e sediziosi? Che i cristiani dunque se la prendano con se
stessi, se gli altri popoli informati delle loro massime non li possono
soffrire, se gli altri popoli vedono in loro meri assassini dell’America e
perturbatori delle Indie, se infine la loro santa religione destinata ad
estendersi e a fruttificare sulla Terra a ragione ne è bandita per i loro eccessi
e per i loro furori.
Del
resto ci pare inutile opporre qui agli intolleranti i princìpi del Vangelo,
che non fa che estendere e sviluppare i princìpi dell’equità naturale,
rammentare la lezione e l’esempio del loro augusto maestro che mostrò
sempre solo dolcezza e carità, e riproporre loro la condotta di quei primi
cristiani che benedicevano e pregavano per i loro persecutori.
Non
produrremo qui gli argomenti di cui gli antichi Padri della Chiesa si
servivano con tanta forza contro i Nerone e i Diocleziano, ma che dopo
Costantino il Grande sono diventati ridicoli e così facili a ritorcersi. Si
capisce bene che in un articolo possiamo appena sfiorare una materia così
vasta. E dunque, dopo avere richiamato i princìpi che ci sono parsi i più
generali e i più luminosi, per assolvere il nostro compito ci resta ora da
tracciare i doveri dei sovrani relativamente alle sette che dividono la
società.
Incedo per ignes
In
una questione così delicata non avanzerò senza autorità. Nell’esposizione
di alcuni princìpi generali si vedranno facilmente le conseguenze che ne
derivano.
I
Non si giungerà mai al punto cruciale della questione se non si
distinguono innanzi tutto lo Stato dalla Chiesa ed il prete dal magistrato.
Lo Stato ha per fine la conservazione dei suoi membri, la tutela della loro
libertà, della loro tranquillità, dei loro possessi e dei loro privilegi.
Il fine della Chiesa è invece la perfezione dell’uomo e la salvezza della
sua anima. Il sovrano bada soprattutto alla vita presente, la Chiesa bada
soprattutto e direttamente alla vita futura. Mantenere la pace nella società
contro tutti i perturbatori è dovere e diritto del sovrano. Ma il suo regno
finisce dove comincia il regno della coscienza. Queste due giurisdizioni
devono restare sempre separate; non possono sovrapporsi senza che ne
risultino mali infiniti.
II La salvezza delle anime non è
affidata al magistrato né dalla legge rivelata, né dalla legge naturale, né
dal diritto politico. Dio non ha mai ordinato ai popoli di piegare la loro coscienza
alla mercé dei monarchi; e nessuno può impegnarsi in buona fede a credere e
a pensare come esige il principe. L’abbiamo già detto: niente è più libero
delle credenze; esteriormente e con la bocca possiamo cedere alle opinioni
altrui, ma ci è impossibile cedere interiormente e contro i nostri lumi così
come ci è impossibile cessare di essere quali siamo. Quali sarebbero
d’altronde i diritti del magistrato? La forza e l’autorità?
Ma
alla religione si persuade e non si comanda. E’ questa una verità così
semplice che gli stessi apostoli dell’intolleranza non osano sconfessarla,
appena la passione e il pregiudizio feroce cessano di oscurare la loro
ragione. Infine, se nella religione potesse operare la forza, se
addirittura (permetteteci questa assurda supposizione) la forza riuscisse
effettivamente a persuadere, allora per essere salvati bisognerebbe nascere
sotto un principe cattolico: il merito del vero cristiano sarebbe una
nascita fortunata; e anzi bisognerebbe mutare la propria credenza a quella dei
prìncipi che si succedono – cattolici sotto Maria e protestanti sotto
Elisabetta. Una volta abbandonati i princìpi, non si sa più dove fermare il
male.
III Spieghiamoci dunque liberamente
con le parole dell’autore del Contrat
social, che su questo punto afferma: «Il diritto che il patto sociale dà
al sovrano sui sudditi non oltrepassa i limiti della pubblica utilità: i
sudditi non devono dunque render conto al sovrano delle loro opinioni se
non in quanto esse interessino la comunità. Ora, interessa bensì lo Stato
che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri;
ma i dogmi di tale religione non interessano lo Stato né i suoi membri se
non in quanto si riferiscano alla società. Vi è una professione di fede
puramente civile di cui spetta al sovrano fissare gli articoli, che non
vanno concepiti quali dogmi religiosi ma quali princìpi di socialità, senza
i quali è impossibile essere un buon cittadino e suddito fedele. Il sovrano
non può propriamente obbligare nessuno a crederli: può bandire dallo Stato
chiunque non li creda, ma non come empio, bensì come asociale, come uomo
incapace di amare sinceramente le leggi della giustizia e di immolare la
vita al dovere in caso di bisogno».
IV Da queste parole possiamo trarre
alcune conseguenze legittime. La prima è che i sovrani non devono
assolutamente tollerare i dogmi che si oppongono alla società civile. E’
vero che i sovrani non hanno diritto di ispezione sulle coscienze, ma
possono e debbono reprimere i discorsi temerari che potrebbero indurre gli
animi alla licenza e al rifiuto dei propri doveri. Gli atei, in
particolare, che tolgono ai potenti il solo freno che li possa trattenere,
che tolgono ai deboli la loro unica speranza, che snervano tutte le leggi
umane privandole della forza che traggono dalla sanzione divina, che fra il
giusto e l’ingiusto lasciano una distinzione meramente politica e frivola,
che vedono l’obbrobrio del crimine soltanto nella pena del criminale; gli
atei, dico, non possono reclamare la tolleranza in proprio favore; si
cominci con l’educarli e con l’esortarli con bontà; ma se insistono li si
reprima; e infine rompete ogni rapporto con loro, banditeli dalla società,
giacché essi stessi ne hanno infranto i legami. La seconda conseguenza è
che i sovrani debbono opporsi con vigore alle imprese di chi maschera la
propria avidità sotto il pretesto della religione e vuole attentare ai beni
dei privati o dello stesso Stato. La terza e più importante conseguenza è
che i sovrani devono proibire rigorosamente tutte quelle società perniciose
che sottomettono i loro membri a una doppia autorità, costituiscono uno
Stato nello Stato, rompono l’unità politica, allentano e dissolvono i
legami della patria per concentrare nel loro corpo affetti e interessi: e
sono insomma disposte a sacrificare la società generale ai propri fini
particolari. In una parola: lo Stato sia uno; il prete sia prima di tutto cittadino, sia soggetto come
ogni altro cittadino, al potere del sovrano e alle leggi della patria; la
sua autorità puramente spirituale si limiti all’educazione, all’esortazione
e predicazione della virtù; impari dal suo divino Maestro che il suo regno
non è di questo mondo. Tutto è perduto se lasciate un solo momento il
gladio e il turibolo nella stessa mano.
Regola generale. Non violate mai i diritti
della coscienza in tutto ciò che non turba la società. Gli errori
speculativi sono indifferenti allo Stato; la diversità delle opinioni
regnerà sempre fra esseri così imperfetti quali sono gli uomini; la verità
produce eresie come il sole impurità e macchie. Non aggravate dunque un
male inevitabile usando il ferro e il fuoco per estirparlo; punite i
delitti; abbiate pietà dell’errore; e non date mai alla verità altre armi
che non siano la dolcezza, l’esempio, la persuasione. In fatto di conversione religiosa le esortazioni hanno più forza
delle pene; le pene hanno sempre effetti unicamente distruttivi.
V A
questi princìpi ci si opporranno gli inconvenienti della molteplicità delle
religioni e i vantaggi dell’uniformità di credo in uno Stato. Risponderemo
prima di tutto con l’autore dell’Esprit
des lois: «Le idee dell’uniformità colpiscono immancabilmente gli
spiriti volgari, perché vi trovano un tipo di perfezione che è impossibile
non notare: le stesse misure giudiziarie e amministrative, gli stessi
sistemi nel commercio, le stesse leggi nello Stato, la medesima religione
in tutte le parti dello Stato. Ma questa uniformità va sempre bene senza
eccezioni? Imporre cambiamenti comporta sempre meno mali del lasciar
correre? La grandezza del genio non consisterà forse nell’individuare i
casi in cui ci vuole uniformità e quelli in cui è bene che ci siano
differenze?». Perché mai dobbiamo pretendere una perfezione che è
incompatibile con la nostra natura? Fra gli uomini ci sarà sempre diversità
di credenze: la storia dello spirito umano ne è costantemente una prova.
Non c’è progetto più chimerico di quello di ridurre gli uomini
all’uniformità delle opinioni. Tuttavia, direte voi, l’interesse politico
esige che si instauri questa uniformità, che si proscrivano rigorosamente
tutte le credenze contrarie alle credenze tradizionali e consolidate nello
Stato.
Insomma,
secondo voi, si dovrebbe costringere l’uomo a non essere niente di più di
un automa; ammaestrarlo alle opinioni correnti nel suo luogo di nascita,
senza che osi mai esaminarle e approfondirle; indurlo a rispettare
servilmente i pregiudizi più barbarici, simili a quelli che noi
combattiamo. Ma quanti mali e quante divisioni genera in uno Stato la
molteplicità delle religioni!
Ma
questa obiezione in verità si ritorce contro di voi, perché queste
divisioni e questi mali non sono provocati dalla molteplicità delle
credenze, ma dall’intolleranza. Se infatti i differenti partiti si
sopportassero vicendevolmente, e cercassero di combattersi solo con
l’esempio, la regolatezza dei costumi, l’amore delle leggi e della patria,
se queste fossero le uniche prove che ogni setta facesse valere in favore
della sua fede, ben presto l’armonia e la pace regnerebbero nello Stato,
malgrado la varietà delle opinioni, così come le dissonanze nella musica
non nuocciono all’accordo totale. E se ancora insistete, e affermate che il
mutamento di religione comporta sovente rivoluzioni nel governo e nello
Stato, risponderò ancora una volta che l’intolleranza è l’unica responsabile
degli esiti odiosi che denunciate: se infatti i novatori fossero tollerati
o combattuti solo con le armi del Vangelo, lo Stato non soffrirebbe per
questa fermentazione spirituale; ma i difensori della religione dominante
si levano con furore contro i settari e armano contro di loro i pubblici
poteri, strappano editti sanguinosi, ispirano in tutti i cuori discordia e
fanatismo, e rigettano senza pudore sulle loro vittime la colpa dei
disordini che essi solo hanno generato.
Riguardo
a coloro che sotto il pretesto della religione si sforzano solo di
sommuovere la società, fomentare sedizioni, scuotere il giogo delle leggi,
reprimeteli severamente: noi non li vogliamo certo difendere. Ma guardatevi
dal confondere con codesti colpevoli quelli che non vi chiedono altro che
la libertà di pensare, la libertà di professare la fede che credono
migliore, e che per il resto vivono da sudditi fedeli dello Stato.
Ma,
direte ancora, il principe è il difensore della fede: egli deve mantenerla
in tutta la sua purezza e opporsi con vigore a tutti quelli che la
insidiano; e se i ragionamenti e le esortazioni non bastano, non è invano
che egli porta la spada, ma per punire chi fa il male, per forzare i
ribelli a rientrare nel seno della Chiesa. Che vuoi tu dunque barbaro?
Sgozzare tuo fratello per salvarlo? Ti ha forse dato Iddio questo orribile
compito? Ha forse rimesso nelle tue mani la cura della sua vendetta? Da che
cosa arguisci che Dio voglia essere onorato come i demoni? Va, sciagurato,
il Dio della pace ripudia i tuoi orribili sacrifici: essi non sono degni
che di te.
Non
ci impegneremo qui a fissare i limiti precisi della tolleranza: a
distinguere tra la sopportazione caritatevole che la ragione e l’umanità
reclamano a favore degli erranti e l’indifferenza colpevole che ci fa
mettere sullo stesso piano tutte le opinioni degli uomini. Noi predichiamo
la tolleranza pratica e non assolutamente la tolleranza speculativa. Si
capisce bene la differenza che sussiste fra il tollerare una religione e
l’approvarla. Rimandiamo i lettori desiderosi di approfondire l’argomento
al Commentario filosofico di
Bayle, dove secondo noi quell’uomo di bell’ingegno ha superato se stesso.
Roberta
G.M
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