La morte nella speculazione filosofica romana
Fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. si ha a Roma una notevole diffusione delle grandi filosofie razionalistiche, quali l’epicureismo e lo stoicismo, che raccolgono entusiastici consensi fra i ceti superiori. Entrambe queste dottrine si pongono, seppure con modalità diverse, lo stesso obiettivo: insegnare agli uomini a vivere e soprattutto a morire. Un fine così ambizioso parte però in entrambi i casi da una medesima premessa: non bisogna temere la morte giacché essa non è un male. Questo porta, dunque, tali filosofie ad una contrapposizione con la concezione elitaria che vede nella morte il male per eccellenza, ma presuppone anche una valutazione diversa della vita: la nostra esistenza non è più un luogo di delizie, dove è possibile realizzare ogni nostro desiderio, ma comincia ad essere vista come un mondo di fatica e di dolore, in cui solo pochi possono realizzare le loro aspirazioni ed i loro desideri a scapito di tanti altri, che sono costretti invece a vivere in povertà o in schiavitù.La morte appare allora come una liberazione, la via d’uscita da una vita che non è nemmeno tale, passata fra miseria e sfruttamento, la fine delle sofferenze e delle fatiche improbe fra cui i ceti più bassi trascorrono il loro tempo. L’epicureismo, nella Grecia del III secolo a.C., apre una violenta polemica contro le superstizioni religiose che immaginano un aldilà fatto di giudici infernali, di tormenti, di fiumi e paludi di fuoco; per Epicuro è proprio l’angoscia dell’aldilà che turba profondamente la vita degli uomini e impedisce loro di essere veramente felici, liberi da affanni.
Epicuro riprende il materialismo democriteo e formula una dottrina estrema sul destino dell’anima: al momento della morte anche lo spirito svanisce insieme al corpo poiché entrambi sono formati da atomi. Il dissolvimento dell’anima porta, dunque, come naturale conseguenza, il superamento della paura dell’aldilà, giacché, anche se ci fosse una vita dopo la morte noi non potremmo nemmeno accorgercene dal momento che non esistiamo più. Il famoso argomento epicureo contro la paura della morte è tutto qui: la morte è annientamento, dissolvimento di corpo e anima, perciò essa non è nulla, visto che quando c’è non ci siamo più noi e quando noi siamo in vita essa non c’è. Lucrezio, il maggiore esponente dell’epicureismo romano, approfondisce e perfeziona la speculazione del maestro trasferendola nel mondo latino. Nell’analisi delle angosce umane, dell’irrequietezza che tormenta gli spiriti (specialmente nel III libro del suo De rerum natura), rivela accenti di commossa umanità.
Per il poeta la causa di tutti i mali che affliggono gli uomini è la follia che nasce dalla paura della morte, una follia che si è insinuata nei loro animi perchè non hanno una esatta percezione della vita e dei veri valori da perseguire. Gli uomini inseguono i beni materiali, il denaro, il potere, e una volta che li hanno ottenuti aspirano a nuovi e sempre più lontani traguardi. Questo proiettare nel futuro i propri desideri porta evidentemente a considerare la morte come la massima sciagura, visto che impedisce di realizzare i nuovi progetti e priva l’uomo di tutto quello che possiede. L’unico strumento di liberazione da questa schiavitù morale è la scienza: solo essa può dimostrare come le vicende terrene siano semplici e transitorie aggregazioni e dissoluzioni in cui tutto si riduce al nulla, insegna all’uomo quali siano i veri beni e dà un senso profondo alla vita, in ultima analisi insomma insegna a vivere, ma soprattutto a morire. L’uomo saggio deve abbandonare questa terra come un convitato sazio e soddisfatto si allontana da un banchetto e, contento di quello che la vita gli ha concesso, affrontare con serenità la morte, sapendo che dopo niente attenderà lui, o la sua anima, che è mortale anch’essa, se non la notte eterna, poiché la morte è senza tempo. Lucrezio formula questa teoria della mors immortalis in aperta contraddizione con due dottrine rivali: quella aristotelica che afferma l’immortalità dell’anima dopo la morte, e quella stoica che sostiene l’idea della vita che secondo cicli si rinnova continuamente.
Il poeta romano, invece, è categorico: la morte sarà eterna, tutti dormiranno per sempre, nessun giudice, nessuna pena, nessun castigo, solo il nulla, questa è l’unica dottrina, secondo Lucrezio, che libera l’uomo dalla paura dell’aldilà. Non possiamo sostenere con certezza che tutte le iscrizioni che manifestano seri dubbi sulla vita nell’aldilà o addirittura proclamano la non-esistenza della morte siano sicuramente di stampo epicureo: certo è che la lezione epicurea lascia un profondo segno nelle coscienze dei Romani dei ceti colti, e in qualche caso parrebbe anche fra quelli più bassi. Pure gli stoici proclamano la necessità per l’uomo di liberarsi dall’angoscia della morte, ma offrono dei rimedi assai differenti da quelli epicurei.
Presupposto fondamentale della speculazione stoica su questo problema è quello che la morte appartiene all’ordine naturale delle cose per cui è perfettamente inutile lamentarsi o ribellarsi giacché la vita ci è stata concessa solo a condizione della morte. Il saggio stoico deve dunque uniformarsi alla legge della natura e deve cercare di dare un senso alla sua esistenza non in base al tempo che passa sulla terra, ma alla sua qualità. La vita infatti acquista un senso solo se la si affronta praticando la virtù e accordando ogni azione ai princìpi della natura, fonte della ragione, la quale guida l’uomo verso i più alti traguardi: quando poi non sia più possibile vivere secondo questi precetti, il saggio stoico deve essere pronto a rinunciare volontariamente alla sua esistenza.
E’ questo il nodo centrale di un sistema di pensiero che ha poi portato alla codificazione di un’etica del suicidio già dalla tarda repubblica: è evidente, infatti, come per molti stoici, la morte interessa più come atto, la pulchra mors, che come fenomeno, perchè è proprio questo frangente che dà la misura della statura morale di un uomo. Questo atteggiamento porta quasi naturalmente ad una eccessiva teatralità nei suicidi di matrice stoica che tendono a porsi come un esempio di condotta giusta e coerente, contrapponendosi in ciò alla riservatezza e all’austerità dei suicidi di rappresentanti dell’epicureismo. In ogni caso saper morire senza cercare di allungare artificiosamente il proprio tempo significa per Seneca essere liberi. Molti uomini invece sono ancora schiavi dell’angoscia della morte perchè passano il proprio tempo alla ricerca dei beni materiali e dei piaceri più bassi, per cui vedono con terrore l’avvicinarsi della fine che li priverà di tutto. Essi si lamentano della brevità della vita, ma non si accorgono che sono proprio loro a renderla più breve comportandosi come se dovessero vivere per sempre, mentre per affrontare serenamente la morte è necessario, secondo Seneca, comprendere che: “Sed corpus quoque suum et oculos et manum et quicquid cariorem vitam facit seque ipsum precarium numerat, vivitque ut commodatus sibi et reposcentibus sine tristitia redditurus” . L’ insegnamento di Seneca è allora molto semplice: “tu autem mortem ut numquam times semper cogita”, bisogna dunque pensare continuamente alla morte, familiarizzare con essa se non vogliamo esserne sopraffatti, ed è proprio la filosofia che ci soccorre in questo compito poiché i grandi pensatori attraverso le loro opere immortali ci insegneranno a morire.
Seneca, da buon stoico, al contrario degli epicurei, crede nell’immortalità dell’anima, nell’impossibilità di perire per un dono così grande come quello della mente umana, motivo per cui, riallacciandosi a Platone, sostiene l’idea che il corpo sia il carcere dell’anima e che questa dopo la morte raggiunga gli dei. Queste teorie hanno certo grande diffusione se Giovenale ai primi del II secolo d.C. può affermare che: “Esse aliquos manes et subterranea regna et contum et Stygio ranas in gurgite nigras atque una transire vadum tot milia cumba nec pueri credunt, nisi qui quondam aere lavantur”, ma l’angoscia della morte continua comunque a pesare sulla gran parte delle persone comuni che, prive di un vero e proprio progetto salvifico come quello del cristianesimo, o di alcune religioni orientali, continuano a vedere la morte come il peggiore dei mali. Tutto ciò è ampiamente dimostrato dall’evoluzione stessa della filosofia stoica la quale – dopo Epitteto, vicino alle linee di Seneca, ma più ottimista di lui – presenta alla fine del II secolo d.C. un personaggio disincantato e pessimista come Marc’Aurelio, totalmente assorbito dall’idea della transitorietà e della morte.
Per l’imperatore filosofo la morte è la legge suprema dell’universo: tutto e tutti sono soggetti ad essa, la meditazione sulla fine diventa l’unico metro per interpretare le vicende umane, la filosofia non è più un processo speculativo ma il momento privilegiato per un sereno approccio al “non più”. In questa visione pessimistica il pensiero continuo della morte assume un carattere moralizzatore: bisogna comportarsi come se ogni giorno della nostra vita fosse l’ultimo e quindi agire in maniera buona e saggia.