Note varie da “Archeo” e da “Archeologia Viva”
La via della pece
………………………Un frammento di anfora di 32 cm. di lunghezza ha permesso di ripercorrere la «via della pece». Questa materia resinosa, in antico, non serviva solamente a rendere impermeabili le barche: le sue migliori qualità, quella macedone e quella bruzia, originaria cioè dell’attuale Calabria, erano adoperate per il trattamento del vino, del quale favorivano l’invecchiamento.
Sul frammento di anfora, rinvenuto a Pompei nella casa di G. Giulio Polibio in via dell’ Abbondanza e studiato da Stefano De Caro, si conserva il bollo che ne dichiara il contenuto: PIX BRUT, facilmente integrabile ed interpretabile come «pece bruzia» . La scoperta completa e chiarisce le analisi chimiche recentemente effettuate su anfore ritrovate nella villa B di Oplontis, risultate anch’esse contenenti pece.
Dall’insieme si evince che l’economia pompeiana della produzione di vino si integrava con il commercio della pece bruzia, che giungeva nella città vesuviana in anfore esclusivamente destinate ad essa, come ora indica senza possibilità di dubbio il bollo. Questo commercio procurava beneficio all’erario pubblico romano, proprietario dell’intera Sila, la famosa foresta calabrese nella quale la raccolta della pece era una delle principali risorse………………
………………Il rivestimento interno delle anfore con pece veniva fino a qualche tempo fa interpretato come avente lo scopo di aromatizzare il vino, per cui il ritrovamento di anfore recanti internamente tracce di pece veniva invariabilmente accostato al vino ed al suo commercio.
Oggi, alla luce di diversi ritrovamenti di questi ultimi anni, si è arrivati a capire che la resina all’interno delle anfore serviva all’impermeabilizzazione delle stesse e che quindi il loro contenuto poteva anche non essere vino………..
da Archeo n° 5 Archeologia subacquea
………………A quello di Diano si sono aggiunti gli scavi di altri tre relitti di navi con il medesimo carico, due in Francia al Grand-Ribaud e al Petit Congloue presso Marsiglia, e uno a Ladispoli, a nord di Roma. All’incirca coevi di quello di Diano, essi hanno dato conferma della nuova sistemazione di carico con i dolia stivati nella parte centrale della nave, mentre gli spazi più stretti di poppa e di prua erano riempiti con anfore vinarie di forma DresseI 2-4.
Anche i dolia quasi certamente contenevano vino, generalmente quello dell’Italia meridionale destinato alla Gallia e alla Spagna, e seguivano la medesima rotta commerciale in precedenza percorsa – come si è visto all’inizio – da navi cariche di migliaia di anfore di un tipo più antico.
Al commercio dell’olio, invece, si riferiscono i due relitti francesi di Planier III e di Port- Vendres II. Il primo, a 28 metri di profondità, è uno dei tanti individuati intorno all’isolotto di Planier, al largo di Marsiglia. Il suo scavo fu intrapreso nel 1968 da Andre Tchernia, come primo intervento della allora nuova Direction des Recherches Archeologiques Sousmarines, e portato poi avanti in varie riprese fino al 1975.
Il carico era composto da anfore vinarie campane (Dressel 1) e da anfore da olio di Brindisi. Molte di queste recavano impresso il timbro con il nome di Marcus Tuccius Galeo, nel quale è stato opportunamente identificato un imprenditore commerciale più volte menzionato nell’epistolario di Cicerone (Ad Atticum, XI, 12,4; Ad Familiares, VIII , 8,1 ) e del quale lo stesso Cicerone divenne erede nel 47 a.C…………….
da A.V. notizie del relitto del Giglio
………………… Dovunque, sul luogo, si contavano semi d’olive a migliaia. Scoprimmo che queste erano trasportate nelle anfore etrusche: la metà di un’anfora etrusca recuperata durante il secondo anno fu trovata rovesciata con noccioli d’oliva. Le olive, oggi, non hanno un ruolo significativo nella nostra società, ma in antico erano di indubbia importanza: a buon mercato, costituivano una risorsa abbondante di cibo coltivata su terreni poveri, l’olio estrattone serviva anche come fonte di luce e grasso da cucina.
Ho trovato interessante la presenza di tante olive sul relitto. Queste olive volevano dire che c’era un’ industria stabile etrusca di questo prodotto nel tardo VII sec. a.C. Poteva infatti esserci stata un’industria di olive così ben organizzata da portarne ai mercati greci? Poteva essere questa la ragione per cui Solone di Atene, al tempo della nave di Giglio Campese, esentava l’olio d’oliva da proibizione di esportazione di prodotti attici agricoli? Era accaduto qualcosa perché ci fosse competizione nascente da oltremare? ………………………..
da A.V. Il porto di Populonia
……………………L ‘origine di Populonia è antichissima: affonda le sue radici nell’ Eneolitico, e le prime testimonianze parlano infatti di installazioni villanoviane.
Ma, per quanto Servio attribuisca la sua fondazione al popolo che abitava la Corsica (Commentari ad Aen. X, 172), la nascita di Populonia ed il suo sviluppo si deve indubbiamente agli Etruschi che la chiamarono Popluna o Fufluna, nome derivante probabilmente dalla corruzione di quello del dio Fufluns che era il corrispondente etrusco del greco Dioniso, nome abbastanza pertinente se è vera la notizia che ci giunge da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, che cioè nel territorio di Populonia si producesse una notevole quantità di vino, ottenuto da vitigni che non venivano mai potati e che crescevano, a volte, fino a diventare alberi, tanto che, riferisce ancora il naturalista latino, «nella città (Populonia) si trovava una statua di Giove, intagliata in legno di vite». D’altra parte, semi di vite rinvenuti in tombe nell’area del Chianti dimostrano che furono gli Etruschi ad introdurre in Italia, dall’Oriente, e ad acclimatarvela, la vite………
da: A.V. Notizie varie
………………….A Creta era famoso l’olivo che si trovava già nelle foreste insieme ad altri alberi. Le olive venivano macinate e spremute per estrarre l’olio che era la maggiore risorsa dell’isola. Ma c’era anche il vino. La vite selvatica cresceva nei boschi delle regioni orientali del Mediterraneo e qualcuno scoprì che questa poteva essere presa e trasportata vicino a casa per essere innestata con viti già esistenti. Ebbe così inizio un processo che porterà alle moderne viti.
Gli archeologi sostengono che l’addomesticamento della vite dovrebbe aver avuto inizio nel VI-V millennio a.C.
Fin dall’VIII° sec. a.C. si iniziano a trovare nelle tombe etrusche corredi formati da vasi o ciottole per bere vino. E’ probabile che la vite selvatica fosse stata utilizzata anche prima di questo periodo, in ogni caso la coltivazione della stessa fu episodio più tardo e probabilmente avvenne per mano dei Greci che nel VII sec. a.C. avevano rapporti frequentissimi con gli Etruschi. A partire dal VI sec. a.C. si iniziano a trovare nei corredi tombali le anfore etrusche per il vino. Queste provenivano soprattutto da Vulci che sembra essere stato il maggior centro di produzione, probabilmente perché questa città produceva molto vino……….
– Vicino a Pompei è stata scoperta la fattoria di Boscoreale, sommersa dalla eruzione del 79 d.C. specializzata nella produzione del vino. E’ stata ritrovata la cantina con 18 grandi dolia che dovevano contenere 12.000 litri di vino. All’esterno è stata trovata anche una parte della vigna ed i buchi di circa 100 viti. Inoltre sono stati recuperate alcune decine di acini d’uva e, nonostante il tempo trascorso ed il calore dell’eruzione del Vesuvio, si è potuto analizzare il D.N.A. di questi. Adesso si sta cercando di riprodurre questi semi e quindi clonare le viti originarie. Si spera, in questo modo, di poter piantare queste viti e di arrivare ad una vera e propria vendemmia in modo poi di assaggiare il vino del 78 d.C.
– Si sa che una volta il ricco Trimalcione fece servire ai suoi ospiti del “Falernum Optimianum annorum centum” mentre Plinio nella sua “Naturalis Historia” (XIV, 55) conferma i vini vecchi anche di due secoli.
– Alcune qualità del vino Falerno erano (C.I.L. XV, 2, 4537 e segg.) Faustianum, Massicum, Cecubo, Fundanum, Helveolum, Geminum o Gemellum, Formianum, Tudernum.
C’era anche un tipo di vino cotto: il Defrutum.