Introduzione
So bene che combatto per qualcosa che non durerà. Nessun futuro è per sempre. Combatto
per avere un passato, perché un po’ della mia vita riposi intatta nell’accaduto»
(Alistair Noon, poeta, caduto durante la guerra di Spagna, a 27 anni)
Quero il romanziere americano William Dean Howells ebbe la ventura di fermarsi
a Grosseto agli inizi de- gli anni Sessanta dell’Ottocento, oltre a mangiare in
una locanda dove «sul piantito della cucina c’erano mucchi di allodole,
fagiani, quaglie e beccafichi che passavano per le mani di sguatteri intenti a
pelarli» per poi finire «in gratella, in stufato e arrosto», nella notte
silenziosa sentì un ragazzo che cantava per strada:
Quando all’appello di Garibaldi tutti i suoi figli, suoi figli baldi daranno uniti
fuoco alla mina camicia rossa garibaldina. In terra di Maremma, terra giovane,
di frontiera, Garibaldi era un mito, che conviveva con l’affetto verso il buon
senso dell’antico sovrano Leopoldo II, il buon Canapone, la cui figura
torreggia ancora, in forma dista-
tua, nella piazza di Grosseto, come un antico nume tutelare. Il generale
spopolava nelle comunità “giacobine” e repubblicane, come Massa Marittima,
Scarlino e Follonica, dove era ancora vivo il ricordo dell’impresa del suo salvataggio
nel 1849 da parte dei “sovversivi” locali. Garibaldi era un riferimento
ideologico, ma anche un amor é, mai sopito, verso una democrazia solidale e
progressiva nonchè un riferimento temporale, in quanto esisteva «un tempo,
quando c’era Garibaldi».
La mia bisnonna, morta quasi centenaria a Massa Marittima, quando a me, bambino
piccolo, voleva dire che era nata col tempo del “c’era una volta”, affermava di
«aver conosciuto Garibaldi», proprio di persona. Probabilmente la bisnonna
Garibaldi non l’aveva mai visto di persona, ma il suo ricordo era vivo, come lo
era l’imprecazione che, sempre a Massa, usava mia nonna per rimarcare ogni
contrattempo della vita, dal raffreddore al temporale e che era, ma lei non lo
sapeva, il grido dei giovani repubblicani nel 1848: «accidenti a Pio Nono!». Così
il papare, ora divenuto beato, era servito; lo stesso papa che Garibaldi aveva
definito, un po’ pesantemente
occorre ammetterlo, «un metro cubo di letame» e che si confaceva benissimo
all’anticlericalismo viscerale di quest’an- golo di Maremma. D’altra parte a
Roma e anche in Toscana nel 1849, adattando alcuni versi di Mameli, si cantava
«Se il papa è andato via buon viaggio e così sia». Il ricordo di Garibaldi era
tuttavia legato all’impresa del 1849, quando il generale dopo aver attraversato
in
diagonale l’Italia da Comacchio alla Maremma, inseguito dall’esercito
austriaco, papalino e granducale, era riuscito a salvarsi imbarcandosi nella
nascosta baia di Cala Martina.
Il tutto grazie ad una vera e propria ‘trafila’ di democratici e di
‘sovversivi’ di tutte le classi sociali, poveri marginali e ricchi borghesi
progressisti, che, attraverso fasi alterne e contrastate, presero in consegna
Garibaldi sulla solitaria spiaggia di Comacchio e lo portarono verso un’altra
spiaggia solitaria, quella sassosa di Cala Martina.
Era quasi una simmetria perfetta, dall’Adriatico al Tirreno, dalle terre
palustri e povere delle Valli di Co- macchio a quelle simili della Maremma, due
terre nuove, instabili anche nell’assetto stesso del suolo, regioni che si
guardavano quasi allo specchio. In mezzo stava il cammino difficile
dell’Appennino e le terre popolose della
Romagna collinare e della Toscana settentrionale. Il viaggio di Garibaldi,
insieme al suo fido attendente Leggero, fuggito dalla disfatta della Repubblica
Romana con l’intenzione, poi fallita, di raggiungere Venezia insorta, è quindi
un itinerario in quell’Italia mediana, il cuore progressista, spesso sovversivo
e ribelle per istinto e per convinzione, della penisola: quella stessa fascia che
troviamo costantemente colorata in rosso nelle cartine politiche delle elezioni
dal 1946 ad oggi. Era quell’Italia ‘mediana’ di cui parlava uno scrittore
‘garibaldino’ come Luciano Bianciardi che, negli anni del miracolo economico
italiano, non riusciva a trovare un aggancio né con la depressa Italia del Sud,
né con quella depressa per una modernità senza crescita di uno spirito civico e
solidale dell’Italia del Nord. «Fra queste due Italie per diverso motivo
depresse, come suol dirsi oggi, la nostra Italia di mezzo non riesce a trovare
la mediazione. Star lì è comodo quanto vuoi, ma non serve a nulla. (…) Quassù
siamo venuti (a Milano) allo stesso modo che se si fosse preso il treno per
Matera. In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile
che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si
maschera da progresso, da modernità». Nel suo pessimismo sugli esiti del
miracolo Bianciardi identificava un’Italia mediana che rischiava di rimanere
schiacciata ed era proprio l’Italia solidale del Garibaldi quarantottesco, quel
Garibaldi che lui considerava centrale nel Risorgimento («insomma io sto dalla
parte di Garibaldi, non di Cavour, anche se poi ebbe ragione il secondo»)
Naturalmente va sfatato il
mito del salvataggio di Garibaldi come «la vicenda di esempi di popolani che al
solo udire il nome del generale, al solo apparire al suo cospetto restano come
folgorati dalla fiamma dell’amor patrio», poiché l’episodio fu l’espressione di
una capacità organizzativa politica e logistica che ebbe momenti dì
forza e momenti, come vedremo, di debolezza. Tuttavia la rete “garibaldina”
testimonia la presenza di radicati sentimenti democratici nella popolazione dei
territori attraversati, più radicata in Romagna dove, accanto alla
borghesia repubblicana, troviamo anche figure popolari e persino ai limiti
della marginalità, unite dal disagio verso il governo papalino: artigiani,
osti, pescatori, contadini, persino contrabbandieri. In Toscana invece l’iniziativa
è presa soprattutto da una borghesia democratica composta da possidenti e
professionisti, con qualche
rara figura popolare. Sull’avvenimento del 1849, proprio per il suo carattere
avventuroso, è stato scritto moltissimo: a pochissimi anni di distanza
dall’impresa esisteva già una vasta letteratura memorialistica, ognuno voleva
dire la sua, ognuno voleva ritagliarsi un pezzetto di gloria per aver
partecipato all’evento, anche in un ruolo assolutamente casuale e marginale e questo
fu talvolta all’origine di dispute interminabili su meriti e dementi. Poi
vennero i libri eruditi, testi utilissimi per i dati riportati, ma quasi
illeggibili nel loro insieme per la pedanteria nel descrivere ogni singolo
luogo, ogni minimo movimento: questo anche per mettere la parola fine alle dispute
di cui sopra. Il più singolare d itutti (ed anche il migliore da leggere) fu
quello dello storico inglese George Macaulay Trevelyan che nel 1906, insieme
alla moglie Janet Penrose, decise di fare il proprio viaggio di nozze in
bicicletta, seguendo le orme di Garibaldi: carichi di abiti e di libri,
percorsero le stradine di un’Italia campagnola fino allemacchie della Maremma,
seguendo il romanzo avventuroso di un uomo in fuga, nella «più romantica e la
più forsennata delle marce». Non a caso qualcuno ha voluto fare, non a torto,
un parallelismo fra Garibaldi in fuga ed un altro popolarissimo eroe romantico
della letteratura italiana uscito dalla fantasia di Emilio Salgari in La tigre
della Malesia (apparso nel 1883-1884): Sandokan che fugge da Mompracem insieme
all’amata Marianna e l’amico Yanez come Garibaldi, Anita e Leggero nelle valli
comacchiesi.
Dell’impresa sappiamo, quindi, davvero tutto, anche se vi sono alcuni momenti
più oscuri, e poi restano le lapidi, ve ne sono a decine che testimoniano ogni
passaggio, ogni fermata del generale, non fosse altro che per riposarsi un
poco, per riprendere fiato, mangiare un boccone o fumarsi un sigaro e in ogni
occasione i testimoni
potevano vedere che Garibaldi «è come noi» e diventava quindi «uno di
famiglia».
D’altra parte Garibaldi ‘segnava’ il territorio con la sua presenza fisica: ad ogni persona che incontrava e che lo aiutava lasciava un ricordo di sé, sia che fosse un coltello sudamericano o un fazzoletto, o un mezzo sigaro come quello che dimenticò sopra un comodino a Palazzo Guelfi di Scarlino, conservato come una reliquia, e che un soldato tedesco, durante l’ultima guerra, vedendolo lì abbandonato ed essendo probabilmente in astinenza da tabacco, fumò avidamente (non sappiamo con quali esiti vista la ‘stagionatura’ del sigaro…).
Nello stesso tempo Garibaldi viaggiava in un territorio pieno, fatto di paesi e città, di montagne e di torrenti, di animali, di alberi, di osterie, di casolari, di tante persone diverse: non c’è nulla di virtuale o di puramente ideologico nel suo camminare attraverso un’Italia che oggi consideriamo provinciale, e in molti casi, marginale.
Proprio per questo alberi monumentali, case coloniche, fontane, stradicciole e così via, portano il segno ed il ricordo di Garibaldi, che, appena poteva, osservava la natura che lo circondava e ne provava piacere: così nel 1860 Giuseppe Bandi, nel pieno dell’organizzazione della spedizione dei Mille, durante una concitata sosta a Porto Santo Stefano, vide, con meraviglia, il generale, mentre «si smammolava nel guardare un bel giardino, pieno zeppo di grosse piante di limoni e di aranci», sguardo da ‘intenditore’ se, nello stesso anno, il botanico Teodoro Caruel scriveva che «in un solo luogo della Toscana, a Porto S. Stefano, ho veduto gli agrumi coltivati in terra all’aria aperta, però sempre in giardini molto riparati».
Infine c’erano le persone che Garibaldi incontrava nel suo peregrinare: c’era in ognuno dei protagonisti di questa avventura, grandi e piccoli che fossero, la coscienza e l’orgoglio che la loro storia individuale si fosse in contrata almeno una volta con la “Storia”