CHE SI DEVE FARE?

CHE SI DEVE FARE?

Risponderò con un concetto altrettanto semplice come enunciazione ma forse

non altrettanto quanto ad attuazione. Perché, come giustamente diceva il Fratello

che pose la domanda, può essere piacevole il dire e l’ascoltare concetti non

consueti ai più e l’udire termini di complessa e laboriosa indagine semantica. Ma,

dice il capiente che tutto ciò è ancora vanità: «vanitas vanitatis».

Intanto si dovrà chiarire un punto che è decisamente assai importante: cioè

l’oggetto del «fare ». Perché è evidente che il «cosa» sia implicito nell’oggetto e

non viceversa. In caso contrario si dovrebbe pensare ad una inconcepibile,

sconcertante alterazione delle facoltà mentali umane e ad un conseguente

farneticamento di propositi vuoti di significato e di contenuto.

(Che ciò purtroppo sia caduto ed accada, che abbia condizionato e

condizioni tuttora la serie infinita degli accadimenti umani, è discorso che potremo

e dovremo affrontare in altre occasioni).

lo non credo sia necessario ripercorrere l’intero scibile della conoscenza

filosofica per stabilire che TUTTO IL FARE DELL’UOMO NON PUÒ AVERE

OGGETTO DIVERSO DALL’UOMO, CONTEMPORANEO SOGGETTO DEL FARE.

Può allora un «fare» siffatto tendere a qualsiasi altra cosa diversa dal

MASSIMO BENE dell’uomo?

Ora dunque possiamo parlare serenamente di che fare.

Oppure, come disse il nostro mai abbastanza onorato e seguito Mazzini, che

cosa non fare:

— Se cosa alcuna giova a te, ma nuoce alla tua famiglia, non farla.

— Se cosa alcuna giova alla tua famiglia, ma nuoce alla tua Patria, non

farla.

— Se cosa alcuna giova alla tua Patria ma nuoce all’Umanità, non

farla.

Queste esortazioni mazziniane che propongo alla Vostra meditazione più

profonda, contengono praticamente già tutta la risposta alla domanda che è stata

fatta. Ma poiché siamo qui riuniti in sede di apprendimento, desidero approfondire

con maggior dottrina i concetti contenuti in tali esortazioni onde poter tracciare,

almeno per grandi linee, il metodo più nostro, più italico, più mediterraneo, più

europeo e quindi a noi più congeniale del «fare».

Quanto all’oggetto del fare, lo abbiamo già individuato in questi tre grandi

soggetti-oggetti del discorso mazziniano: io, la mia famiglia, la mia patria,

l’umanità. Fra questi, l’infinita teoria delle tribù, dei clans, delle nazioni ed

anche, perché no, delle infinite religioni, confessioni, scuole, eserciti,

corporazioni e squadre di calcio.

È necessario ci si decida finalmente ad inserire nella nostra propedeutica

con valore di concetto essenziale, la «PERSONALITÀ». Ed avviene, vedete, che

mentre altrove si considera essenziale per l’educazione la «costruzione» della

personalità, qui, da noi, e fra coloro che intendono, si proponga l’impegno di

distruggerla.

Che ciò non vi sia di scandalo. .

Personalità significa separatività. Ed esiste appunto per causa della

personalità, la separatività fra uomo e uomo; per causa delle personalità di gruppi,

la separazione fra gruppi. È dunque un male la personalità e sono nell’errore

coloro che ne raccomandano la costruzione? No. La personalità in sé non è male,

ma anzi indispensabile al movimento evolutivo dell’uomo e dei gruppi. È giusto

quindi, quando essa non esista, raccomandarne la costruzione,

L’errore sta nel suo perdurare. Nel suo perdurare si alimenta l’effetto

antiumano della separatività?

A che cosa rassomiglieremo dunque questa personalità?

Ecco: all’artista è stata commissionata una campana; essa deve apparire

bella, armoniosa di linee e ricca di valori artistici, ma deve altresì dare suono

stupendo, pieno di espressività; forte e glorioso affinché annunci la Resurrezione

al di là dei monti e delle vallate, dolce e consolatore per rasserenare chi soffre.

Come procederà l’artista? Prenderà la terra più adatta e la macinerà

passandola e ripassandola fra i rulli affinché giunga all’impalpabilità senza scorie

o corpi estranei. Poi l’impasterà in giusta dose con acqua pura, affinché l’argilla

non abbia a marcire, Poi inizierà l’opera. E tutta la sua arte, la sua fatica, la sua

maestrìa verranno dedicate ad esprimere quanto di meglio possibile. Quando la

forma dopo il lento, naturale prosciugamento, sarà pronta, ben spazzolata e

rifinita, l’artista solleverà dalla fornace il crogiolo nel quale avrà fuso la perfetta

lega di bronzo e ne riverserà il contenuto incandescente nella forma. Infine,

quando il metallo sarà perfettamente rassodato, che farà l’artista? Prenderà il

mazzuolo e con alcuni colpi bene aggiustati spaccherà lo stampo di creta, frutto di

tante fatiche.

Così dev’esser fatto per la personalità perché è tanto ridicolo portarsela

appresso quando se ne è riconosciuta la funzione, quanto lo sarebbe lasciare la

campana avvolta nelle creta che l’ha formata e pretendere che essa suoni.

E attraverso la personalità che l’uomo, uscendo dalla notte delle epoche, ha

stabilito sopra il mondo delle forme la propria autorità. .Solo per il trionfo dell’io,

il capripede si raddrizza ed il centauro si separa — mediante il plesso solare —

dalla bestialità originale.

Infatti, la legge degli uomini nell’umanità è quella di essere simili, ma -non

uguali; è in questa simiglianza di fratelli e disuguaglianza di personalità che si

gioca l’avventura umana poiché l’uomo è ciò che è, ma sul piano dell’esistenza è

anche ciò che appare e sul piano dell’esistenza, come ben fu detto in questa stessa

Officina da un Venerabile Maestro, la legge d’equilibrio è legge di contrasti e se

non v’è emulazione si avrà antagonismo. È appunto in questa lotta che la

personalità diventa lo strumento indispensabile per la conquista. Soltanto colui che

identificandosi dal branco si sentì superiore alla bestia, affermò su di essa il

dominio dell’uomo. E così fu via via cacciatore, guerriero, capo e stregone,

padrone e schiavo, legionario e plebeo, re e suddito, sicario e giustiziere, carnefice

e vittima. Ed ogni volta fu lo stesso uomo, simile ma non uguale agli altri che si

pose sul volto una maschera diversa con la quale recitare una commedia o un

dramma o una tragedia.

L’errore nacque allorché l’attore dimenticò d’esser tale ed affondò sempre

più profondamente nei panni del personaggio sino ad immedesimarsene

dimenticando che ad una certa ora cerone e trucco e maschera van tolti.

Personalità viene infatti da «persona», termine latino col quale si designava

appunto la maschera che gli antichi attori si ponevano sul volto per recitare: era

per lo più formata in terracotta e fatta in modo da amplificare e trasformare le

voci. Persona, vuoi dire appunto «tramite di suono».

Quante maschere l’uomo si porta appresso? Non -le mettiamo e togliamo

volta a volta a seconda delle passioni che si agitano in noi? Ed è così facile

toglierci la maschera fondamentale, la personalità più profonda, quella che rimane

tenacemente sui nostri volti anche se mutiamo quelle più o treno temporanee che

portano impressi i segni, come già dissi, del clan, della tribù, della nazione, della

regione e della città, della confessione religiosa cui appartengo, dell’associazione

o dell’ordine che frequento… anche di questo…?

No! Non è facile. Non è affatto facile. Perché il «fare» sappiamo ormai che

significa prendere il mazzuolo fortemente in pugno e distruggere con esso colpo su

colpo tutto il lavoro che abbiamo fatto.

ll mazzuolo è la virtù.

Dice Platone nel mito di Er.: «le anime, prima di incarnarsi, sono condotte a

scegliere il modello di vita cui poi rimarranno legate (qui vengono alla mente le

concezioni vediche e post vediche del Samsara ed il giudizio dei Maestri del

Karma)». E continua: «per la Virtù — annuncia la Parca Làchesi —, non ci sono

padroni; ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà». E

altrove soggiungerà: «ciascuno è l’autore della sua scelta: la divinità è fuori

causa». (Rep. X, 617 e).

Identificheremo perciò nella personalità non il nemico da distruggere ma

l’amico spesso scomodo, spesso tormentante e tormentoso che ci fece uscire dalla

spelonca, che ci fece incontrare il fuoco e che col fuoco delle passioni marchiò la

nostra carne dopo averla tolta dall’innocenza degli istinti. L’amico ora subdolo ora

persuasivo che ci fece innalzare troni, per poi farceli distruggere; che ci fece

erigere altari per sacrificare a ‘dèi falsi e bugiardi vittime innocenti, ecatombi ed

olocausti.

Ora l’uomo queste cose le sa. Sarà beato se attuerà il più alto insegnamento.

Alla cui base stanno le quattro virtù cardinali: la temperanza, la prudenza, la

fortezza e la giustizia, Anch’esse, come le tre càriti figlie di Giove, presiedono

alla bellezza ed all’armonia della natura e della vita umana.

Per esse, la personalità si svuota di ogni contenuto belluino o passionale.

Per esse si appresta a vedersi solo ed ormai mutile guscio nel quale si affievolisce

l’eco di tante esperienze.

La TEMPERANZA è la Virtù, sia individuale che collettiva, più necessaria.

Per essa l’uomo impara ad eliminare dalla parola e dal pensiero l’iracondia e

moderando l’espressione delle sue parole, trasforma ogni contrasto in azione

pacifica. Per essa l’uomo è LIBERO: la facondia oratoria del più abile demagogo

non può mutare il corso del suo pensiero. Per essa l’uomo assiste agli errori

dell’uomo senza giudicare, ma con pietà e comprensione. Per la temperanza

l’uomo corregge l’uomo senza alterigia e cerca di ottenere i frutti di questa

correzione fuori di ogni coercizione. Per la temperanza l’uomo non è più schiavo

del mangiare, del bere, del vestire o lei frequentare; si acconcia ad ogni cosa ben

sapendo che una cosa è il vestito e altra il corpo, una il corpo e altra l’anima.

Per Virtù della, temperanza l’uomo è PACIFICO e per questo dominerà

legittimamente la terra.

La PRUDENZA. Per essa l’uomo pondera attentamente il suo ,dire e

controlla ogni sua passione. Non offende alcuno né si espone ad essere offeso.

Prima di sposare una qualsiasi causa o di farne propaganda si assicura che quella

causa o quell’idea è veramente retta in ogni sua parte. Per Virtù di prudenza

l’uomo sorveglia la propria parola ed il proprio scritto e più che parlare ama agire.

Per la prudenza l’uomo è sempre presente a se stesso e controlla e vigila

affinché non entri in lui alcun appetito disordinato. Per la prudenza l’uomo è certo

di mantenere la parola data a qualunque costo, anche a quello della vita in quanto

egli non si impegna se non dopo lunga meditazione. Prudenza, come vita collettiva

è nemica dei facili entusiasmi ed è contraria a qualsiasi separazione di parte, di

casta o di censo, sia essa o meno istituzionalizzata in partiti di qualsivoglia colore

o in gruppi di qualsivoglia potere.

La prudenza scorda le parole ma indaga e si conferma nel pensiero.

Riassume se stessa in bontà, gentilezza, cortesia, fraternità.

La FORTEZZA. Per Virtù della fortezza l’uomo non segue ogni mutamento a

seconda che gli giovi o lo danneggi. Egli è fedele alla sua coscienza e non ne

rinnega gli imperativi per minacce, violenze, lusinghe o imposizioni. La fortezza

induce alle privazioni ed alle lotte, fa l’uomo sereno del dolore e calmo nella

sofferenza.

Per Virtù della fortezza l’uomo non recede per tentazione alcuna dai suoi

proponimenti; sopra il piacere pone il dovere e sopra il lucro il bene operare,

L’uomo forte non calpesta il debole, non umilia chi è umiliato, non opprime gli

oppressi. Egli zela la legge e la difende innanzi a chiunque senza temere i potenti

della terra né curare le lusinghe della ricchezza. Per Virtù della fortezza l’uomo

segue il proprio ideale sino alla morte et ultra, Fortezza è uguale a pazienza. Saper

pazientare, saper soffrire serenamente.

La GIUSTIZIA. Per Virtù della giustizia l’uomo è attento e scrupoloso

affinché il fratello non abbia a subire da lui danno alcuno. Cura di obbedire ad

ogni legge, anche alle più dure e si adopera a mutarle in meglio solo a costo del

proprio personale sacrificio.

Per Virtù di giustizia l’uomo non è aspro nel rimprovero né duro nel

comando e non esige dagli altri più di quanto non esiga da se stesso. Per virtù di

giustizia l’uomo paga i propri debiti morali e materiali e cura di non contrarne

altri,

Per Virtù di giustizia non lesina la mercede a chi lavora per lui e cura di non

nuocere agli altri con l’esempio disordinato.

Ha pietà per ogni colpa commessa da altri ed in essa cerca sempre

l’attenuante o la giustificazione.

Per Virtù di giustizia l’uomo elegge essere colpito anziché colpire, non

rifiuta la sua vita all’idealità più alta e mantiene i propri impegni ad ogni costo.

Per Virtù di giustizia l’uomo è fedele al suo Dio, alla sua Patria ed alla sua

coscienza.

Una risposta ad una domanda semplice: «che si deve fare?». Con queste

parole non si è certo data risposta ad ogni domanda. Però da queste già si può dire:

«chi ha orecchie per intendere, intenda».

La risposta agli altri «perché» è già dentro di ognuno di noi.

TAVOLA DEL FR.’. M. B

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