CHI ERO, CHI SONO, CHI …
Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,
questa mia tavola è il tentativo di analizzare, attraverso la introspezione, il mio
passato nell’Istituzione al fine di verificare, se possibile, il cammino percorso dal lontano 1962.
Essa è nata in un momento particolare, momento che ha sollecitato la verifica
cosciente che desidero portare a voi tutti.
Non presumo, nemmeno per un istante, che possa essere un modello didattico
che la mia deformazione professionale potrebbe mettere in luce, né, tanto meno, un atto di presunzione; è soltanto ciò che una sera ho sentito e che tento di comunicare.
Tra il mezzogiorno e la mezzanotte di una recente tornata, mentre il carissimo
Fratello Mario esponeva una sua tavola, il pensiero mi prese la mano, come un cavallo imbizzarrito, è mi costrinse a ripercorrere il tempo.
Ricoprivo la carica di Secondo Sorvegliante proprio mentre il Fratello Mario
scolpiva un suo lavoro e mi ricordo che alcune sue osservazioni non erano gradite al mio sentire e mi arrecavano un senso di disagio.
Non ero dunque allora disponibile ad accettare un mio Fratello, con i suoi pregi,
con i suoi difetti, con le sue convinzioni e forse lo respingevo, allontanandolo dal
partecipare al mio convivio spirituale.
Certamente un schermo, una paratia, era calato a separare il mio dal suo lavoro di
ricerca.
Le nostre vie erano assolutamente diverse anche se tendenti ad uno stesso fine; e
ciò non è un male, non è il lato negativo; mentre è assolutamente grave il fatto che io fossi recalcitrante nell’accettare, nel tollerare, nell’essere veramente Fratello,
La mia vita cingeva il grembiule del 3° grado, ma inopinabilmente la maturazione mia non era quella che si addice al Maestro; nel profondo del mio “io” ero certamente ancora carico di metalli. Lungo la via della ricerca il passo era ancora incerto, pesante, faticoso, come quello dell’atleta che stenta nel coordinare e rendere sincrono il respiro e il movimento.
Molti gli ostacoli da superare, ma in primis occorreva liberarsi da quello che più
di ogni altro si oppone alla ricettività, quello che spinge l’uomo a rinchiudersi nel suo
bozzolo, quello che fa sollevare gli scudi e gridare allo scandalo: “la supervalutazione di se stessi”; la mancanza di umiltà, di carità, il peccato di vanagloria che spinge al
compiacimento di noi stessi, il rifiutare amore all’umanità.
E tutto ciò è segno di ignoranza che caratterizza nell’individuo le stigmate di una
inferiorità psichica e psicologica, tanto da renderlo giustamente inviso ai propri simili. IO, il Fratello Augusto, colui al quale l’Officina aveva affidato il compito di
sorvegliare e garantire la bellezza del lavoro, ero confinato in questa profonda prigione del vizio.
Non ero ancora riuscito a concepire che da ogni parola, da ogni gesto, dall’agire
dei miei Fratelli, convinti, entusiasti e pieni d’amore, si partiva un messaggio, veniva
lanciata la gomena che il naufrago anela ricevere.
Tutte queste riflessioni arrovellavano la mia mente e pesavano sul mio cuore
mentre il Fratello Mario leggeva ed illustrava col suo dire.
Ma quella famosa sera, durante la veloce introspezione, ho rivisto l’iter della mia
vita nell’Istituzione e mentre progredivo nel tempo sentivo che il concerto nascente
dall’armonia del lavoro nell’Officina diventava sempre più gradito al mio udire; sentivo che le emozioni provate dai Fratelli miei erano sempre più le mie emozioni, provavo gli stessi entusiasmi, concepivo gli stessi dolori, le medesime frustrazioni, le esaltazioni e le gioie, mentre il cosmo del tempio perdeva ogni dimensione temporale e svaniva nell’intangibile.
Questo novello “status” che colmava, se pur in esasperante lentezza, gli spazi
imperfetti del più intimo essere mio, donava a tutto me stesso una nuova dimensione sulla concezione dell’essere, del vivere, del porsi nei confronti del prossimo, dal più intimo al più remoto; dimensione che si faceva sempre più aderente a quei canoni di fratellanza, di uguaglianza, di tolleranza che da soli dovrebbero governare la pace spirituale e materiale dell’Umanità,
Oggi, nel rivolgermi a considerare il cammino percorso, nel constatare la gravosa
imperfezione che ancora regna nel mio “Tempio”, rivedo la desolata plaga che fu la base di partenza del mio viaggio, riconosco le tappe che diedero fiato al mio cammino – furono solo oasi ristoratrici -, prendo coscienza che l’orizzonte si è appena fatto più vasto ed in me sento fremere un quid che mi sollecita, che mi sospinge, chi mi pungola, che misi rivolge in un continuo sussurrio di suoni, a volte intangibili, a volte arcani.
Forse ora sono più fratello, poiché riesco a balbettare nel lavoro comunitario
cercando di comunicare, di recepire, di analizzare, di comparare, ma lo sono soprattutto per la presa di coscienza di una prima realizzazione, quella che mi consente di riconoscere i miei simili come fratelli, come coloro che con me necessitano dell’opera altrui, come coloro che con me anelano lavorare nella totalità degli insiemi al solo fine di realizzare sempre più profondamente ed intimamente se stessi.
“La gloria di Colui che tutto muove” vuole l’Umanità scientemente avvinta dal
vincolo della discendenza divina e tendente con costante ascesa verso la costruzione del Tempio, di quel Tempio che dal singolo trae le pietre erigenti, ma che dalla fraterna operosità trae quelle angolari che rendono incrollabile la costruzione.
Fui Apprendista, sono Compagno, cingo il grembiule di Maestro, riuscirò ad
esserlo veramente? Saprò unirmi al coro degli eletti che percepiscono imminente la
Luce?
Forse un giorno!
Quel giorno mi dirà la tua mente è vicina, la pace dello spirito è in te, la conoscenza ti appartiene.
Quel giorno sarò Maestro,
Che il Grande Architetto dell’Universo guidi il mio agire e voglia mantenere in
me la sua immagine sempre meno latente, sempre più viva e splendente.
TAVOLA DEL FR.’. A . C.