L’ODISSEA DELLE CARTE PROCESSUALI DI GALLEO GALILEI
di Rinaldo Pitoni
Jules Michelet nella sua Histoire de France lamenta che ai suoi
tempi gli Archivi Nazionali, di cui egli era direttore, fossero stati privati
di gran parte dei documenti che prima contenevano. Stringe il cuore, egli dice, di vedere vuote le stanze sulle quali è ancora scritto Dataria,
Congregazione dei Riti, Inquisizione,…
A spiegare questi lamenti dell’illustre storico, giova ricordare che
quando la Repubblica francese fece la sua seconda spedizione in Italia,
dopo avere occupata Roma ed avervi proclamata la repubblica, i
Francesi vuotarono letteralmente gli Archivi Vaticani, incassarono tutto
con molto ordine e molta cura e spedirono ogni cosa a Parigi, dove tutto
fu riordinato in apposite stanze con le iscrizioni sopra riferite. Gli
Archivi Vaticani rimasero così a Parigi fino alla restaurazione, cioè fin
dopo il 1815, quando il Papa spedì mons. Gennaro Marini a riprendere
ogni cosa e tutto fu restituito ad eccezione del volume contenente le
carte del secondo processo di Galileo Galilei.
Inutili furono le insistenze di mons. Gennaro Marini, Nunzio
Apostolico, il quale veniva rimandato da Erode a Pilato, dal Ministro
degli Affari Esteri al conte di Blacas, e da questi ad altri personaggi
della Corte sotto vari speciosi pretesti, finché dopo due anni di
tergiversazioni mons. Marini dové tornare a Roma senza il prezioso
processo.
Il volume, o incartamento processuale che dir si voglia, era già
stato letto con molta attenzione da Napoleone I il quale lo aveva anche
qua e là postillato e più volte nei suoi momenti di stizza contro il
Pontefice, aveva minacciato di pubblicarlo per intero. Anzi la
pubblicazione fu incominciata e poi sospesa. Un foglio o due già
stampati si devono trovare alla Biblioteca Mediceo-Laurenziana.
Scomparso Napoleone il processo passò nelle mani di Luigi XVIII,
che, secondo il conte di Blacas, se lo era portato nella propria camera e intendeva di leggerselo anche lui. Morto Luigi XVIII il processo passò
nelle mani di Carlo X, il quale, arse anche lui dalla voglia di farsi
leggere il famoso processo e oppose un costante rifiuto alle reiterate
insistenze della Corte di Roma,
Fece anzi di più. Quando fu costretto a fuggire a Gorizia per la
rivoluzione del luglio 1830, sua prima cura fu quella di portarsi via il
processo del Galilei. Soltanto dopo la sua morte, il conte di Blacas tornò
a Parigi col processo e lo consegnò a Luigi Filippo. Questi cedette alle
preghiere del Papa e restituì quell’incartamento che, a quanto sembra,
era allora assai più voluminoso di quello che oggi non sia e si
comprende: nessuno potrebbe dire infatti per quante mani quelle carte
siano passate, né si può affermare con sicurezza che tutti abbiano
rispettato i documenti raccolti.
La voglia di possedere un documento raro, di togliere di
circolazione un qualche cosa che potesse dare noia all’autorità religiosa
o qualche altro motivo di vario genere possono avere spinto aduna
sottrazione che nessuno in questi casi sarebbe portato a considerare
come un furto vero e proprio.
Pio IX, ricevuto il prezioso manoscritto, se lo portò anche Lui nella
propria camera e lo tenne fino a quando, dopo l’assassinio di Pellegrino
Rossi, sotto la minaccia di essere fatto prigioniero dai rivoluzionari,
non fu costretto a fuggire da Roma. Ebbene, sua prima cura, uscendo
dalla propria camera, fu di mettersi sotto il braccio il processo di
Galileo e di consegnarlo, prima di montare in carrozza, nelle fidate mani
di mons. Marino Marini, nipote di mons. Gennaro.
Quale interesse presentavano mai quelle famose carte se un
Imperatore della statura di Napoleone I, se due re devoti alla Chiesa,
avevano sempre rifiutato di privarsene, se lo stesso pontefice, nell’ansia
crudele della fuga, spese alcuni minuti, che potevano decidere della sua
libertà personale, nella ricerca di quel processo che certamente non
poteva essere lasciato sull’inginocchiatoio prossimo al capezzale come
un libro di preghiere e nel chiudere il ripostiglio dove egli lo
conservava?!
Si giustifica pienamente la cura di Pio IX a voler sottrarre il celebre
processo agli occhi indiscreti dei nemici della Chiesa, ma per
contrapposto non si comprende come mai per oltre trenta anni i
possessori di quelle carte avessero sempre rifiutato di consegnarle al
loro legittimo proprietario quando si osservi che, messo fuori causa
Napoleone I, gli altri due erano clericaleggianti.
Bisogna di necessità ammettere che in quel processo si contenesse
qualcosa di molto ostico per l’inquisizione, ossia per la Chiesa, e che i
re di Francia lo tenessero come un’arma da adoprare per ottenere dalla
Chiesa qualcosa di grande interesse per loro. Che cosa abbia ottenuto
Luigi Filippo da Pio IX patteggiando la restituzione del processo, non
sappiamo, ma certo il do ut des è di regola fra potentati come fra umili
privati.
Mons. Marini, prefetto degli Archivi segreti della S. Sede e prelato
domestico di Pio IX, conservò gelosamente il processo, se lo lesse, egli
dice, con molta attenzione e nel 1850 pubblicò due memorie lette
all’Accademia Romana di Archeologia per assicurarci che nulla, proprio
nulla, assolutamente nulla c’era nel processo che potesse far torto alla
Inquisizione. A sentir lui Galileo fu trattato con due paia di guanti, gli
si usarono i maggiori riguardi e se fu costretto ad abiurare in camicia,
tenendo in mano la candela accesa dinanzi ai membri del tremendo
tribunale, questo era il rito e non si poteva fare alcuna eccezione.
Ora, dal momento che nulla c’era contro l’Inquisizione, come ci
assicura mons. Marini, perché non pubblicare, senz’altro il processo?
Non era questa la miglior maniera di chiudere la bocca a tutti coloro che, nemici della Chiesa o semplicemente critici in buona fede, affermavano che la tortura era stata inflitta al Galilei? Non so se qualcuno abbia fatta questa osservazione a mons. Marini, qualcuno dovrà certo averla fatta, ma là risposta non venne.
Ma un fatto nuovo era avvenuto. Durante la Repubblica Romana il prof. Silvestro Gherardi, fisico e matematico, poté introdursi negli
Archivi Vaticani e mettere le mani sopra i volumi che contenevano gli
appunti presi dal fiscale della Inquisizione alle sedute dello stesso
Tribunale e che servivano per stendere i verbali di quelle sedute. Il
Gherardi trovò così molti degli appunti che si riferivano al processo
famoso e ne prese copia e quando gli fu possibile (egli fu poi Preside
dell’Istituto Tecnico di Bologna e di quello di Firenze) li dette senz’altro alle stampe.
Era intanto avvenuta la pubblicazione di quel processo per opera di
Paolo Geber, austriaco e cattolico a cui il Papa aveva concesso di
poterlo esaminare e pubblicare per la prima volta, a perpetua vergogna
di tutti coloro che facevano colpa ad Urbano VIII di avere ordinato che
si infliggesse la tortura allo scienziato, reo di voler sostenere il moto
della terra intorno al sole, negando così i noti passi del libro di Giosué,
dell’Ecclesiaste e dell’Ecclesiastico, mentre la Bibbia, diceva Urbano
VIII, era stata scritta ex ore Dei.
Ma la pubblicazione del Gherardi venne a dimostrare che non tutto
il processo era stato pubblicato. Parecchie cose vi mancavano ed allora
seguì la pubblicazione più completa fatta da Domenico Berti e infine
quella più recente di Antonio Favaro e Isidoro Del Lungo, per grazia
speciale di Leone XIII. I due ultimi confessano nella prefazione che si
tratta soltanto di ciò che rimane del processo di Galileo e che ormai non
è più possibile parlare dell’integrità del processo stesso.
In questo articolo abbiamo voluto soltanto ricordare le vicende del
processo galileiano. Perché questo processo sia stato mutilato e come
alcuni hanno asserito in più parti falsificato, giudichi il lettore come
meglio gli aggrada. Noi non vogliamo entrare nelle ragioni ora assurde
ora ridicole degli apologisti di una causa perduta. Ci vorrebbe un
volume e basti pensare che mons. Marini cita un passo di quel famoso
zibaldone che sono i Pensieri diversi del Tassoni per dimostrare con
questa alta autorità il torto del Galilei, a sostenere il moto della terra.”
Dove poi gli apologisti hanno assolutamente torto è quando affermano
la dolcezza usata dalla Chiesa verso i reprobi e specialmente verso il
grande scienziato, che secondo tutti loro, dal Marini al Wohlwill, il
Galilei fu sempre trattato con singolare bontà e perfino indulgenza dalla
Corte di Roma.
Se ne più di chi un, po. Quando. il tremendo tribunale
dell’Inquisizione a cui non potevano opporsi né principi né imperatori,
chiamò a sé il pregiudicato Galileo, nulla valsero per ottenere una
dilazione, né i buoni uffici del granduca, né il referto dei medici sulle
gravi condizioni del vecchio scienziato, né i pericoli di un lungo
viaggio, mentre tutta Italia era infestata dalla peste – quella stessa che
il Manzoni descrisse ne i Promessi Sposi. Urbano VIII, inflessibile,
fece rispondere che ove il presupposto reo contro la fede recalcitrasse
ancora, fosse senz’altro incarcerato e trasportato a Roma in ferri. Come
inizio di un trattamento gentile non c’è mica male.
Ma, si dice, piegatosi il Galilei ai voleri del Papa, che del suo
operare egli solo è giudice, le cose mutarono è il Papa si ammansi.
Concesse, che il Galilei abitasse a Villa Medici, lo fece chiudere nelle
carceri dell’Inquisizione in luogo salubre, il tempo appena necessario
per le pratiche processuali e dopo l’abiura generosamente lo rilasciò.
Ed infatti resulta che proprio Urbano VIII presiedette più volte il
tribunale dell’Inquisizione, così come Clemente VIII fece a proposito
di Giordano Bruno, e prima di andarsene in villeggiatura ordinò che al
Galilei fosse comminata la tortura. Altro indizio anche questo delle
ottime intenzioni del Papa verso il vecchio infelice.
Quanto ai bei locali occupati a Villa Medici e nelle carceri
inquisitoriali, si tratta di affermazioni fatte a gran distanza di tempo e
dai paladini della Corte di Roma; per chi ha pratica di processi politici
e ascolta i testimoni pro e contro può giudicare dell’attendibilità che
meritano le testimonianze interessate. Gli amici di Galileo, suoi
coetanei, tacciono su questo punto.
Ma fu veramente inflitta la tortura a chi allora era onore d’Italia e
decoro del suo tempo? Nella « Revue des questions Historiques »,
pubblicazione dell’Università Cattolica di Lovanio del 1910-1912,
apparve uno studio di un signor Leone Garzend, il quale sulla scorta di
molti codici del diritto ingisitoriale volle dimostrare che la tortura non
poteva essere stata inflitta: 1° per l’età; 2° perché convinto d’eresia; 3°
perché non era digiuno il dì della condanna.
Non ho potuto controllare le affermazioni del Garzend sui vari
codici che egli cita, ma ho sott’occhio il Sacro Arsenale (!) ovvero
Prattica dell’Officio della S. Inquisizione, con l’inserzione di alcune
regole fatte dal P. Tomaso Menghini Domenicano e di diverse
annotazioni del dott. Giovanni Pasqualone, fiscale della Suprema
Generale Inquisizione di Roma (Roma, 1693), nel quale non si trovano
le eccezioni sollevate dal sig. Garzend e dove si dice ancora che la
tortura non disdice alla mansuetudine evangelica, perché anzi conviene
al reo convinto di eresia, in quanto la pena corporale purga l’anima dal
suo peccato.
E il Pasqualone aggiunge che il venire al rigoroso esame, come è
scritto nella sentenza del 22 giugno 1633, significa avere applicato la
tortura, come sostenne Domenico Berti. Ma il Garzend sostiene che
neppur questo è vero, lasciando libera l’ipotesi che le parole furono
inserite nella sentenza, per spaventare gli scienziati del tempo, poiché
la sentenza fu letta in quasi tutte le chiese, inviata a tutte le Corti e
promulgata in Santa Croce dinanzi agli amici e allievi del Galilei
appositamente convocati.
Il Garzend vorrebbe anche distruggere l’ipotesi che la tortura fosse
stata anche minacciata, che cioè il Galilei fosse stato legato nudo alla
presenza del carnefice e degli strumenti del supplizio e che gli fosse
dato uno zuccherino, cioè un colpo a posteriori improvviso, come
parrebbe dalla ematuria di origine renale di cui soffrì poi il Galilei,
secondo quanto osservò il Gherardi.
Dopo la scoperta della lettera dell’inquisitore Maculano al nipote
di Urbano VIII, nella quale egli chiedeva di essere autorizzato a
intrattenersi da solo col Galilei, affermando che sarebbe riuscito a farlo
ritrattare, possiamo ben ritenere che il Maculano avrà cercato di piegare
l’animo del Galilei facendolo riflettere sui pericoli che la Riforma
faceva correre alla fede e dipingendogli come ultima risorsa i gravi
tormenti che erano a disposizione del Sacro Arsenale. Così la fede del
cattolico e la debolezza della senilità cospiravano insieme. Ma le parole
del Galilei ai suoi giudici in quel memorabile 22 giugno suonano come
tremenda accusa contro di loro: « Io sono nelle loro mani; facciano di
me quello che loro credono ».
Quanto al resto come all’affermazione ripetuta da Augusto Conti 4
che Galileo, uscito di carcere se ne andò a Villa Medici svelto e franco
come un giovanotto, sono di quelle bugie interessate a cui nessuno può
credere in buona fede, poiché nessuna risposta è possibile dare a questa
semplice domanda: Se fosse stato vero, come affermò nel 1850 mons.
Marino Marini che nulla, proprio nulla, assolutamente nulla esiste nel
processo che possa nuocere al decoro della Chiesa e dell’Inquisizione,
perché non pubblicare allora per intero tutto quel processo, senza
attendere ulteriori manomissioni e falsificazioni, proprio allora in cui le
ire dei liberali avvampavano più forti contro la Corte di Roma?
E nella mia Storia della Fisica (Torino, 1913, pag. 129) dicevo: « E
come giustificare la tortura morale implacata e implacabile che rimane
documentata insieme alla persecuzione fin dopo la morte del grande
filosofo? »
Rinaldo Pitoni