DI ANTONIO BINNI
Questo testo è dedicato ai «veritatis cultores, fraudis inimici». L’espressione «fare la verità» ha varie attestazioni nei Vangeli e nelle Lettere. In quanto tale, è oggetto di una ermeneutica biblica. Agostino la fa propria a sua volta nel primo paragrafo del Libro X delle Confessioni. Il che non deve destare affatto meraviglia, perché il testo che ha reso celebre il Vescovo di Ippona altro non è che un intreccio di citazioni tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. L’espressione «fare la verità» è formula suggestiva e intrigante, dal momento che già prima facie l’accento posto sulla azione rende palese l’allusione a qualcosa che in precedenza non c’era, a un’opera materialmente fabbricata. Il che a sua volta sottende che la verità non si può acquistare sul banco di un mercato, perché non è un dato di fatto esistente in natura, come i lampi e i tuoni, considerato che va appunto «fatta», cioè realizzata. Il che, com’è evidente, implica un processo, alla cui origine c’è la volontà di verità, che solo dopo una lunga e faticosa rielaborazione raggiunge la verità, intesa come risultato ed epilogo di un percorso lastricato di non verità. Solo superando la non verità si consegue infatti la verità intesa come l’alloro che incorona il vincitore. L’espressione «fare la verità» rivela inoltre, da subito, che quel fare ha un costo che si deve essere disposti ad accollarsi. Un costo spesso eroico, dal momento che talvolta comporta una lotta corpo a corpo, talaltra invece del tutto lieve, risolvendosi l’operazione di verità in un semplice accertamento, come avviene, ad esempio, per le c.d. verità evidenti, del tipo «la pioggia bagna». Nella moderna filosofia il soggetto ha una importanza decisiva. Non v’è tuttavia necessità di far ricorso a questo insegnamento, del tutto consolidato, per comprendere il fatto che «fare la verità» postula un soggetto. Un soggetto dal cuore puro che si fa carico del processo veritativo, quanto dire una parte diligente nella operazione di «fare la verità». La verità comporta però un indirizzo, e non avrebbe senso se, oltre al soggetto agente, non registrasse un soggetto destinatario, che potrebbe essere anche lo stesso operatore di verità, come avviene quando si apre il colloquio con la propria coscienza. Ciò posto, dobbiamo ora chiederci cosa si intenda per verità. Secondo l’insegnamento tradizionale, la verità è corrispondenza della proposizione alla cosa. Accogliere questa teoria, per quanto difficile a precisarsi, diviene poi inevitabile, avuto riguardo alla sede alla quale sono destinate le nostre odierne riflessioni. Ad altrimenti contenersi si finirebbe infatti inevitabilmente per uscire dal seminato. Siamo poi del tutto consapevoli che la scienza è la migliore approssimazione della verità. La realtà è però enormemente più vasta degli ambiti trattati dalla scienza della natura. Si deve pertanto riconoscere che la verità non coincide necessariamente con le verità scientifiche. Ci sono infatti moltissime forme di verità perfettamente legittime che non hanno niente a che fare con la scienza. Per concludere: la realtà non è necessariamente qualcosa di raro, per essere invece il più delle volte una esperienza comune. Quando si fa la verità, all’evidenza, non si fabbrica la verità ma, all’opposto, il modo del suo farsi. Come a dire che vanno indagati gli atti che si compiono quando viene attuato il processo veritativo. Non si deve, tuttavia, pensare alla esistenza di un qualche mitologico «metodo scientifico», come se ce ne fosse uno soltanto, per di più infallibile e perciò idoneo ex se ad escludere tutti gli altri. L’idea di un metodo destinato a ottenere con certezza risultati veri è un sogno della prima modernità, da cui ci siamo svegliati da tempo. È vero invece che quello dei mezzi, al fine veritativo perseguito, è tema di libertà e fantasia, non esistendo una ars inveniendi universale. Per concludere sull’argomento si deve così dire: il metodo, per definizione, è ciò che indica la via che occorre calpestare in vista dello scopo avuto di mira. Come tale è ripetibile, mentre il risultato di ciò che viene prodotto attraverso il metodo è molto meno ripetibile di quanto non si desidererebbe, perché il metodo è un «fare», mentre il risultato (che non sempre si ottiene) è un «sapere». Sempre sul piano fattuale è da ultimo opportuno sottolineare che la verità, se non è scritta su di un documento, è destinata a non sopravvivere. Un’ultima chiosa: non è inopportuno sottolineare un dato di fatto inoppugnabile, ossia che ogni verità nasconde un silenzio che va squarciato. Da questo punto di vista la conoscenza altro non è che il passaggio dalla realtà alla verità, fatto in vista degli umani obiettivi. Appurato che la verità abbisogna di un soggetto agente, di una azione, di una documentazione, se non si vuole farla fagocitare dall’oblio, rimane infine da chiedersi a che scopo facciamo la verità, ossia quale sia il suo fine. Così rispondiamo al pensiero interrogante: lo scopo della verità è fare luce non solo nel soggetto che la cerca, ma pure nella comunità dove la verità viene all’evidenza, qui dovendosi rimarcare lo stretto legame fra verità e comunità. Per inciso sottolineiamo che la solidarietà non ha nulla a che fare con la verità. Né si può surrogare la verità con la democrazia, che tanta cattiva prova di sé ha dato allorquando si è tentato di esportarla, né la democrazia con la verità. Oggi si è perso il culto della verità perché si è finito con il considerarla come uno strumento di potere. Il vizio storico che inficia questa opinione è evidente. Ravvisare nella verità un effetto del potere significa infatti delegittimare la tradizione che culmina con l’Illuminismo, un’epoca storica nella quale invece sapere e verità sono stati veicoli di emancipazione, di contropotere, di virtù. Avere affrontato il tema prescelto da quest’ultimo angolo prospettico assume allora un valore ancora maggiore e ancora più significativo, perché si restituisce al vero ciò che è stato travisato. Del resto, una vita senza verità finirebbe per essere noiosa oltre che scomoda, più di un mondo saturo di banconote false. Per finire. Abbiamo volutamente affrontato il tema trattato in termini del tutto diversi da quello tradizionale, completamente incentrato sulla caduta del «velo di Maia», per fare emergere la nascosta verità. Il benevolo lettore vorrà pertanto perdonare l’azzardo, frutto unicamente del desiderio di evitare inutili, noiose, ripetizioni.
TRATTO DALLA RIVISTA MASSONICA “OFFICINAE”