FELICITA’

FELICITA’

di  Eros  Rossi

Fig  1

Tra i sentimenti che caratterizzano la vita umana, la felicità è certamente il più difficile da analizzare, per la complessità di tale sentimento e per le variabili soggettive che alla felicità si legano. Gli esseri umani anelano alla felicità, desiderano percorrere il duro cammino dell’esistenza in armonia, nella gioia, realizzando le loro aspirazioni e vivendo al meglio la loro vita; ma come potrebbero vivere e sentirsi attivi e padroni di loro stessi, se dovessero agire nel dolore o nella desolazione?                                 

        Alcune morali, come quella cristiana, hanno incoraggiato l’autorepressione o la coltivazione d’alcuni sentimenti, come quelli   di  mitezza  e  di  compassione,  e  una  disposizione  al

 sacrificio e alla rinuncia o alla moderazione o alla vera e propria soppressione di altri sentimenti, rivolti alla realizzazione della propria natura. Lo scopo di tutto questo dovrebbe essere la virtù o la santità; ma c’è posto, all’interno di questa visione, per la felicità?

        E’ pure vero che noi, esseri umani, non vorremmo neppure essere obbligati alla felicità a tutti i costi, come idealizzato nelle cosiddette società perfette nelle quali si materializzano, come tristi incubi, affermazioni utopiche sull’impossibilità di provare dolore o avere apprensione per il domani o nutrire desideri non realizzati, che possono portare al paradosso di desiderare per sé il “diritto ad essere infelici”!

        Occorre, infatti, per raggiungere la felicità, un contrasto di sensazioni, il passaggio da momenti sereni ad altri più cupi, il confronto tra i sentimenti opposti di gioia e di disperazione.

E’ per questo motivo che la felicità si palesa, spesso, solo per brevi attimi, in modo quasi fugace; la sua condizione, apparentemente acquisita in modo permanente, appare talvolta di una qualità inferiore rispetto all’alone fantastico che ci avvolge in certe rare circostanze. Il ricordo vivissimo di un oggetto particolare, di un volto, di un gesto, di un attimo d’amore, di un piacere intenso balza alla nostra mente e si differenzia da tutto il resto della nostra esistenza, riempiendo completamente il nostro animo.

        Secondo lo psicoanalista Aldo Carotenuto, la felicità si vive soltanto quando si è in relazione con gli altri, mentre si prova infelicità quando si è soli. La felicità ha, infatti, come propria caratteristica  fondamentale,  l’effusività,  ossia   la  capacità  di

portare colui che la sta sperimentando a sentirsi in armonia con sé stesso, con gli altri e con l’ambiente che lo circonda. La felicità può quindi essere vista come un abbraccio, un sentimento accogliente nel quale siamo, contemporaneamente, accolti e accoglienti, abbracciati e abbraccianti; essa è sia un moto di espansione sia un moto d’inclusione.

      La felicità si sviluppa fondamentalmente nell’accoglienza dell’altro, non nella distruzione dell’altro, e quindi nel crescere insieme; se non esistesse questa dimensione di crescita condivisa, si arriverebbe certamente alla delusione. La felicità vista quindi come frutto del saper accogliere, del saper accettare, che perciò non si può produrre in modo strumentale ma sarà sempre raggiungibile solo entrando in sintonia con gli altri.

      Molte volte noi dimentichiamo che la felicità non sta soltanto nelle grandi cose, nella vertigine della grandezza, ma irrompe qua e là, nelle semplici cose della vita.

      Jean Jacques Rousseau, portabandiera di una visione della felicità realizzata con il ritorno alla sintonia con la Natura e con l’innocenza del mondo naturale, scriveva: “Veniamo al dunque. Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo. Eh, no davvero! Noi non siamo preparati, attrezzati per questo tipo d’indagini! No! La cosa migliore è quella di mandare all’inferno i

grandi contesti. La morte colpisce all’improvviso. E all’improvviso

si spalanca l’abisso, all’improvviso infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli. Il male strappa le catene e vaga nel mondo come un cane impazzito e tutti ne siamo

contaminati. Nessuno vi sfugge, perché la vita è fatta così.

E’ questo il motivo per il quale dobbiamo cercare di essere felici e quando lo siamo dobbiamo essere gentili, generosi, teneri, buoni; proprio per questa ragione è necessario e tutt’altro che vergognoso essere felici, gioire di questo nostro mondo, della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore ed anche della musica che accarezza l’anima”.

      Nella ricerca della felicità è quindi fondamentale il saper donare, lo spandere intorno un profumo soave di gioia; in quest’ottica, soltanto chi è realmente ricco è capace di donare e la ricchezza consiste non in quello che si possiede, ma nella volontà di donare quello, poco o tanto, che si ha.

      Occorre abbandonarsi alla felicità, una volta raggiunta, con la semplicità di un bambino, lasciarsi scivolare in essa come se si fosse trasportati da una dolce corrente, tenere per mano e portare con noi le persone amate lasciando che anche loro gustino insieme a noi quel frutto delizioso, sapendo che la sua durata può essere breve, e mettersi alle spalle i momenti tristi della vita che spesso ci aspettano ancora a valle del fiume della felicità, per aggredirci di nuovo.      La Massoneria, con il suo complesso e affascinante messaggio simbolico, rivolto solo agli iniziati, sviluppa nel massone una concezione della vita e del rapporto con l’umanità tesa alla ricerca della sintonia, dell’armonia, della serenità, della gioia, tutte sensazioni che sono chiare espansioni della felicità.

      La  Massoneria  esalta   la  pratica  della  virtù,  non  come

 semplice sacrificio, ma più compiutamente come comprensione e corretta gestione dei propri desideri, come razionale freno alle

pulsioni innate nell’uomo e dovute alla sua materialità, in altre parole come capacità dell’uomo di utilizzare correttamente e sapientemente la propria potenza, la propria libertà. Infatti, virtù deriva dal greco areté, da cui il latino ars, ossia “arte”; possiamo quindi concepire la virtù come l’arte di vivere e, in questo contesto, il virtuoso è felice non perché sarà premiato per i suoi sacrifici,  ma   per   aver  trovato  nella  vita  un   “metodo”  per

raggiungere  la felicità  e sarà la virtù stessa  a dare la felicità  in

quanto fornirà l’abilità per conseguirla.

      La virtù, infatti, è un lievito per la vita del massone, la sviluppa continuamente dal di dentro, la matura, produce una dimensione illimitata di crescita; ma non è nel vertice della crescita che si raggiunge la felicità, bensì nel continuo della vita. In questo senso la virtù è matrice di felicità, perché felice, in senso stretto, può esserlo solo una vita intera, durante la quale gioie e dolori sono funzionali alla crescita. Questa è, a mio avviso, una delle dimensioni più profonde della felicità.

      L’insegnamento massonico spinge a migliorare se stessi, con l’affettuoso aiuto dei fratelli; noi cresciamo, tutti insieme, intimamente e intellettivamente grazie alle nostre abilità, alle nostre virtù, alla capacità di modulare l’esistenza, al reciproco dono che ci scambiamo con il nostro vivere. Il viaggio iniziatico si colora di momenti nei quali riusciamo a vincere, a superare gli ostacoli, a lenire il dolore, a percepire che la felicità non si trova nell’esterno, ma nel profondo dell’animo e nella costante opera di

far lievitare infinitamente la propria vita.

      Vale la pena di citare, in questo contesto, un pensiero di Nietzche:

Non  bisogna  interpretare  la  felicità  soltanto  come soddisfazione. L’uomo è felice non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria”. La soddisfazione è un’idea sonnolenta della felicità, la quale invece va interpretata come ascesa, come capacità di vincere il proprio dolore; allora nel superare se stessi, nel rafforzarsi attraverso la sofferenza si ha un’idea più alta e più forte della felicità, che cessa di essere quella dell’attimo perché titolare della felicità diventa la vita intera.

      Vorrei chiudere questa mia tavola con una sublime poesia di Eugenio Montale, nella quale, con la splendida capacità di sintesi del poeta, si avverte tutta la fragilità e la precarietà della felicità tanto faticosamente conquistata:

“Felicità raggiunta

si cammina

per te sul fil di lama.

Agli occhi sei

barlume che vacilla

al piede teso

ghiaccio che s’incrina”

Citazioni “citabili”

(dagli elaborati premiati nel Concorso della Loggia dal titolo “FELICITA’ E’…….)

“ Felicità è qualità interiore, è libertà, è provare gioia nel dare, è uno spazio non circoscritto come il mare, come l’infinito del cielo”. (Rosa Cristiano – Ist. Tecn. Comm. “Fibonacci”   Follonica)

“Felicità è amare gli altri, è amare il nostro esistere su questa terra”. (Giacomo Campinoti – Istituto Professionale “Leonardo da Vinci”   Follonica)

“Ogni uomo nella vita cerca la felicità, della quale ha dentro di sé un lontano sentore, un ricordo atavico che lo spinge al bene. Solo inseguendo questa percezione d’estasi insita in lui, potrà ritrovare se stesso, la sua serenità, la sua interiore armonia”. (Barbara Giardelli – Liceo Scientifico “Cattaneo” Follonica)

“La felicità è vivere! Essa non è nelle cose, ma dentro di noi: è necessario percepire con emozione che ogni giorno, ogni ora, ogni attimo sono doni di un mistero meraviglioso che si chiama vita”. (Cristian Verniani – Liceo Classico “Albizzeschi”  Massa Mm.)

“Ognuno di noi ha certamente un rapporto personale con la felicità e sceglie un proprio percorso, perché l’uomo ha assoluta necessità di credere di poter essere felice almeno una volta nella sua vita”. (Ilaria Caruso – Liceo Classico “Carducci Ricasoli”   Grosseto)

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

LA RICERCA DELLA FELICITÀ

di  G T.

Fig.  2

        “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)”.

        Così scrive Immanuel Kant nel suo saggio del 1793; per l’illuminato filosofo la felicità del singolo individuo si ricollega direttamente al problema della libertà, in quanto ogni cittadino costituisce sempre un uomo vivente nell’ambito di una specifica società civile, formata da cittadini dotati di pari diritti. La conquista della propria felicità deve quindi attuarsi, nell’ambito di una società civile, nel rispetto della legge universale che tutela la libertà della ricerca della felicità per tutti i cittadini.

Per Kant felicità e libertà rappresentano due lati della stessa medaglia, al punto che secondo la sua ottica non è mai possibile considerare una sola componente del problema trascurando il suo legame diretto con l’altro aspetto. Se si pretende di  sciogliere  unilateralmente  questo  nesso fondante

della società civile  tra  libertà e felicità, si  finisce, in realtà, per

annichilire entrambi i concetti, riducendoli a gusci vuoti, dietro i quali si può anche nascondere una realtà opposta a quella evocata dai nomi stessi di libertà e felicità (come accade, per esempio, con il governo paternalistico che si trasforma non solo in una tirannide, ma anche in una tirannide della peggiore specie, proprio perché toglie ai cittadini ogni loro libertà e ogni loro diritto, considerandoli, perennemente, quali “figli minorenni”, privi, cioè, di ogni diritto e costitutivamente incapaci di ogni libertà, tali, quindi, da dovere essere sempre tenuti sotto una “tutela” che, proprio per questo motivo,  è semplicemente “tirannica”).

        Nella “Critica della ragion pratica” Kant delinea la seguente definizione della felicità:

“la felicità è lo stato di un essere razionale nel mondo al quale, per l’intero corso della sua vita, tutto accade secondo il suo desiderio  e la sua volontà; essa si fonda dunque sull’accordo della natura con il fine generale di questo essere e con il motivo essenziale di determinazione della sua volontà”.

Ed anche: “…è altrettanto necessario ammettere in base alla

ragione che ciascuno abbia diritto di sperare la felicità, nella stessa misura in cui si è reso degno di essa con il suo comportamento, e che quindi il sistema della moralità sia inscindibilmente congiunto con quello della felicità”.

In altri termini, Kant ribadisce come a suo avviso la felicità non possa mai coincidere immediatamente con le inclinazioni sensibili, giacché la ragione può approvare la felicità solo quando è congiunta con una buona condotta morale, che sola rende l’uomo degno di conseguire la felicità.

        Il concetto di felicità diventa obiettivo politico – amministrativo, come felicità del popolo, con la “Dichiarazione di Indipendenza” proclamata il  4 Luglio 1776 da tredici colonie americane con a capo il massone Thomas Jefferson che volle inserire nella Dichiarazione i principi cardine dell’Illuminismo: “Tutti gli uomini sono creati uguali. Il Creatore li ha dotati di alcuni diritti inalienabili, tra i quali vi sono la vita, la libertà, e la ricerca della felicità. I governi sono stati istituiti per assicurare tali diritti, e derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”.

        Successivamente “la felicità comune” dell’intero popolo è indicata espressamente quale base costitutiva della società nella “Dichiarazione dei diritti” connessa con la “Costituzione francese” del 24 Giugno 1793, derivazione  della “Dichiarazione

 dei  diritti  dell’uomo”  del  26  Agosto 1789,  il documento  più

celebre della rivoluzione francese, destinato a diventare il punto di riferimento per tutti i regimi liberali e democratici della società contemporanea.

        Ma la Felicità per il Massone ha un valore e un significato molto particolari, come magistralmente spiega il Venerabilissimo Gran Maestro Gustavo Raffi nella sua Allocuzione alla Gran Loggia dell’anno 2003:

        “…la felicità non equivale al piacere, anzi talvolta sappiamo che la felicità del saggio, dell’Iniziato, può comportare una deliberata rinuncia a ciò che la massa considera mero piacere, ciò significa che lo stato di felicità è soprattutto una dimensione dello spirito, in senso prettamente filosofico. Una condizione di saggezza e di equilibrio interiore che ci permette di affrontare la vita con tutte le sue traversie.

Chi coltiva solo il piacere, quando si trova dinanzi al dolore, alla morte, alla sofferenza, resta sconvolto, incapace di riflettere, senza strumenti, perché nel corso della sua vita non ha cercato di arricchire il suo spirito, la sua coscienza di valori, di principi, di sentimenti. Una felicità limitata al piacere riduce infatti la complessità umana a macchina da consumo e non conosce valori che non siano mercificabili. Un percorso come questo è di fatto l’esatto opposto di tutto ciò che l’iniziazione massonica cerca di proporre attraverso le forme, talora drammatiche, della sua ritualità. Infatti, la presenza del dolore, della morte e della sofferenza è qualcosa dinanzi alla quale nessun essere umano può sottrarsi.

Chi più chi meno, tutti siamo condannati nel corso del nostro cammino terreno a fronteggiare il dolore. Ignorare ciò e pensare che la felicità sia girare la testa dall’altra parte e ubriacarci di piaceri è solo stoltezza che si finisce col pagare sotto varie forme; e ciò risulta purtroppo vero sia sul piano dell’esperienza personale sia su quello della situazione generale dell’Umanità, se è vero che il mercato non ha cuore e assimila la felicità  alla disponibilità di

mezzi, ovviamente solo per una minoranza. La felicità dell’Iniziato è altresì un fine mai raggiunto che si costruisce di giorno in giorno mediante un’autoeducazione permanente dei propri sentimenti, del proprio riflettere, del proprio saper affrontare la realtà e saper godere delle sue bellezze.

L’Iniziato non è infatti un triste pensatore che si è rinchiuso in una torre di avorio o in una caverna, ma un uomo che sa vivere nella società, capace di portare sempre una voce di speranza e di

ragionevolezza, un uomo che non  ha  paura di affrontare le sfide

poste da un mondo che si rinnova continuamente, perché ad esse si prepara attraverso una disciplina interiore. Per tutti questi motivi il Massone è, o dovrebbe essere, Uomo capace anche e soprattutto di cogliere le straordinarie opportunità di gioia e felicità che la vita sa offrire; siccome conosce il dolore, sa apprezzare ed esaltare anche ciò che è bello, saggio e gioioso.

…Pensiamo che l’esperienza iniziatica possa offrire alcune chiavi per una costruzione della felicità, o almeno di una sua componente soggettiva che però concorre a un perfezionamento generale, nel senso che a ciascuno viene data la possibilità di affrontare in forma simbolica i grandi travagli della vita, affinché vi mediti sopra e costruisca e rafforzi il suo spirito. Allo stesso modo coltiviamo, attraverso la difesa di valori come la libertà, la fratellanza e l’eguaglianza, una cultura che ha il suo centro pulsante nell’emancipazione e nell’affrancamento dall’ingiustizia e dalle tenebre del dolore.

La luce che il Massone cerca e dovrebbe trovare nel Tempio, va portata all’esterno, attraverso un’azione non solo di solidarietà, ma  attraverso  una cultura della felicità, intesa come

gioia e saggezza ispirate e quindi giammai come egoistica esaltazione del piacere e del benessere di pochi, né come privilegio di una ristretta cerchia indifferente al dolore degli altri: ciò affinché trionfino il bene e la ragione, che non sono altro che la manifestazione sublime del divino fattore, il Grande Architetto dell’Universo.”

        La ricerca e il concetto della felicità per il Massone spingono ad una riflessione personale sulla essenza della Massoneria:  la Massoneria possiede caratteristiche uniche che la differenziano da altre istituzioni e che la predispongono in modo naturale a poter intervenire con autorevolezza e credibilità. La Massoneria non ha mai avuto una interpretazione unilaterale della storia. Non esiste alcun fatto storico che, se provato errato, possa mandare la Massoneria in crisi. I Principi Massonici di verità, eguaglianza e tolleranza, si integrano in modo perfetto nell’etica delle società occidentali moderne. La storia della Massoneria è relativamente senza macchia. Non vi sono Inquisizioni di cui la Massoneria deve scusarsi. Nessun Imperialismo che possa piazzare la sua immagine in cattiva luce. Nessuna guerra di cui deve rispondere. Nessuna persecuzione sistematica di cui dichiararsi colpevole e nessuna intolleranza religiosa  o  razziale.  La  Massoneria  può  vantare  una   lunga  

storia,  a  livello internazionale, dove  l’appartenenza  all’Ordine

non è mai stata condizionata dalla razza, dal credo religioso o dalla nazionalità.

Nell’ambito delle nuove economie globali emergenti, grazie al suo internazionalismo di  lunga  data, la Massoneria  si  trova  

nella  posizione  di poter rispondere  in maniera credibile ed autorevole per esempio alle questioni di etica e di morale con cui queste nuove realtà economiche e sociali si trovano confrontate. E non da ultimo, il lungo e storico cammino basato sulla ragione e sugli ideali dell’illuminismo la fanno l’Istituzione predestinata per antonomasia a divulgare la futura filosofia morale del 21° secolo.

        Ma prima di imbarcarsi in questa missione, i Massoni dovrebbero farsi un’idea articolata ma chiara di che cosa è la Massoneria e che cosa rappresenta. La Massoneria non è una filosofia semplicistica. La sua missione è di esaltare i valori dell’anima umana e non di confinarla. Il suo scopo è di aumentare e non di diminuire le libertà degli uomini. La sua funzione è di coltivare e non di manipolare il pensiero umano.

La Massoneria non vede l’uomo come mero ingranaggio nei meccanismi di uno stato industrializzato. Lo vede invece come una creatura nobile che sa scrutare con curiosa meraviglia nel pensiero del Grande Architetto dell’Universo. La Massoneria non vede l’uomo come una creatura bestiale legata alla cruda ricerca del piacere, lo vede piuttosto come una creatura complessa che lotta alla ricerca della verità e di una felicità basata su valori veri e duraturi. Non lo vede come un naufrago che si dibatte senza speranza in un mare sempre in tempesta, ma lo vede piuttosto come persona in grado, attraverso l’uso del pensiero e della ragione, di padroneggiare i tumulti della vita.

        La Massoneria è un’idea moderna perché i suoi ideali, la sua morale, la sua filosofia e la sua spiritualità sono delle costanti sempre attuali e immutabili nel tempo. La Massoneria è

un’idea moderna in grado di dare un senso alla vita delle giovani generazioni future. Ma per adempiere a questa missione il Massone moderno non deve vergognarsi od avere paura di essere Massone, ma deve di nuovo avere il coraggio di ritornare a promuovere i suoi ideali anche all’esterno delle Logge, nel mondo profano, e deve di nuovo avere il coraggio, se necessario, di lottare per il proprio pensiero.

“La nostra felicità non dipende soltanto dalle gioie attuali ma anche dalle nostre speranze e dai nostri ricordi. Il presente si arricchisce del passato e del futuro”.

“Uno dei grandi segreti della felicità è moderare i desideri e amare ciò che già si possiede”.

“L’uomo più felice è colui che non vuole cambiare il proprio stato”.            

 (Emilie Chatelet)

“Se vuoi una vita felice, devi dedicarla a un obiettivo, non a delle persone o dalle cose”.

                                                                         (Albert Einstein)

“L’uomo più felice è quello che è in grado di collegare la fine della sua vita con l’inizio di essa”.

“Chi opera lietamente e si rallegra del suo operato, è felice”.

                                                                             (J.W. Goethe)

“La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa”.

(Friedrich Nietzsche)

“La vera felicità risiede nelle virtù”.                                           (Seneca)

“La nostra felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo ogni caduta”.                                                                             (Confucio)

“La felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha”. 

(O. Wilde)

“Lo sciocco cerca la felicità lontano, il saggio la fa crescere ai suoi piedi”.  

(J. Openheim)

In aggiunta voglio riportare alcune riflessioni che rafforzano i concetti di felicità, giustizia e fratellanza; non ne conosco l’autore ma penso sia utile farci sopra un pensiero.

“Se vi siete svegliati questa mattina con più salute che malattia siete più fortunati del milione di persone che non vedranno la prossima settimana.

Se non avete mai provato il pericolo di una battaglia, la solitudine dell’imprigionamento, l’agonia della tortura, i morsi della fame, siete più avanti di 500 milioni di abitanti di questo mondo.

Se potete andare in chiesa senza paura di essere minacciati, torturati o uccisi, siete più fortunati di 3 miliardi di persone di questo mondo.

Se avete cibo nel frigorifero, vestiti addosso, un tetto sopra la testa e un posto per dormire siete più ricchi del 75% degli abitanti del mondo.

Se avete soldi in banca, nel vostro portafoglio e degli spiccioli da qualche parte in una ciotola siete fra l’ 8% delle persone più benestanti del mondo.

Se i vostri genitori sono ancora vivi e ancora sposati siete delle persone veramente rare.

Se potete leggere questo messaggio, avete appena ricevuto una doppia benedizione perché qualcuno ha pensato a voi e perché non siete fra i due miliardi di persone che non sanno leggere.”

Qualcuno una volta ha detto:

“Lavora come se non avessi bisogno dei soldi.

Ama come se nessuno ti abbia mai fatto soffrire.

Balla come se nessuno ti stesse guardando.

Canta come se nessuno ti stesse sentendo.

Vivi come se il Paradiso fosse sulla Terra.”

.

..

COLLOQUIO  TRA  UN   MAESTRO

ED  UN  GIOVANE  APPRENDISTA

IN  MERITO  ALLA  FELICITÀdi Mario e Matteo L.

Fig. 3

Mario: ti senti felice?

Matteo: in che senso me lo chiedi? Adesso non saprei come risponderti.

Mario: allora facciamo così: prova a chiudere gli occhi ed a pensare: “Qual’ è l’ultima volta che sono stato davvero felice?”

Matteo: Senza andare troppo indietro nel tempo, ti posso dire che lo scorso fine settimana ho trascorso due giorni bellissimi: mi era stato comunicato che avrei avuto un aumento

di stipendio, sono stato a pescare, poi con gli amici abbiamo mangiato e fatto festa; ho comperato un vestito nuovo e con mia moglie abbiamo anche deciso di cambiare la macchina. Alla sera mi sono sentito felice.

Mario: scusa, ma secondo me ti stai sbagliando.  Sei proprio sicuro che quella fosse vera felicità? Forse te confondi  la felicità con il divertimento, con le piccole gioie che derivano dal possesso o dall’essere apprezzati dagli altri. Tu scambi per felicità ciò  che  in realtà è un suo  sottoprodotto.  Purtroppo  la

nostra cultura ha fatto anche di peggio, non solo ci ha convinti che la felicità sia un continuo stato di eccitazione divertita o la negazione del dolore, ma ci ha messo in testa che possiamo raggiungere questo risultato solo rivolgendoci fuori di noi, magari comperando oggetti, aderendo a ruoli prestabiliti, riempiendoci la testa di ideologie preconfezionate da esibire al momento giusto. La vera felicità non ha nulla a che vedere con ciò che sta attorno a noi, non dipende da ciò che abbiamo o da come siamo, dalla nostra forza o debolezza, dal fatto di aver capito o non capito qualcosa, dall’aver vissuto più gioie o più dolori. La felicità dipende solo da noi stessi. Da come sappiamo osservarci senza giudicare, da come lasciamo che la Vita, tutta la Vita in tutte le sue forme (che noi scioccamente dividiamo in buone e cattive) può scorrere in noi. Felicità è osservare serenamente la vita mentre incessantemente ci forma e ci crea.

Matteo: allora cosa ne pensi se ti dico che sono felice perché mi sento in salute, ho tanti amici e una bella famiglia?

Mario:  Ancora una  volta  ti  dico  che  pensare  di essere

felici cercando di allontanare tutte le occasioni di sofferenza, di paura, di tristezza o di aver realizzato tutti i nostri sogni è una pura illusione. Questa idea dà un’importanza esagerata a tutto ciò che sta fuori di noi  e non considera per niente noi stessi. E più di ogni altra cosa temiamo la solitudine: essa rappresenta il segno del nostro fallimento, la testimonianza che gli altri non ci hanno apprezzato, che non siamo importanti per loro. Così, per scacciare la noia, il vuoto, il senso di sconcerto, siamo disposti a riempire la vita di divertimenti di tutti i tipi. Ci nutriamo avidamente della televisione, della gita con gli amici, dello spettacolo alla moda, delle vacanze esotiche. Ma ricorda, solo se accetterai tranquillamente ciò che c’è dentro di te, potrai sperare di cominciare ad essere felice.

Matteo: Ma non puoi biasimarmi se voglio pormi degli obiettivi come fanno tutti alla mia età. Per esempio quello di fare carriera, di avere una bella casa, una macchina nuova……

Mario: questo va bene, ma attento: l’ansia di essere migliore è un errore che tutti facciamo.  Quello di volerci migliorare è un compito nobile, perché  è giusto migliorare il lavoro, il  nostro tenore  di  vita, correggere  gli  errori  o  i nostri

modi di essere.   Tuttavia  spesso esageriamo: vogliamo   essere

alla  moda,andiamo  in palestra, ci stressiamo di superlavoro per

garantirci un tenore di vita adeguato alla mentalità del momento. Insomma cerchiamo di assomigliare ad un modello (così come si dice oggi)   vincente.   Questo ci  porta  all’infelicità

perché spesso non riusciamo a centrare tutti gli obiettivi che ci poniamo ed allora subentra la disistima. Cresciamo in un mondo in cui, se non ti dai da fare, se non appari vincente, se non punti alla  tua realizzazione, sei un fallito. Cerca invece di godere del piacere di fare ogni cosa in modo consapevole, presente a te stesso, senza altro scopo. Scoprirai che niente di ciò che fai è banale e che qualsiasi azione ha in sé il potere di farti star bene in qualunque momento.

Matteo: Eppure non puoi negare che il denaro è una componente fondamentale per essere felici.

Mario: Recita un detto:”Chi dice che il denaro non compra la felicità non sa dove la vendono”. Ma esistono davvero prove che la felicità arriva con la ricchezza? Effettivamente alcuni studiosi hanno dimostrato che esiste una seppur modesta correlazione tra reddito e soddisfazione di vita. Ma, vedi, quando siamo giovani sembrano sufficienti una casa, un’auto e un televisore. In seguito comincia a sembrare indispensabile una casa per le vacanze, una seconda auto, il Rolex. Questa spirale prosegue per tutta la vita. Invece, dire:  “non mi manca nulla” significa uscire dagli oggetti, non sprecare le risorse per conquistare ciò che non ci da energia.

Un famoso aneddoto racconta che una volta un pellegrino andò a trovare il Dalai Lama nel suo ritiro nelle montagne dell’India. Portò con sé per il suo ospite un grosso pacco regalo. Il saggio tibetano scartò la vistosa confezione ma la scatola si rivelò completamente vuota “Ha!” esclamò compiaciuto il Dalai Lama “Proprio ciò che ho sempre desiderato”

 Stai con te stesso e l’energia vitale ti porterà là dove devi andare

e ti farà ottenere nella vita risultati migliori con il minimo sforzo. Se ti convincerai che non ti manca nulla allora conoscerai la pace, che vuol dire semplicemente ascoltare l’interiorità, il silenzio in ogni cosa  che farai. E le più piccole cose, le più banali saranno grandi. Se non ti manca nulla, ogni cosa che arriva sarà un regalo, il tuo regalo.

        Matteo: ma allora, mi vuoi dire che una persona può essere felice mentre la felicità la va cercando? Insomma, mi sembra che per essere felici non si può fare un granché.

Mario: E’ vero,  si potrebbe concludere che per essere felici

 non si può fare un gran che. Si potrà dare una spinta alla felicità andando ad una festa, mangiando cioccolata o facendo sesso, ma questi piaceri svaniranno e ci troveremo al punto di partenza. Attento, quindi, perché la costante aspirazione a trovare la felicità nel fare o nell’avere può rendere più difficile essere felici.  L’idea di felicità ha assolto il suo compito se ci ha fatto continuare a tentare. In altre parole si può dire che l’evoluzione non ci ha impostati per raggiungere la felicità, ma solo per andare alla sua ricerca. Ora rifletti un attimo e dimmi invece quando di recente ti sei sentito infelice, perché anche in questo modo potrai capire meglio come fare per essere felice o, comunque, per essere meno infelice.

Matteo: Pensandoci ci sono state  (e ci sono) molte situazioni per le quali mi sono pentito di essermi comportato in quel modo. A parte i problemi di tutti i giorni, se mi guardo indietro, sono diverse le situazioni, anche importanti, nelle quali avrei dovuto agire diversamente.

Mario: Eh, lo so, è capitato tante volte anche a me.

Spesso compiamo degli errori e ce ne accorgiamo. Altre volte non ne abbiamo proprio la consapevolezza e sono quei casi in cui il nostro stile di vita ci fa dire: “Sono fatto così” “E’ il mio carattere” “Sono sempre stato così” “E’ il mio modo di fare, cosa posso farci?” Non si può rimuginare il passato o vivere di rimpianti. In questo modo tutto l’orizzonte sarà a tinte fosche. Il passato è passato, è morto e non può riempirci il cervello di cose morte impedendoci di desiderare il nuovo. Il passato è una trappola e la nostra storia non deve essere una zavorra. Se vuoi stare bene smetti di interrogarti sulle conseguenze di ogni tua azione, non illuderti  di fare sempre e comunque la cosa giusta: agisci semplicemente ascoltando il tuo cuore e osservando in silenzio dove vuole portarti “Il fiume della vita”.

Matteo: quelle che mi stai rivolgendo sono nobili parole, ma non so se sono pronto a recepirle e, soprattutto, se potrò mettere in pratica ciò che cerchi di dirmi con tanto affetto. Devi convenire che non è affatto semplice.

Mario: Non pretendo, in così poco tempo, di averti chiarito su come la penso in merito alla felicità, tuttavia devi aver fiducia in me.

So quello che ti dico e so che chi riuscirà a conoscere il segreto dell’armonia avrà  le gioie ed i dolori che si alterneranno armoniosamente nella sua vita. La tua felicità non dipende dai successi né da situazione esterne, ma nasce dal tuo modo di affrontare la vita.

E’ proprio questa capacità di cambiare opinione, desideri, modo di vedere le cose che ti consente di evitare forzature, conflitti e di trovare la felicità senza doverla inseguire. In conclusione ti dico che la felicità consiste nel desiderare quello che si ha, guardare sereni la propria vita e sentire che non manca nulla.

Se farai così, un giorno forse potrai semplicemente accorgerti che la felicità è arrivata senza preavviso, così come ha scritto un grande filosofo:

“La felicità è una farfalla che, se la segui, sfugge sempre alla presa, ma se ti siedi tranquillo, può anche posarsi su di te”. 

Cerca di essere felice, figlio mio.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

DIRITTO ALLA FELICITÀ,

DOVERE DI ESSERE FELICI

di  Massimo  Corti

Fig.  4

Diritto alla felicità.

È il diritto di vivere intensamente, il diritto di sentirsi liberi e di poter disporre del nostro personale libero arbitrio per vivere felicemente. E’ il diritto di scegliere il nostro futuro sereno e tranquillo senza coercizioni di sorta, sia politiche che psicologiche. Ogni uomo nella sua sfera culturale e individuale, familiare o in relazione con gli altri uomini, ha diritto di scegliere secondo le sue esigenze e i suoi bisogni, sempre che non invada il campo altrui offendendo la libertà degli altri. Il diritto alla felicità è quindi legato strettamente a quello della libertà, fino a creare un binomio inscindibile. Ovviamente esso deve coniugarsi nell’ambito della legalità, di quelle leggi che la comunità locale, nazionale o internazionale si è data per non cadere nell’anarchia.

Per un massone è questo il diritto di ricercare la felicità interiore secondo il proprio individuale e liberamente scelto percorso iniziatico, diverso anche dal fratello che ti siede accanto. La diversità è data dalla coscienza di ognuno, dalle inclinazioni e i livelli culturali che sono personali e che devono essere sempre rispettati senza invasioni di campo gratuite.

La diversità di ognuno in campo massonico deve però essere accomunata dalla consapevolezza che chi ti siede vicino è veramente tuo fratello ed è pronto a darti una prova di questa fratellanza, aiutandoti se chiedi aiuto, aprendoti se bussi alla sua porta, dimostrandoti comprensione, saperti ascoltare, trovare il tempo da dedicarti se i momenti che passi non sono proprio come vorresti.

Già il mondo esterno corre freneticamente alla ricerca di una falsa felicità, che rende falsamente felici, nell’istituzione occorre invece trovare tutto il tempo che occorre e magari fermarsi anche un po’.

La Massoneria è una sintesi nelle diversità, che presuppone però frequenza attiva, impegno e disponibilità a riflettere personalmente e con gli altri. E’ evidente che se un fratello frequenta solo sporadicamente il Tempio, senza giustificazioni credibili, è lui per primo che non dà certezze e né

può pretenderle e il suo diritto alla felicità interiore avrà un percorso solitario e incostante, difficile da comprendere ed eventualmente difficile da soccorrere.

Dovere di essere felici.

È il dovere che, per dirla con Dante, ci stimola a “non vivere come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Dovere di essere attivi e non essere codardi, di aver rispetto di sé e degli altri. E’ il dovere che ti spinge ad organizzarti per raggiungere i traguardi di felicità che ti sei prefissato, è il dovere che ti fa sentire utile alla vita e impegnato nel migliorarla.

Il dovere alla felicità mi piace inquadrarlo in una dimensione sia interiore che esteriore. La prima comprende il rispetto di sé, imporsi obiettivi e tenere intimamente alla propria persona, cosa ben diversa dal proprio tornaconto, desiderio di affinare le proprie capacità e educare le proprie inclinazioni, acquisire un metodo di lavoro per migliorarsi, sapersi mettere in gioco per ricominciare sempre, non considerare mai finita la strada da percorrere, volontà costante di scoprire in continuazione cose nuove. L’uomo in generale e il massone in particolare deve sentirsi in dovere di vivere felice e in modo appagante nel profondo del suo animo, indipendentemente dal suo grado d’istruzione, dalla religione o razza d’appartenenza, dal lavoro che esercita.

La seconda dimensione, quella esteriore, comprende l’impegno profuso per gli altri, per la dimensione sociale in cui uno vive. Anche qui inedia o impegno sporadico cozzano con la vita come la intendiamo noi massoni, che vale sempre e ottimisticamente la pena di essere vissuta. Anche il Massone quindi ha il dovere d’essere felice, di impegnarsi per raggiungere sempre nuovi traguardi; anzi di questa ricerca, con l’impegno personale e di gruppo, ne ha fatto una bandiera.

  Resta alquanto difficile infatti, se non impossibile, pensare una Massoneria clandestina per sua scelta o avulsa dalla situazione sociale in cui opera giornalmente.

I suoi affiliati non possono non figurare in una èlite che governa i problemi e non li subisce, uomini che preventivamente sanno indicare ad altri uomini la rotta da percorrere e mai a traino come gregge. E tutto ciò deve avvenire all’insegna di sani principi democratici, nel rispetto delle leggi che regolano la società umana nel suo complesso.

Uomini, i massoni, che sono pronti sempre a combattere le dittature di ogni colore, le sopraffazioni, le scelte dogmatiche imposte e tutto ciò che non prevede la centralità dell’uomo. 

Se c’è necessità di dar vita a un nuovo Risorgimento occorre come nell’800 essere e sentirsi nuovamente disponibili, noi massoni, a combattere la nostra guerra, con le armi che ci sono proprie, quelle della cultura che combatte l’ignoranza, quelle dell’ospitalità, dell’accoglienza e dell’integrazione contro il cieco scontro fra culture ed etnie diverse, contro ogni fondamentalismo a cominciare da quello religioso, con le armi delle idee e delle parole spese in difesa della laicità dello Stato e dei diritti civili.

Quello che i massoni devono perseguire è una società più giusta e più democratica, nel rispetto delle idee e delle sensibilità di ciascuno, all’insegna dei principi inalienabili di libertà, uguaglianza e fratellanza.

Il perseguimento di questi obiettivi difficili, ma possibili, anche nelle nostre piccole comunità locali, non può esaurirsi con il vedersi ritualmente una volta al mese. Bisogna quindi pensare a come vivere, diversamente e vicini, nei trenta giorni di intervallo fra tornata e tornata, non accontentandosi mai e guardando sempre verso orizzonti lontani ma alla nostra portata.

Pensiamo a quali iniziative prendere,a quali impegni ci possiamo sottoporre, a come attualizzare i sani principi che ci animano da oltre tre secoli, qual è il nostro carico di mattoni che possiamo portare. E per il numero dei mattoni da portare in dote non dobbiamo temere e non dobbiamo mai affliggerci: c’è chi li porterà più di uno e chi ne avrà uno solo sottobraccio. Anche quello però è indispensabile, magari è quello angolare e particolarmente prezioso. Tutti dobbiamo essere pronti nell’impresa che ci aspetta per costruire la cattedrale che ci è stata commissionata. Ognuno farà quello che può e sa fare, basta che si abbia chiara l’intenzione concreta di costruire il nostro tempio, di passare dalla teoria alla pratica e dal passato al presente e al futuro.

Non mi sottraggo a lanciare qualche idea e a mettere sul tavolo da lavoro delle iniziative. Siamo da anni gemellati con due logge, l’Arcadia di Napoli e la Jefferson di Milano.

Un gemellaggio da oltre 4 anni purtroppo dimenticato. Uno scambio operativo di vedute con questi Fratelli di latitudini diverse su questi temi o su altri che si riterranno più opportuni

sarebbe forse utile e ci schiuderebbe degli orizzonti oggi un po’ troppo angusti. Ricordo ai fratelli che in particolare nell’Arcadia di Napoli figurano fratelli di religione ebraica e musulmana. In attesa della lodevole Fondazione culturale che abbiamo intenzione di far nascere, forse una iniziativa simile potrebbe aiutarci ad ampliare le nostre vedute spesso ristrette al massimo nei limiti del nostro piccolo oriente.

Ancora.  É uscito di recente (dicembre 2006) un ottimo libro sulla Massoneria sugli Annali Einaudi della Storia d’Italia, con una critica sembra assai lusinghiera: potremmo incaricare un fratello di farci prossimamente una relazione e, se occorre, invitare l’autore prof. Gian Mario Cazzaniga dell’Università di Bologna a rispondere ai nostri dubbi e alle nostre sollecitazioni.

Ultima proposta concreta che purtroppo mi riguarda anche personalmente. Tutti i fratelli sanno che esiste nel nostro oriente una associazione onlus di bambini disabili che offre con tante difficoltà gratuitamente a 30 di loro un servizio di ippoterapia ben organizzato e lodevole sotto ogni aspetto.

Al di là che, cosa non secondaria, il Presidente di questa associazione sia un fratello, non vedrei male, diciamo, una nostra visita diretta a questo centro ippico e una adozione da parte nostra di questo servizio ippoterapico in modo tale da garantire con iniziative mirate la sua continuità nel tempo.

 Per completezza di informazione vi informo che l’associazione  Anffas  è  regolarmente  iscritta  alle  associazioni

onlus presso l’Ufficio Regionale delle Entrate e che per qualsiasi contributo viene rilasciata regolare ricevuta, deducibile nella dichiarazione dei redditi.

Ringrazio i Fratelli della tolleranza mostrata nell’avermi ascoltato e mi scuso se sono stato un po’ prolisso. Non era nelle mie intenzioni elargire ricette miracolose, che non ho, sul nostro futuro di massoni del terzo millennio e offro questa tavola alla riflessione e alla pazienza dei Fratelli.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

….

LA FELICITÀ

E’ IL SORRISO DELLA VITA. di L, M.

Fig. 5

Secondo alcune teorie che si ispirano alla medicina naturale, il cervello pare sia composto da tre strati, non più da due emisferi. Questi strati corrispondono ad altrettante tappe dell’evoluzione umana: – il cervello rettiliano che gestisce le funzioni fisiologiche,  come la respirazione, e che tutela l’integrità fisica; – il cervello limbico che gestisce i programmi automatici di  comportamento (il “software” dell’individuo); è questo il cervello della memoria programmatica, che ci consente di parlare, camminare, apprendere; – la parte corticale del cervello (quella più evoluta) nella  quale si sviluppa la nostra capacità di ragionare e dove ha sede la  personalità.

La felicità si raggiunge quando i tre cervelli sono in armonia tra loro. Distinguiamo innanzitutto la felicità dal piacere, in quanto sono di natura e di livello diversi: il piacere proviene dal cervello rettiliano e dal sistema limbico, mentre la felicità, come già detto, è l’espressione dell’armonia tra la corteccia e gli altri due cervelli. Il piacere da solo non dà la felicità, mentre la felicità ottimizza ed aumenta l’accesso al piacere; non è lo stare  insieme agli altri, ad esempio, che dà la felicità, bensì è la felicità che favorisce lo stare in compagnia.

Quando si è equilibrati, in pace con se stessi, si è disponibili ad una relazione forte, ricca, impegnativa.

L’umanità esce da un’era essenzialmente limbica in cui prevale il gruppo, per entrare in un era più corticale che scava  il solco tra l’uomo e l’animale ed esalta le potenzialità di ogni individuo.

Lo sviluppo e la realizzazione della specie umana passa oggi attraverso lo sviluppo e la realizzazione di ognuno di noi.

L’uomo, un tempo, cercava il piacere ed era il gruppo essenzialmente a darglielo, oggi cerca sempre più la felicità e sarà il gruppo a trarne giovamento.

La felicità di ciascuno di noi è infatti utile a tutti, tutto il gruppo sta meglio, perché la felicità favorisce l’apertura, l’amore, la condivisione e la realizzazione individuale, mentre il piacere porta facilmente alla competizione e al ripiegamento su se stessi.

Se questa teoria la applichiamo a una relazione affettiva, notiamo  che  spesso  una  relazione  inizia  con   un’attrazione

limbica che implica l’aspetto, l’ambiente, lo stile, poi prosegue se c’è dell’attrazione rettiliana: il profumo della persona, la piacevolezza del contatto fisico, ecc… infine va avanti se c’è attrazione corticale, cioè se i progetti di vita di ciascuno si sovrappongono e coincidono almeno in parte.

Negli ambienti di lavoro più evoluti, assistiamo ad una interessante evoluzione delle imprese volte a favorire la tendenza a sollecitare le doti potenziali del lavoratore, assecondando la sua realizzazione personale, cioè la sua felicità. 

Al giorno d’oggi il desiderio di felicità è più attuale che mai. Nell’uomo è profondamente radicata la paura della sofferenza, cioè della mancanza di felicità; il non raggiungimento della  felicità si manifesta con un’alterazione del tono dell’umore con una riduzione dell’autostima e conseguente senso di colpa, che può portare a un bisogno di autopunizione .

Freud dimostrò che la svalutazione di sé è il risultato di una rabbia intensa ed inconscia rivolta verso se stessi; ciò accade perché parti inconsce del nostro io si sono identificate con “l’oggetto perduto” e per oggetto perduto si intende qualunque ideale non realizzabile da un individuo.

Si assiste in questi casi ad una caduta degli interessi e dell’attrattiva verso i valori fondamentali della vita: la famiglia, il lavoro, gli amici, lo svago, l’amore e il futuro, si verifica una sorta di atonia generalizzata, una specie di divorzio tra l’io e l’inconscio, con conseguente assenza di energia pulsionale.

Tutto questo, alla stregua di una malattia, ha destato gli interessi dell’industria farmaceutica; pochi anni fa, ad esempio, è stato messo in commercio un nuovo farmaco,  il Prozac, che fu chiamato dai giornali la pillola della felicità generando false aspettative di soluzioni rapide e miracolose.

L’efficacia degli psicofarmaci è puramente sintomatica e non produce un reale mutamento della personalità.

Quando non stiamo bene cerchiamo di riempire qualunque vuoto, anche a costo di lasciare una televisione o una radio accesa senza ascoltarla, oppure tendiamo ad ascoltare musica fino ad assordarci pur di riempire quel vuoto, senza pensare che uno spartito musicale prevede molte pause e anche il silenzio all’interno della musica fa parte del brano. Solo comprendendo il valore della propria sofferenza si può riuscire a modificare la qualità della vita.

La mancanza di felicità o sofferenza non è un evento casuale, bensì veicolo di un messaggio che la coscienza non deve ignorare, è il segno dell’incrinarsi dell’equilibrio e dell’armonia della nostra personalità e il sintomo è il ramo di un albero che ha radici profonde, radici che probabilmente risentono della mancanza di un substrato su cui poggiare, al pari di un albero a cui manca il terreno e che stenta a crescere.

Una povertà di spirito che può essere vissuta come una povertà finanziaria, una carenza affettiva, una non esplicitata funzione di maternità o paternità, una grande difficoltà   progettuale e incapacità di comprendere e soddisfare i propri bisogni.

Diventa quindi necessario attingere alla ricchezza del mondo interiore.

La presa di coscienza che accompagna la vittoria della lotta contro la sofferenza offre l’opportunità di assaporare una qualità

diversa di vita e l’aver fatto questa esperienza può consentirci di capire che gli ideali, in cui prima credevamo, erano inculcati da schemi collettivi e in quanto tali difficilmente realizzabili, perché non nostri, non appartenenti alla nostra evoluzione personale.

La nostra anima si costruisce con sforzo, lavoro ed investimento su se stessi.

Un testo antico e ricco di spunti e di saggezza è I KING, in cinese, Libro delle mutazioni, questo libro spiega le diverse possibilità della psiche; se noi riusciamo a stare in sintonia con le nostre mutazioni, allora riusciremo a stare in armonia e in pace con noi stessi, con gli altri e tutta la natura.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

LA FELICITÀ

di G. D.

Fig.  6

Nel tessuto dei concetti che descrivono la vita umana, la felicità è tra i più mobili e difficili da catturare, ma anche il più immediato e irrinunciabile. Infatti a che cosa possono aspirare gli esseri umani se non alla felicità? Gli individui desiderano stare bene, realizzare le loro aspirazioni e vivere la propria vita.

La felicità consiste “semplicemente” nel provare quello che c’è di bello nella vita, nulla escluso! Si tratta di un’abilità individuale, e non di un’eventualità del destino: tutti possono essere felici se imparano a capire come si fa ad esserlo: forse, per vivere una vita felice è necessario essere capaci di godere di ciò che già si ha.  La  felicità non  va ricercata nel futuro, ma nel

presente, perché non dobbiamo dimenticare che il nostro attuale presente è il futuro che immaginavamo per noi solo poco tempo fa….

Ma siamo forse per questo “felici” ora? La risposta è certamente “no” o, meglio, “ancora no”. Ognuno di noi ha qualcosa che ancora gli manca per essere felice: l’amore, un lavoro, la carriera, la casa, la laurea, la vacanza e molto altro ancora…. (tutti potremmo “personalizzare” questo elenco prolungandolo all’infinito!).

L’evasione dal presente, l’incapacità di prendere decisioni,

la tendenza a procrastinare oltre, determinano l’idealizzazione del proprio futuro che, intanto, diventa il presente e la storia continua. La felicità, sempre rimandata all’indomani, continua a sfuggire alla nostra esistenza, nell’illusione che qualche forza magica, sovrannaturale, o anche proveniente da qualche misteriosa area del proprio io, possa finalmente risvegliarsi e risolvere per incanto tutti i problemi.

In questo scenario la ipotetica felicità realizzata, compiuta e perfetta, non è più una felicità “vera”.

Assomiglia più ad una beatitudine, ad una condizione angelica, che è forse solo una idealizzazione, dove mettiamo a tacere le nostre aspirazioni e le nostre ansie più profonde, anziché dare loro una risposta.

Esiste, nel meccanismo della felicità, la necessità del contrasto, del passaggio da una condizione dello spirito ad un’altra. Ci appaga il confronto, la comparazione dei sentimenti. E’ per questo che la felicità appare, spesso, solo in momenti isolati.  La  sua condizione duratura, quella che appartiene alle

abitudini acquisite e agli stili di vita, sembra sempre di una qualità inferiore rispetto alla luce cristallina con cui ci toccano i singoli attimi di felicità, in cui il turbinio della vita in cui siamo immersi diventa, per un momento, soltanto lo sfondo.

Ma allora la felicità corrisponde al sentirsi felici? Il sentirsi felici può derivare da ciò che ci circonda, dalle persone che ci amano e che amiamo o è soltanto uno stare in pace con noi stessi?

Io ritengo che le motivazioni per cui ci si sente felici, per cui si è in questa condizione, di norma, non si conoscono mai direttamente nel momento in cui ci si sente felici. Sulle condizioni di felicità, in genere, ci si interroga quando si sta uscendo dalla tensione estrema delle felicità; pertanto è importante constatare, in un qualsiasi discorso che verta sul tema della felicità che, in genere, quando si è felici, non ci si interroga mai sul “perché” si è felici.

La felicità la si vive immediatamente!

E quando si esce da questo stato, da questo sentirsi felici, vissuto come sentimento illimitato della propria espansione personale? Quando sussiste una relativa interruzione di stato felice?

Quando ci chiediamo perché adesso lo sono di meno, o perché non sono più felice?

Ecco, allora, verificarsi una trasformazione del nostro stato

di felicità, che da “esperienza” vede trasformarsi in “meta”. Allora,  a quel punto, in quel preciso momento, ci si interroga sulle condizioni, nella speranza di poter ricostruirne le più idonee per tornare in questa espansione che si è sperimentata!

Ma allora dobbiamo porci un’altra domanda, siamo di fronte ad un altro dubbio: quel sentimento che abbiamo provato, quell’espansione che ci ha coinvolti, era felicità o gioia? Esiste differenza tra questi due stati? E se sì, è possibile stabilire quale differenza esiste tra “gioia” e “felicità”?

Credo che si possa affermare che la gioia sia un aspetto della felicità, perché se assumessimo come pura esperienza della felicità, come suo termine di determinazione il sentimento della propria espansione, allora potremmo vedere come e quanto i modi dell’espandersi e, di conseguenza, del sentirsi felici, siano così diversi tra loro.

Si può pensare pertanto di poter affermare che nelle manifestazioni di felicità esiste una sorta di “prisma”, fatto di modi diversi per sentirsi felici.

Una delle ragioni per cui, molte volte, viviamo infelici è quella per cui si arriva a ritenere che si possa essere felici in un solo modo o che solo una certa cosa possa dare la felicità. Se ragioniamo così normalmente finiamo per disperarci o, comunque, per vivere in uno stato non sereno, perché ci fissiamo su di una sola modalità della felicità, finendo per escludere dal nostro orizzonte esistenziale quell’elemento di “improvvisa” ricchezza che è la felicità stessa.

Sant’Agostino affermava che si è attratti dalla felicità se si è trascinati dalla felicità! Non siamo noi che raggiungiamo la felicità, ma la felicità ci prende come se fosse un vortice. Emblematica è la celebre formula che Agostino usò per esprimere questo concetto: ..raptim quasi per transitum.., ossia: la felicità ci prende “improvvisamente” e “quasi di passaggio”, ci trascina con sé.

Ritenere allora che la felicità possa essere offerta solo da certe cose può trasformarsi in un’ossessione e mettere l’uomo nella condizione di escludere dalla propria vita tante altre occasioni che possono produrre felicità!

.

..

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

FELICITÀ

di W. M.

Fig.7    

Parlare della felicità  è sicuramente affascinante e cercare di dare un contributo senza cadere nella retorica o nella banalità è assai difficile. Attraverso scritti, musiche, dipinti ma anche con semplici lettere o gesti quotidiani di uomini comuni si è cercato di rappresentare il significato e la testimonianza di questo stato sensoriale. E’ però solo quando si conosce il suo contrario, il dolore, che allora ognuno di noi può veramente apprezzarne l’importanza. Spesso l’uomo cerca addirittura di poter misurare la felicità introducendo grandezze quali l’ampiezza e  l’intensità.

Inserita in un contesto iniziatico, potremmo forse considerare la felicità contenuta in un  attimo come un mattone

e da lì sviluppare il concetto secondo il quale, così come mattone dopo mattone siamo chiamati alla costruzione del tempio, potremmo costruire il tempio della felicità mettendo insieme i vari attimi. Il discorso appare elementare nel concetto ma assai arduo nella realizzazione. Si pensi alla nostra società, ai mille esempi di modelli di sviluppo sia sociale che politico o economico.

La felicità risulta spesso essere assente dalla nostra vita quotidiana caratterizzata da difficoltà, stress, dolori, morte.

La si ritrova quasi esclusivamente nelle pubblicità commerciali di stampa e televisione che  è però palesemente costruita, finta, irraggiungibile.

Il percorso di conoscenza che affrontiamo deve invece metterci nella condizione di poter individuare  quali sono gli attimi di felicità. E’ nostro compito, per elevare l’uomo, fare in modo che  la nostra società possa sviluppare modelli e contesti che siano in grado di poter contenere e replicare  il maggior numero possibile di attimi felici. La felicità si può ottenere attraverso la crescita e l’affermazione delle libertà individuali e collettive, il rispetto dei diritti fondamentali, la salute e in ultimo, perché più grande,  l’amore in ogni sua forma.  Non possiamo non notare la differenza sostanziale tra questo obiettivo ed i modelli di altre istituzioni religiose o politiche che, attraverso il cammino nel dolore o della negazione, vedono il cammino dell’individuo verso la felicità  eterna ma raggiunta solo dopo la morte,  perché attraverso il dolore riesce a farsi perdonare il peccato originale.

È   mia   intenzione,   in   considerazione   del    grado   di

maturazione massonica acquisito, non di sviluppare il concetto di felicità dal punto di vista filosofico o scientifico, ma semplicemente dare testimonianza di due momenti di felicità vissuti all’interno del Tempio: l’Iniziazione ed il silenzio nelle tornate dei lavori.

L’Iniziazione è probabilmente uno dei momenti più alti, più toccanti, più ricco di felicità che un massone può vivere.

 Non è certo banale affermare che non esiste un momento uguale nel percorso iniziatico. Appartenere a questa istituzione è, nel privilegio, la consapevolezza di appartenere ad un gruppo ristretto, ma non ad una casta. L’attimo dell’iniziazione è un insieme infinito di sensazioni amplificate dal clima irripetibile della Loggia .É una morte, una rinascita, una sorpresa, una scoperta, una paura … prendere parte ad un rituale unico e scoprire poco dopo di dividere  un segreto con amici profani che dal quel momento diventano fratelli. È il primo mattone, quello meno sgrossato e levigato dal lavoro, ma costituito di un unico elemento, la felicità.

L’altro momento di felicità è stare in silenzio durante i lavori. Non possiamo non considerare la differenza con la vita profana dove troppo spesso le parole sono troppe ed insensate.

 Un individuo prevale sull’altro coprendo la sua voce, urlando più  forte ma non  perché le sue  idee  sono più giuste o

migliori. La felicità provata dal silenzio durante i lavori di loggia ha, rispetto all’iniziazione, diversa intensità ma maggiore ampiezza.

Durante i nostri architettonici lavori c’è un fratello che parla, sia in un  momento  rituale, sia durante  l’illustrazione di

una tavola il tono è sempre in armonia con il tenore dei lavori.

Anche in uno scambio di vedute con opposti punti di vista il tono rimane composto, finalmente conta il valore ed il significato delle parole dette e non vince chi urla di più,  perché non c’è nessuna gara ma un confronto ed un arricchimento reciproco. Ed è per questo che vi ringrazio di avermi ascoltato ma ritorno nel mio rispettoso silenzio felice di ascoltarvi per arricchirmi ancora.

E CRESCENDO IMPARI

E crescendo impari che la felicità non e’ quella delle grandi cose. Non e’ quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi…

La felicità non e’ quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente … non e’ quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari…, la felicità non e’ quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.

Crescendo impari che la felicità e’ fatta di cose piccole ma preziose….. e impari che il profumo del caffè al mattino e’ un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve.

E impari che la felicità e’ fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi, e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

E impari che l’amore e’ fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore, e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.

E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.

E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

E impari che tenere in braccio un bimbo e’ una deliziosa felicità.

E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami…

E impari che c’e’ felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’e’ qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.

E impari che nonostante le tue difese, nonostante il tuo volere o il tuo destino, in ogni gabbiano che vola c’e’ nel cuore un piccolo-grande Jonathan Livingston.

E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

(Anonimo)

.

..

LA  FELICITÀ

di M P-

Fig. 8

Fratelli tutti, innanzi tutto vorrei ringraziarvi  per avermi dato la possibilità di esprimere delle riflessioni su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Che cosa è in fondo la Felicità? Ognuno ha la propria visione e dimensione della Felicità; di certo però è una condizione di benessere dell’ uomo.

La Felicità è quell’insieme di emozioni e sensazioni del corpo e dell’intelletto che procurano  gioia e benessere, in un momento più o meno lungo della nostra vita.

Certo è che quando stiamo in salute è più facile essere felici, ma è proprio in questa condizione che spesso l’uomo si perde.

Si perde perché va all’inseguimento dei soldi, della fama, del successo o del potere come se il loro raggiungimento desse la sensazione di Felicità.

Niente di più sbagliato, in quanto questo atteggiamento crea ansia che è in contrasto con lo stato di Felicità.

Nel terzo  mondo  difatti,  dove  si soffre la fame e si muore

per mancanza di igiene e di cure, il solo raggiungimento di una

ciotola di riso è Felicità.

La Felicità, secondo me, è provare ciò che esiste di bello nella vita e di bello non c’è solo ricevere ma anche concedere qualcosa agli altri.

Fratelli vi invito a pensare in questo momento ad un episodio della vostra vita in cui avete tolto qualcosa a voi stessi dandola ad un’altra persona, con la consapevolezza che gli avreste fatto del bene.

Ecco, quella sensazione di benessere che avete provato, altro non è che felicità di aver fatto felici. Impegniamoci quindi a dare uno sguardo in più alle persone che ci stanno di fronte, ognuno a suo modo, ma impegniamoci perché la felicità è in quello che facciamo oggi, è nel presente non nel futuro.

Il Filosofo greco Epicuro in una “ Lettera sulla Felicità” scriveva: «Non c’è età per conoscere la Felicità, non si è mai vecchi né giovani per occuparsi del benessere dell’anima».

In queste parole rivedo Noi Liberi Muratori quando ci riuniamo nelle Nostre Officine.

Vedo uomini con età,cultura e passati diversi ma tutti uniti nello sgrezzare quella pietra cui abbiamo dato tre colpi di Maglietto al momento della Nostra Iniziazione.

In Loggia vedo persone felici di esprimere liberamente il proprio pensiero, perché sono consapevoli che quel pensiero fatto parola non andrà perduto, verrà ascoltato e rispettato.

Spesso mi faccio una domanda: «Noi Massoni, che rincorriamo il perfezionamento interiore, potremmo mai essere felici?»

Non conosco la risposta, non ho e non pretendo di conoscere la formula magica per raggiungere la Felicità ma sono consapevole di una cosa soltanto: solo gli Uomini Liberi potranno essere Felici.

Io, spero di essere e di rimanere Uomo Libero per sempre.

.

LE PIETRE PREZIOSE

di A. P.

Fig. 9

Tempo fa, un uomo camminò sulla spiaggia in una notte di luna piena…

Pensò che se avesse avuto una macchina nuova sarebbe stato felice.

Se avesse avuto una grande casa sarebbe stato felice.

Se avesse avuto un lavoro eccellente sarebbe stato felice.

Se avesse avuto una donna perfetta sarebbe stato felice…

In quel momento inciampò in una borsa piena di pietre.

Cominciò a giocare con le  pietre, gettandole nel mare, una per ogni volta che aveva pensato:

Se avessi…sarei felice…

Finché rimase solo con una pietra nella borsa e decise di tenerla.

Quando arrivò a casa notò che quella pietra era un diamante molto prezioso.

Ripensò  a quanti diamanti aveva gettato per gioco nel  mare, senza accorgersi che erano pietre preziose.                  

Così fanno le persone…

La felicità è molto più vicina di quello che si pensa..

Ogni pietra dovrebbe essere osservata meglio…

Ogni pietra potrebbe essere un diamante prezioso! 

Ogni nostro giorno potrebbe essere un diamante prezioso e insostituibile…

Sognano quello che non hanno senza dare valore a quello che hanno vicino.

Se osservassero meglio,noterebbero quanto sono fortunati…

Ognuno di noi può decidere se apprezzare ogni pietra o gettarla in mare…

E tu, stai giocando con le pietre?

Amici, famiglia, lavoro e sogni?

La morte non è la più grande perdita della vita.

La più grande perdita della vita è morire dentro  mentre viviamo.

Vivi pienamente ogni  giorno…

.

.

.

LA FELICITÀ NASCOSTA

 di Anso Pecorini

Fig.10

Un giorno lontano nel tempo e cosi prossimo da essere ancora atteso, il dolce fanciullo si rivolse al vecchio saggio chiedendo con la sua tremula vocina :”Ma dimmi, buon saggio, io tanto ho cercato risposte a una domanda che ogni giorno mi sovviene alla mente e a cui non trovo risposta, sai dirmi tu qual è la risposta? Io cerco la felicità e tanti mi dicono cosa devo fare, come devo comportarmi, dove devo andare, cosa non devo fare,ma io non capisco cosa c’entrino tutte queste cose con la felicità. Sai dirmi tu, buon uomo cosa devo fare per essere felice?”.

Il vecchio saggio, che aveva ascoltato le parole del fanciullo, alzò il capo al cielo, e dopo aver profondamente sospirato, cosi iniziò:

“Vedi caro mio fanciullo, troppo spesso i grandi confondono la felicità con ciò che non ne è neppure una parvenza e scambiano l’ essere soddisfatti di qualcosa con la felicità, ma la vera felicità inizia da una assenza e da un grande desiderio.

Ti racconterò allora cosa è la felicità, così che tu la sappia cercare e riconoscere nel tuo cammino.

La felicità è il bisogno di un grande cuore, che sappia colmare con il suo amore la distanza tra il nostro desiderio di felicità e la sua realizzazione.

La felicità è uno sguardo che sappia penetrare là dove nascono i nostri pensieri, così che quello sguardo, come una dolce mano, li possa cogliere e condurre la dove troveranno la loro risposta.

La felicità è uno sguardo che sappia incontrare i nostri occhi, per poterci rispecchiare nella felicità dell’ altro.

La felicità è avere qualcuno da amare, che prima di noi abbia amato i nostri desideri.

La felicità è essere lontani , senza essere distanti.

La felicità è un passo di cui riconosciamo il suono, ed è il trepidar del cuore che l’ attende.

La felicità è una carezza che sfiora il volto dell’ amato senza toccarlo.

La felicità è il silenzio colmo dell’ attesa della voce amata.

La felicità è il rispetto che ci fa guardare all’ amato come al nostro più prezioso brillante.

La felicità è la cura con cui sosteniamo le sue fatiche più ancora delle nostre.

La felicità è avere un segreto, nascosto nel cuore dell’amato.

La felicità è nascosta dalla sua evidenza, perché sa che il suo splendore sta nel pudore con cui si manifesta.

La felicità è un “Tu”, nascosto in un “Noi” che lo contiene.

La felicità sono io e sei tu.

(da Internet)

LA FELICITA’ RELATIVA

di P. .P.

Fig. 11

Attivare la felicità nel nostro animo…

Da sempre, questo è il sogno di ogni occidentale; svegliarsi al mattino e poter decidere se siamo felici a seconda delle esigenze del quotidiano. Stereotipati in un mondo preconfezionato che ci detta in ogni momento  canoni comportamentali e di pensiero, bombardati da messaggi più o meno celati, in molteplici ambiti:  pubblicità, confronti di ricchezza, bellezza, fama, sesso, fanno sì che crediamo felicità tutto ciò che è effimero. Magari in alcune fasi della nostra vita, potremo raggiungere questo tipo di gioia, ma di felicità relativa si tratta, cioè una felicità a termine, temporanea. Saremo euforici

per i risultati raggiunti ma, purtroppo, questa sensazione tenderà a svanire e, se siamo tendenzialmente infelici, rimarremo tali, anzi, dopo aver assaggiato questo tipo di gratificazione tenderemo a perdere fiducia, poiché ne sentiremo la mancanza in misura sempre maggiore. Un po’ quello che succede a chi assume cocaina, si ha un effetto a tempo con una conseguente depressione dell’animo.

La ricchezza, lo status sociale, la bellezza, l’età e la fama, non possono assicurarci un percorso vitale sempre felice. La felicità fondata su questi aspetti è infatti una felicità relativa, e come abbiamo già detto, avrà sempre una data di scadenza.

Qualunque essere umano pensi di costruire la sua felicità basandosi su queste cose andrà incontro inesorabilmente alla delusione.

Pare scontato dire che la felicità assoluta, cioè quella duratura, la troveremo soltanto dentro di noi. Ma così è.  Nel mondo ci sono molteplici scuole di pensiero, forse migliaia, che guidano, o almeno tracciano una via, nell’animo umano per la ricerca della gioia, intesa come raggiungimento della pace con il creato; esse sono accomunate da questa brama di appagamento.

 Dalle filosofie orientali, in modo più massiccio, si hanno i maggiori riscontri in quantità di adepti e sicuramente di risultati; esse sono fonte di saggezza e di armonia, ingredienti fondamentali per  dissetare l’uomo occidentale.  Culture millenarie e pertanto supercollaudate, fatte di pensieri semplici ma efficaci, di musiche eteree,   colori coinvolgenti, profumi ed essenze che sanno di spezie, un mix di ingredienti che ci fanno un po’ sognare,  ma talvolta non ci fanno cogliere il vero senso della loro funzione.

Infatti non deve essere una questione di moda o di  tendenza, deve essere una necessità;  chiedere la felicità è lecito e deve essere consentito a tutti.  Purtroppo  alcuni popoli sono talmente oppressi che possono soltanto sognarla (forse), ma noi no!   Siamo soltanto schiavi di noi stessi e del nostro benessere apparente, pertanto abbiamo quegli strumenti, anche se nascosti, per  operare nel modo giusto.

Trasformiamo ogni sofferenza in forza interiore, diamo un po’ di pane quotidiano al prossimo, ma non soltanto in senso materiale, talvolta chi ci sta davanti non ha soltanto bisogno di assistenza,  tante volte ha fame di solidarietà, di comprensione.

Fermiamoci a pensare,  più spesso di quanto siamo abituati a fare, rivolgiamo i nostri pensieri in modo incondizionato a tutti e tutto ciò che ci circonda, dando valore alla natura, alle persone, anche quelle che sembrano meno meritevoli,  apriamo la nostra anima all’amore senza discriminazione,  leggiamo negli occhi degli altri, ma  non dimentichiamo mai di leggere,  prima di ogni altra cosa,  nei nostri. La vera felicità nasce da ciò che riusciremo a seminare durante il nostro percorso terreno, i frutti li raccoglieremo senza quasi accorgercene, ma li raccoglieremo di sicuro.

Innanzitutto  costruire noi stessi, per poi crescere una famiglia sana ed edificare una migliore società.

GERMANIA,

LA FELICITÀ MATERIA NEI LICEI. di   A. C.

Fig. 12

Esser felici e non sapere il perché potrebbe rendere tristi i giovani studenti del liceo di Heidelberg, in Germania. Ernst Fritz-Schubert, preside dell’istituto, traendo ispirazione da una ricerca condotta in Austria, ha pensato infatti di introdurre una nuova e complessa materia, la felicità.

La ricerca fece a suo tempo emergere che gli studenti si sentono bene quando sono in vacanza e in famiglia. Quando vanno a scuola, invece, si sentono moralmente più abbattuti di quando sono costretti ad andare dal dentista. Il professor Fritz-Schubert ha deciso a questo punto di cambiare le cose.

“Bisogna reagire a questo stato di cose – ha spiegato il preside – e con la collaborazione di Wolfgang Knoerzer, titolare della cattedra di cultura della quotidianità e del movimento presso la Facoltà di Pedagogia della locale università, e dell’ex allenatore della nazionale tedesca di hockey, Bernhard Peters, abbiamo messo a punto delle tematiche da studiare nella nuova disciplina scolastica. Lo scopo delle lezioni è quello di trasmettere di nuovo cultura nel senso originario del termine e di ciò fa assolutamente parte la capacità di percepire la felicità”.

I  punti  forti  dell’insegnamento   saranno   incentrati  su

 concetti come l’anima e il corpo, motivazione e capacità di prestazioni. Per sviluppare la ricettività degli studenti al richiamo della felicità sono previsti anche interventi di esperti esterni. Un attore insegnerà ai ragazzi a recitare brani teatrali, uno psicologo specializzato nella motivazione li istruirà a pensare positivamente ed a rafforzare la percettività dei sentimenti.

Un terapeuta di psicologia familiare spiegherà invece come vada intesa la dialettica tra l’io ed il senso della comunità. Nel corso di una lezione gli studenti, suddivisi in gruppi di tre, hanno scelto ciascuno una cartolina illustrata e sono poi stati invitati ad esprimere il nesso esistente tra l’osservatore ed il motivo raffigurato.

(da Internet)

.

.

EUDEMONOLOGIA,

OSSIA

L’ARTE DI ESSERE FELICIdi G. N.

(Dai “PROPOS” di Alain) Tradotto, ridotto e  arrangiato 

Fig.  13

“La felicità è uno stato di grazia che ci prende e all’improvviso svanisce.  Ma è anche la capacità di aprirsi al mondo e di costruire rapporti positivi.”

Si dovrebbe insegnare ai bambini l’arte di essere felici. Non l’arte di essere felici quando una disgrazia ci piomba addosso; lasciamo questo agli stoici; ma l’arte di essere felici quando le circostanze sono passabili e tutta l’amarezza della vita si riduce a piccole noie o a malesseri di poco conto.

La felicità dipende molto dal nostro modo di guardare la vita. 

La prima regola sarebbe di non  parlare mai delle proprie disgrazie; presenti o passate. Si dovrebbe considerare una mancanza di riguardo descri­vere un male di testa, un senso di nausea, un’acidità, una colica, le disgrazie e le disillusioni.

Comunque lo si dovrebbe fare con termini adatti. 

Si dovrebbe spiegare ai bambini, ai giovani e anche agli adulti una cosa che si dimentica troppo spesso e cioè che il compiangersi non può far altro che rattristare chi ci ascolta,  ci  rende sgraditi, anche se spesso gli altri sollecitano tali confidenze e anche se sembrano compiacersi di consolarci.

La felicità vera è quella che dura;  la felicità è consapevolezza del piacere; non coincide con il piacere sensibile; infatti pare che gli animali provano piacere ma non sono destinati ad essere felici. 

Ognuno cerca di vivere e non di morire  ed è necessario  cercare  coloro  che si dicono contenti e che si mostrano contenti di vivere.

Che cosa meravigliosa sarebbe la società degli uomini se ciascuno aumentasse il fuoco invece di piagnucolare sulle ceneri!

Questa deve essere la regola della società educata.  Non è una buona ragione portare le proprie miserie ovunque; non ne deriverebbe che una noia più cupa. Nel  cerchio familiare, spesso, per troppo abbandono, ci si lagna di cose alle quali non

si penserebbe affatto se ci si preoccupasse di renderci graditi. Il piacere di pensare a cose più importanti deriva senza dubbio dal fatto che si dimenticano in questo caso, per necessità, mille piccoli mali, il cui racconto sarebbe noioso. 

Il principio è questo: se tu non parli dei tuoi piccoli guai finirai  col  pensarci  molto  meno.

In quest’arte di essere felici si può aggiungere qualche suggerimento su come accettare il cattivo tempo.  

Cade la pioggia: le tegole tintinnano; mille piccoli rigagnoli mormorano; l’aria è lavata e come filtrata; le nubi sembrano dei magnifici cenci. Bisogna imparare ad afferrare queste bellezze. Ma qualcuno dice: la pioggia nuoce alle messi. Un altro: il fango imbratta ogni cosa. Un altro: è così bello sedersi sull’erba. E’ vero, lo si sa, ma il lagnarsi non cambia nulla, e si riceve invece dalla pioggia un senso di malumore che ci portiamo fra le pareti di casa.

Ebbene, è soprattutto quando piove che si vogliono dei visi gai.

Quin­di, facciamo buon viso a cattivo tempo.

LA  FELICITÀ

 di   M. F

Fig.14

La felicità è sempre stata al vertice delle ambizioni umane: uno stato di perfezione a cui aspirare. Nel corso della storia del pensiero però l’idea di felicità non è sempre stata la stessa.

Per gli antichi greci, coincideva con la virtù, ed era un dono divino. Per i romani implicava la ricchezza e il favore degli dei e prendeva come simbolo il fallo.

Per i cristiani era sinonimo di Dio e implicava la fine delle sofferenze terrene e la beatitudine eterna.

 Solo negli ultimi due secoli, però, gli esseri umani hanno iniziato a considerare la felicità un obbligo, un diritto di natura, e non una delle tante possibilità dell’esistenza. Nel ricostruire la storia dell’idea di felicità, Darrin Mc Mahon parte dall’epoca classica per mettere in luce la rivoluzione che si è prodotta nel Settecento e ha plasmato la nostra idea dell’uomo e delle sue aspettative terrene, con un forte impatto anche sulla politica: basti pensare al diritto alla felicità inserito da Thomas Jefferson nella costituzione degli Stati Uniti. Utilizzando la genetica e la psicologia, esplorando la pubblicità e il consumismo, passando dai farmaci della felicità come il Prozac ai sorridenti simboli degli sms,  il  libro  suggerisce  che  questa  forsennata  ricerca  della

felicità può anche provocare nuove infelicità.

Tutti noi siamo sempre alla ricerca della felicità, tante volte l’abbiamo sotto mano e nemmeno ce ne accorgiamo; ma cosa vogliamo sul serio da questa vita, cosa potrebbe davvero renderci felici? Si tratta di un’abilità individuale, e non di un’eventualità del destino: tutti possono essere felici se imparano a capire come si fa ad esserlo. Infatti, per vivere una vita felice è necessario essere capaci di godere di ciò che già si ha. La felicità non va ricercata nel futuro, ma nel presente, perché non dobbiamo dimenticare che il nostro attuale presente è il futuro che immaginavamo per noi qualche tempo fa.

Molti dei nostri desideri sono stati realizzati, ambiziosi traguardi sono stati raggiunti.  Ma siamo forse per questo “Felici” ora? La risposta è “no”, o meglio “ancora no”. Ognuno di noi ha qualcosa che ancora gli manca per essere felice: il matrimonio, un lavoro, la carriera, la casa, la laurea, la vacanza.

  E allora chiediamoci: ma noi non saremo mai felici? cercheremo sempre qualcosa che ci manca anche se abbiamo già tutto?

 . (da internet)

. FELICITÀ

RELATIVA O ASSOLUTADi M. M.

Fig.15

Il Gran Maestro Gustavo Raffi, nella sua allocuzione alla Gran Loggia 2003, alla quale ebbi il piacere di partecipare con l’allora Maestro Venerabile Guido Mario Destri,  definì così la Felicità:

“Per molti uomini è un’esperienza rara e temporanea. Per i più un traguardo sfuggente e illusorio. Per tutti  un metro per giudicare  la qualità dell’esistenza , l’importanza dei sogni e dei desideri, l’atteggiamento dell’uomo verso il mondo e il suo viversi……….”

Lo scrittore Kierkegaard diceva:

Privare se stessi dell’amore e della capacità di essere felici è il più tremendo degli autoinganni; è una perdita definitiva a cui niente può porre rimedio, né il tempo né l’eternità.”

Spesso ci  chiediamo  come poter essere felici usando le nostre capacità mentali e umane; la risposta forse è dentro di noi, perché l’essere umano possiede le risorse interiori per indirizzare la propria vita verso cammini più fruttuosi.  Si tratta solo di spezzare il profondo letargo in cui l’epoca attuale ha gettato l’uomo, è  un problema di orgoglio e decisione, la chiave è la determinazione. Allora ci saranno sempre possibilità, per chi cerca costantemente di migliorarsi interiormente per  costruire e dare forma a un mondo in cui sia possibile crescere, vivere ed evolversi. La Massoneria con i suoi simboli e i suoi insegnamenti iniziatici, si pone come una delle alternative più attuali ed efficaci per risvegliare “ l’eccellenza “ degli esseri umani per raggiungere  questa meta vitale, cercando di far sentire l’urgenza del risveglio che l’essere interiore esige con tanta forza per raggiungere l’obiettivo di trasformare la vita in una cosa magnifica ed armoniosa.Come si recita anche tra i  doveri di ogni singolo Massone  art.9:

 

 “operare effettivamente alla propria elevazione morale, intellettuale e spirituale”

Tale concetto è espresso più chiaramente nel Rituale di Iniziazione:

Se credete sinceramente che la  FELICITA’ sia nella carità, nello studio, nella esaltazione della virtù, allora potete rimanere tra noi e sforzavi di liberare il vostro essere dalle passioni che lo avviliscono ancora e che gli impediscono di gioire della serenità del saggio.”

Quando le nostre necessità o i nostri desideri sono soddisfatti, ci sentiamo felici, ma questo non basta a mantenere la sensazione di gioia. Se anche una persona non è pienamente soddisfatta della sua vita attuale può tuttavia sentirsi più felice di prima; nessuno, però, è costantemente felice, anche se al momento le cose vanno bene.

Questo tipo di “felicità è relativa”, in quanto attimo fuggente. Una felicità più profonda e duratura non dipende né dall’oggetto del desiderio o del bisogno, né dal proprio passato, né da qualsiasi altro fattore esterno; essa deve essere ricercata dentro di noi. La felicità è proporzionale alla capacità di attingere dalla nostra forza vitale e alla speranza che nutriamo nel futuro. Chi non coltiva queste qualità  e ricerca la felicità in una vita facile e comoda, perde gran parte di ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

La Massoneria insegna  la via della “Luce”, aiuta a sviluppare una nuova vitalità, una grande saggezza  e spinge l’iniziato a sfidare qualunque ostacolo, a mutarlo in felicità sviluppando la forza vitale che è in lui, in un obiettivo concreto di vita; questo è l’atteggiamento che conduce alla “felicità assoluta” di un’esistenza. Ricordo le parole di una grande donna messicana, Emma Godoy,

“Ascolta: hai soltanto una vita, fai di essa un capolavoro! “                                                                                                        

LA FELICITÀ NEL LAVORO

DEGLI APPRENDISTI

di      E          P

Fig.  16

La ripresa dei lavori dopo la pausa estiva ha visto impegnati i  sei  Apprendisti ed il sottoscritto su un lavoro corale avente per oggetto la figura di Giuseppe Garibaldi.

Si è deciso di lavorare su Garibaldi : patriota, fuggiasco, eroe, massone per ricordare questo grande Uomo, nell’anno a lui dedicato, ricorrendo nel 2007 il bicentenario della nascita.

La ricerca ha come colonna portante la biografia dell’Eroe dei due mondi, con approfondimenti in occasione della fuga attraverso la Toscana, che ha visto patrioti maremmani impegnati nel salvamento di Garibaldi, e relativamente alla vita massonica del   Gran Maestro.

Non voglio togliere spazio ad Alberto, Antonio, Enrico, Matteo, Maurizio, Paolo, vorrei solo sottolineare il grande piacere vissuto nello svolgere il lavoro.

All’inizio non è stato facile decidere come procedere, i punti di vista erano diversi, ma finalmente sono stati suddivisi i compiti ed abbiamo iniziato a lavorare. Al termine di ogni  incontro uscivamo sempre più motivati nel vedere che il nostro  lavoro prendeva la forma auspicata.

Portavamo avanti un lavoro, sicuramente, modesto ma il desiderio di fare cosa gradita a noi stessi ed ai Fratelli della Loggia Guerrazzi ci riempiva di gioia.

Lo scoprire aspetti della vita del nostro protagonista, fino a quel momento sconosciuti, ci rendeva felici così come l’entrare in possesso di documenti storici che testimoniavano, in maniera particolarmente dettagliata, gli eventi vissuti intorno a Palazzo Guefi nel 1849: pochi patrioti, incuranti dei pericoli cui andavano incontro, si sono resi protagonisti di un pezzo,  fra i più belli, della storia d’Italia. Resisi conto della grande impresa compiuta, questi nostri compaesani hanno voluto lasciare, a futura memoria, una testimonianza ad un notaio dell’epoca; per tutti noi l’entrare in possesso della copia di questo raro documento è stato particolarmente emozionante.

Il piacere più bello del lavorare insieme è stato l’essere artefici della nostra felicità: felicità nello stare insieme, felicità nel lavorare per un obiettivo comune, felicità nel veder crescere la stima reciproca fra persone che fino a poco prima erano degli sconosciuti ed ora sono Fratelli.

Felicità di potersi esprimere con franchezza senza pregiudizi da parte di nessuno, felicità nel ricevere consigli ed osservazioni, sicuri che sono dati esclusivamente per il nostro bene. Felicità di essere giudicato per ciò che sono e non per ciò che posso apparire perché il giudizio di un fratello non ha mai fini diversi dall’aiutare a crescere.

Tutto questo rinforza il senso di appartenenza e di stima reciproca valorizzando l’essere Uomo.

Giuseppe Garibaldi

Giuseppe  Garibaldi  (Nizza 4 luglio 1807- Isola di Caprera 2 giugno1882) è stato un condottiero,  generale e patriota. Considerato una delle figure fondamentali del risorgimento italiano, ha condotto e combattuto personalmente in molte delle campagne militari che hanno portato alla formazione dell’Unità d’Italia.

Il padre, originario di Chiavari, e la madre di Loano, avrebbero voluto avviarlo alla carriera di avvocato, di medico o di

prete, ma Garibaldi amava poco gli studi e prediligeva sopratutto la vita di mare ed il divertimento. Dopo vani tentativi di dissuasione, il padre gli fece intraprendere la carriera marittima

e nel 1821 venne iscritto nel registro dei marinai di Nizza.

Nel 1824 a sedici anni compie il primo viaggio a Odessa sulla nave “Costanza”, in seguito compie altri viaggi sulle coste francesi.

Fino al 1832 naviga sopratutto nel mediterraneo.

Nel 1833 durante un viaggio per Costantinopoli conosce Giambattista Cuneo che lo inizia alle idee della Giovine Italia.

 Questo viaggio cambiò la vita di Garibaldi, come poi lui stesso scrisse nelle sue “Memorie”.

Sempre nel 1833 conosce Mazzini a Londra dove quest’ultimo era in esilio, protetto dalla Massoneria Inglese, rimanendo colpito dagli ideali di libertà e di ribellione che ovviamente condivideva.

Nel febbraio del 1834 dopo essersi arruolato nella Marina Sarda, Mazzini gli affida il compito di organizzare un’insurrezione a Genova, collegata ad un moto di rivolta in Savoia, ma dopo il fallimento di quest’ultimo da parte dell’esercito, anche il progetto di Garibaldi fallisce.

Aiutato da alcune persone fugge prima a Nizza e poi a Marsiglia e diventa un “bandito”.

Nel 1835 giunto a Tunisi, dove vivevano circa 8000 profughi europei, di cui un terzo italiani, Garibaldi viene a conoscenza dell’affievolirsi della forza della carboneria e si interessa sempre più  alla nascita della “Giovine Italia” e al suo programma repubblicano per l’Unità d’Italia.

Da qui decide comunque di partire per un  lungo esilio in Sud America, fino al 1848. Combatte in difesa della Repubblica de Rio grande do Sul contro l’Impero brasiliano e la Repubblica uruguaiana, comanda una flotta uruguaiana contro il dittatore argentino Rosas e partecipa alla difesa di Montevideo con l’aiuto di molti volontari, tutti vestiti con camicie rosse (non avendo sufficienti finanziamenti trovò ed usò questo panno di lana rosso usato dai macellai).

Nel 1839 incontra Ana Maria de Jesus Ribeiro, meglio conosciuta come Anita, che sposerà nel 1842. Dal matrimonio nasceranno quattro figli: Rosita morta a soli due anni, Menotti, Teresita e Ricciotti.

Tornato in Italia nel 1848 per partecipare alla prima guerra di indipendenza, dopo avere saputo delle notizie delle riforme di Pio IX e di Carlo Alberto, giunge prima a Nizza e poi a Genova. Qui riceve un’accoglienza entusiastica da parte del popolo, ma il Re è invece piuttosto restio a servirsi di lui.

Il Governo provvisorio gli affida comunque a Milano un reparto di 1500 uomini con i quali opera sul lago Maggiore.

E’ costretto però ad arrendersi a Radetzky e a tornare a Nizza.  Si reca poi in Toscana e nello stato Pontificio dove, dopo la fuga di Pio IX, è instaurata la Repubblica Romana. E’ eletto deputato alla Assemblea costituente nel 1849, e il 5 febbraio entra in Campidoglio a Roma ed organizza un esercito.

In questo periodo Garibaldi respinge diversi attacchi compiuti dall’esercito francese a Roma,  dai Borboni di Napoli a Palestrina e a Velletri e dall’esercito spagnolo e austriaco, chiamati entrambi da Pio IX per difendere gli interessi della Chiesa.

Il 2 giugno del 1849 deve però cedere quando il nemico attacca alcuni punti strategici della difesa di Roma.

Garibaldi fugge da Roma, caduta il 2 luglio, inseguito da ben quattro eserciti.  Il 4 agosto, durante la fuga, muore a Ravenna nelle paludi di Comacchio, Anita, malata di influenza e per mancanza di cure.

La fuga di Garibaldi continuò anche lungo la Toscana fino ad arrivare proprio nella nostra terra.

Infatti l’ultima tappa verso il “mare liberatore” è palazzo Guelfi, una delle case di “posta” volute dai Lorena ai tempi delle bonifica della Maremma. “Alle cinque del mattino del 2 settembre Garibaldi pedestre e scorto da un compagno solo, il Leggero, guidati da un manipolo di patrioti locali, partirono, e per la campagna e per la macchia, dopo aver attraversato la strada delle Collacchie e quella delle Costiere, raggiunsero la costa a Cala Martina. Alle 10 di mattina salirono a bordo di una barca da pesca, che il 15 settembre approdò a Spezia”.

Nel 1849 tra l’altro inizia le stesura delle sue memorie autobiografiche. Nel settembre del 1849 è arrestato a Chiavari, ma mentre lo trasportavano a Genova, sfugge alla cattura e si imbarca per Tunisi.

Da qui viene convocato in Inghilterra, per organizzare un’azione contro le due Sicilie. In accordo con la Massoneria inglese, Garibaldi parte per New York (1850), dove  viene  accolto

da alcuni esuli socialisti francesi e inglesi e, ospitato in casa del massone Antonio Meucci, apre una fabbrica di candele allo scopo di mascherare la sua presenza negli USA, atta invece solo ad ottenere aiuti finanziari e militari dai nord americani.

Nuovamente capitano di marina viaggia lungo l’America centrale, in Estremo Oriente, in Cina e in Australia fino al 1854.

Prima di tornare in Italia nel 1854 si ferma a Londra dove incontra Mazzini. Arriva a Genova durante il colera e si offre volontario per l’assistenza ai malati.

Nello stesso anno compra metà dell’isola di Caprera mettendosi a fare l’agricoltore.

Nel 1856 e il 1857 progetta un incursione sull’isola di Santo Stefano, dove si trovano alcuni prigionieri politici napoletani; sempre nel 1857 incontra per la prima volta Cavour.

Nel 1859 dopo la dichiarazione di guerra all’Austria (seconda guerra di indipendenza), è nominato generale dell’esercito sardo, opera nella zona del lago Maggiore e del lago di Como.

Dopo l’armistizio di Villafranca, accetta il comando in seconda dell’esercito della Lega d’Italia.

Nel gennaio del 1860  sposa e ripudia nello stesso giorno la marchesina Giuseppina Raimondi perché scoprì che la moglie aspettava un figlio da un altro uomo; chiese l’annullamento per matrimonio non consumato che ottenne dopo 20 anni.  Torna a Genova riavvicinandosi ai mazziniani a causa della cessione di Nizza alla Francia e, deputato al parlamento, organizza un movimento per impedire il referendum di annessione della cittadina alla Francia, risultato poi, il referendum, abilmente manipolato dalla Francia di Napoleone III.

In questo anno incontra i Massoni Bixio e Crispi che lo convincono ad andare in sostegno di un moto mazziniano per l’invasione della Sicilia, con l’aiuto economico dell’Inghilterra e della Massoneria inglese oltre a quella americana e canadese. Gli inglesi, infatti avevano interesse a questa invasione in quanto in Sicilia si trovavano importanti giacimenti di zolfo.

Il 5 maggio 1860 (Impresa dei Mille), raccolto un esercito di 1000 uomini, le Camicie Rosse, parte per la Sicilia. Sbarcato a Marsala e rafforzatosi con alcune centinaia di volontari, si proclamò dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele. Il 27 maggio conquistò Palermo e il 20 luglio, vinta la resistenza di Milazzo, Garibaldi e Bixio si resero protagonisti della strage di Bronte, conquistando alla fine la città di Messina.

Nel frattempo Cavour che voleva l’immediata annessione della Sicilia, organizza una spedizione per impedire il consolidamento del potere di Garibaldi che governava ormai su tutto il regno di Napoli.

Tra agosto e settembre dello stesso anno, Garibaldi sconfisse prima i borbonici a Reggio Calabria, per poi arrivare a Napoli conquistandola nella famosa battaglia di Volturno.

Il 26 ottobre Garibaldi  incontra a Teano Vittorio Emanuele e gli consegna la sovranità sul Regno delle due Sicilie, rifiutando qualsiasi ricompensa per i suoi servigi.

Il 9 novembre si imbarca per Caprera.

Nel 1861 l’ambasciatore americano a Torino tentò di convincere Garibaldi ad una sua partecipazione alla guerra di secessione americana, ma lo stesso non volle impegnarsi, ufficialmente perché era contrario alla politica  del presidente Lincoln, ma sembra più verosimile che Garibaldi fosse speranzoso di una iniziativa di Vittorio Emanuele su Roma e sul Veneto.

Nel marzo del 1862 a Torino, il Supremo Consiglio del Rito Scozzese antico ed accettato gli affida il titolo di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, col 33°grado. Inoltre il Grande Oriente di Palermo gli conferì tutti i gradi scozzesi dal 4° al 33° e a condurre il rito fu un altro fratello Massone, Francesco Crispi.

Detenne la carica di Gran Maestro solo per pochi mesi, in quanto per alcuni esponenti era  troppo impegnato politicamente; infatti il futuro Gran Maestro, Lodovico Frapolli vide nella sua nomina, un passo indietro rispetto al progetto di depoliticizzazione della Massoneria che gli stava molto a cuore.  Nel 1867 comunque fu nominato Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia, facendo diventare così il legame con l’Istituzione molto saldo.    Ricordiamo che Garibaldi fu iniziato nel 1844 a Montevideo (Uruguai ) all’età di 37 anni durante il suo lungo esilio in Sud America, nella Loggia irregolare “L’Asilo Della Virtù”, regolarizzandosi poi il 24 Agosto del 1844 nella Loggia “Gli Amici Della Patria”,  dipendente dal Grande Oriente di Francia.

Sempre nel 1862 presenzia a Genova al congresso del Comitato per la liberazione di Roma e Venezia dove si forma la Società Emancipatrice con Garibaldi presidente. Ricordo che il nostro eroe ha sempre avuto un odio verso il potere temporale della Chiesa.

A giugno nel tentativo di liberare Roma infatti si reca a Palermo e accolto da un tripudio popolare attraversa tutta l’Isola e organizza un esercito per andare a conquistare Roma. Napoleone III però aveva posto Roma sotto la propria protezione, e quindi il tentativo era destinato a fallire; infatti Garibaldi fu fermato sull’Aspromonte, dove i bersaglieri aprirono il fuoco, ma Garibaldi ordinò ai suoi di non sparare, venne ferito ad una gamba e a un piede. Venne trasportato a Pisa dove fu operato per poi ritornare a Caprera e rimanerci per tutto il 1863 a causa della ferita.

Nel 1864 si reca a Londra dove riceve accoglienze trionfali, incontra di nuovo Mazzini e tutti i rivoluzionari là in esilio.

Nel 1866 scoppia la terza guerra di indipendenza, viene riorganizzato il corpo volontario dei Cacciatori delle Alpi con al comando ovviamente Garibaldi; il suo campo di azione è la zona tra Verona e il Tirolo con il compito di evitare che le truppe austriache entrino in Italia. Nonostante alcune vittorie viene fermato a causa dell’armistizio di Cormons. Ricevuta la notizia Garibaldi rispose telegraficamente “obbedisco” parola che successivamente divenne motto del Risorgimento italiano e simbolo della disciplina e dedizione di Garibaldi.

Nel 1867 riorganizza ancora un attacco contro Roma. Rattazzi (attuale presidente del Consiglio) lo fa arrestare e confinare a Caprera, da dove riesce ad evadere e raggiunge la Toscana; qui si unisce ai suoi volontari e parte alla volta di Roma questa volta però da Terni, ai confini con lo stato Pontificio: vince a Monterotondo, piazzaforte pontificia, ma viene sconfitto dalle truppe del Papa a Mentana, grazie soprattutto ai nuovi fucili automatici forniti da Napoleone.

Nel 1870-1871 partecipa alla guerra franco-prussiana a fianco dei francesi.

A Digione vince i prussiani, e dopo l’armistizio franco-prussiano viene eletto deputato del dipartimento della Senna, ma declina l’invito e torna a Caprera.

Nel 1873 pubblica I Mille.

Nel 1874 è eletto deputato alla Camera, dove tra l’altro espone un progetto per bonificare l’Agro Pontino e rendere navigabile il Tevere.

Nel 1879 e il 1882  fonda la Lega della Democrazia con il programma, tra l’altro di dare il suffragio universale, di confiscare le proprietà ecclesiastiche e abolire l’esercito stanziale.

Sposa Francesca Armosino, conosciuta dopo poco la fine del suo brevissimo secondo matrimonio, viaggia ancora in Calabria e poi in Sicilia, per poi fermarsi nella sua isola di Caprera, dove muore il 2 giugno 1882 

Ricordiamo che dopo la morte di Garibaldi, la Massoneria si incaricò di conservarne la memoria e di alimentarne il suo mito. “Garibaldi” fu il nome di gran lunga più diffuso fra quelli dati alle Logge italiane e straniere, insieme ad altre denominazioni come “Caprera”, “Luce di Caprera”, “Leone di Caprera”.

La Massoneria promosse molte commemorazioni, inaugurazioni di lapidi e monumenti alla memoria, come quello, tra i più importanti, sul Gianicolo a Roma il 20 settembre 1895 nel 25° anniversario di Porta Pia. Ricordiamo inoltre che il suo nome in toponomastica è presente in sei comuni italiani su dieci, ed è secondo solo a quello di Roma.

In appendice foto e documento storico.

POSSIBILI RAGIONI DELLA

NON FELICITÀ NEL PENSIERO DELL’«UOMO MASSONE»

-*Scrittura notturna-

di Claudio Spinelli

Fig. 17

Alla memoria di Ferdinando Pieri, mio Fratello;

maestro di vita e di morte.

«Forse  s’avess ’io l’ale  da  volar  su le nubi,

e noverar le stelle ad una ad una …,

 più felice sarei,… candida luna»

( G. Leopardi  -1830 )

In questa tavola cercherò di motivare, a partire da una articolata riflessione sulla felicità, una mia personale idea: che nel pensiero dell’uomo massone è assente la felicità. Lasciamo agli altri, i profani, di essere felici, ma noi dobbiamo continuare ad essere inquieti. Io credo che non dobbiamo ricercare nella Massoneria, in modo ossessivo ed acritico la felicità, perché non la troveremmo, altrimenti potremmo rimanere delusi, scontenti e conseguentemente pian piano allontanarsi dall’Ordine.

Prima di ogni altra cosa è necessario comprendere che cosa diciamo quando pronunciamo la parola “felicità”. Questo concetto nel suo senso più puro ed antico, decostruendo la parola e facendo un’indagine etimologica, offre non poche sorprese (1). La parola proviene dalla radice “thele”.  “Thelos”: capezzolo in greco ed esprime la mutua felicità della madre e del figlio nel rituale dell’allattamento. Nel dizionario della lingua italiana il termine “felicità” viene descritto come una condizione di letizia, di gioia, di soddisfazione, di beatitudine e di contentezza.

        Felice è il momento di passaggio da una sensazione di “mancanza”  ad una sensazione di  “riempimento”.

Credo che sia utile, al fine di dimostrare ciò che ho ipotizzato, classificare ulteriormente  il significato della felicità; esistono infatti modi diversi di felicità. Dobbiamo distinguere innanzitutto una “felicità personale” ed una “felicità universale o pubblica”; la felicità personale a sua volta può essere suddivisa in rapporto al tempo, in una forma di “felicità breve” ed in una forma di “felicità duratura.

A.Felicità universale o pubblica o sociale o bene comune. Tutte le grandi ideologie o le rivoluzioni, che hanno mosso la storia universale, avevano come scopo l’eliminazione della infelicità sociale. Tutti gli uomini aspirano alla felicità; tutti sono d’accordo nel voler essere felici.

L’uomo tende, grazie alla sua “etica naturale” ad amare il buono, il bello, il giusto; a volere la pace, il rispetto dei diritti umani. Anche se non dobbiamo dimenticare che  la “volontà” umana è libera (libero arbitrio); libera anche di perseguire il proprio o l’altrui svantaggio e la propria o l’altrui distruzione.  Non c’è bisogno di essere dei politici, dei teologi, dei filosofi o dei massoni, per comprendere questo naturale “impegno morale” nei confronti del prossimo. Anche se la nostra psiche è in grado di reagire solo al nostro ambiente e al mondo circostante. Ma non è in grado di interiorizzare veramente i fenomeni mondiali. Essa percepisce il vicino ma non il lontano.

I tedeschi hanno infatti due espressioni quando parlano del mondo ,”welt” che vuol dire mondo e “unwelt” che vuol dire mondo circostante. A noi Liberi Muratori una delle prime cose che ci viene insegnato, è che siamo al mondo per migliorare non solo le nostre coscienze ma anche quelle dei nostri simili.

 Credo che la Massoneria continui ad avere un ruolo rilevante in questa società “moderna”, proprio per il suo nobile fine, rivolto non solo verso la ricerca di una perfezione individuale ma anche verso una perfezione o felicità sociale. Non dobbiamo dimenticare che alla base dei nostri Regolamenti del 1762 e delle Grandi Costituzioni del 1786 , viene riportato tra gli scopi la ricerca della felicità  per il singolo uomo e dell’umanità intera. Questi concetti sono stati ripresi successivamente da Thomas Jefferson nel 1776, per stilare il testo della Dichiarazione d’Indipendenza .

Nella società contemporanea, la naturale tendenza dell’uomo alla ricerca della felicità sembra addirittura  in forte espansione. Siamo ossessionati dalla ricerca a tutti i costi della felicità; domina la “cultura della felicità o della perfezione”, che induce a non accettare tutto ciò che non sia bello, splendente, positivo, felice. L’uomo oggi non sembra più capace di emozionarsi, di vivere il dolore, la sofferenza, la morte. Siamo di fronte ad una crescente “indifferenza” ed “ intolleranza”. La nostra Scuola Iniziatica ci educa alle emozioni; nei nostri lavori c’è una continua riflessione nei confronti degli aspetti sia positivi che negativi della vita, come il dolore, la malattia, la morte. Tutto questo ci aiuta a capire il prossimo, a interiorizzare i sentimenti, a dominare le paure, a sviluppare il senso di “Pietas umana” e di ”Agape”.

B. La “Felicità personale” può essere divisa in rapporto al tempo “cronos” in due tipi: la “felicità breve” e lo stato di “felicità duratura”. La felicità breve, momentanea, passeggera è espressione del suo significato più arcaico, identificabile con la gioia, il piacere, il godimento; destinati a durare il tempo di un baleno. Nell’attimo stesso in cui incomincia, inizia già ad esaurirsi. In contrapposizione alla felicità breve esiste uno “stato di felicità duratura”.Questo è un concetto più difficile da spiegare; esso si identifica più con il concetto di “serenità” che con quello di felicità.

 Rappresenta il nostro “stato d’animo” o meglio il “rumore di fondo del nostro pensiero”, che può essere “melanconico o sereno”. L’aggettivo “sereno” ci riporta rapidamente in mente il cielo sereno-chiaro –distinto, privo di nuvole e di foschia. Un cielo che lascia passare lo sguardo fino all’orizzonte, all’infinito. Quindi è “sereno” colui che si lascia attraversare dai pensieri, dagli eventi, dalle emozioni, dalle passioni, dagli imprevisti della vita senza lasciarsi turbare, senza offuscare il suo orizzonte, senza temere che tutto ciò alteri la sua esistenza. Credo che raggiungere questa capacità sia davvero impossibile. Chiunque, se interrogato su quale sia il dono che più desidererebbe dalla vita , risponderebbe “Un po’ di serenità” (2) .

Tutti la desiderano; ma le “passioni” ed i “desideri” che animano la nostra esistenza, ci condannano a forme più o meno tragiche di fallimento esistenziale. Forse è questo il motivo per cui non conosco nessuna  persona con uno stato d’animo completamente felice;  come non conosco nessuna persona completamente sana; conosco solo persone più o meno affette da malattie, più o meno gravi.

        I filosofi  si sono interrogati da sempre intorno al problema della felicità, allo scopo di migliorare il modo di vivere degli uomini: la filosofia come terapia dei mali dell’anima. Nella grecità, la condizione di perfetta serenità veniva raggiunta seguendo i principi di Epicuro (3) che ammoniva di astenersi o liberarsi dall’incessante sfera del “desiderio”. Lo Stoicismo ed il suo massimo interprete Socrate miravano a raggiungere la serenità tramite un adeguato dominio delle “passioni”. La tradizione ebraico- cristiana invece ha introdotto il concetto di trasgressione, ossia del peccato.

La felicità in questa vita è raggiungibile solamente se, nella lotta tra  passioni  razionali e passioni  irrazionali,  che  avviene

all’interno della nostra anima “desiderante”, vince la prima, quella rivolta alla verità ed al bene. Domina nel cristiano il sentimento di “privazione”; capace di per sé anche di rigenerare il desiderio e da qui la tentazione ed il peccato. Non a caso, anche il cosiddetto “peccato originale” nasce nel testo biblico proprio in virtù di un divieto. Ad Adamo ed Eva venne fatto divieto di cibarsi dei frutti dell’albero della “conoscenza” del bene e del male; altrimenti se lo avessero fatto sarebbero diventati mortali. In questo atto risiede la vera origine del male e quindi della tentazione e del peccato.

L’uomo diventa quindi mortale per aver infranto un divieto. L’uomo con questa azione ha scelto liberamente di trasgredire, di conoscere sia il bene che il suo opposto, il male. Pertanto nasce proprio con la tradizione giudaica, l’idea secondo cui “conoscere” significa morire. L’uomo è peccatore perché conosce, perché è capace di distinguere e di scegliere tra il bene ed il male.

Il Cristianesimo infatti invita l’uomo non alla conoscenza ma alla “fede”; non “gnosi”, non “sophia”, ma agape: amore e carità. Questa Dottrina si fonda inoltre sulla “speranza”; vera e propria forza vitale, sufficiente a far sopportare il male del vivere. In tal modo la vera felicità può essere solamente sperata. Pertanto la Speranza, la Fede e la Carità (le tre virtù teologali – disposizioni al bene che l’uomo ha ricevuto direttamente – infuse da Dio attraverso i sacramenti) rappresentano le vere e proprie condizioni di salvezza o di felicità dell’uomo sia durante la vita che dopo. Anche la dottrina Buddista invita a smettere di desiderare, di liberarci dal troppo, a far vuoto, ad escludere il desiderio dall’orizzonte della tormentata esistenza; ossia ad imparare ad accettare  beatamente la “mancanza”; e dunque in sostanza a “non volere”.

Comunque sembra evidente che tutte le strategie, messe in atto dalle religioni, dalla filosofia o dalle utopie politiche, non sarebbero, almeno apparentemente, riuscite a soddisfare il bisogno di felicità o meglio di serenità dell’uomo. F.W.J. Shelling (4) filosofo tedesco, citato ampiamente da George Steiner (5), figura di primo piano nella cultura internazionale, sul suo affascinante libro sulle  possibili ragioni della tristezza del pensiero, annette all’esistenza umana una tristezza inevitabile.

Questa tristezza fornisce il fondo oscuro in cui si radicano la consapevolezza e la conoscenza. Il pensiero è rigorosamente inseparabile da una « melanconia profonda ». In questa nozione

c’è  quasi  certamente, il “rumore  di  fondo” della  Bibbia, ed in

particolare l’acquisizione illecita della conoscenza. Il pensiero e la conoscenza portano con sé un inevitabile velo di malinconia. Con la conquista da parte dell’uomo della facoltà di pensare, grazie all’evoluzione dei processi cerebrali, e quindi nel passaggio dall’uomo “non pensante” all’uomo “pensante” (sapiens), è iniziata l’infelicità della specie umana. I processi del pensiero purtroppo sono continui anche durante il sonno. L’uomo cessa di pensare solo con la morte. Ma perché il pensiero umano e la conoscenza non dovrebbero essere gioia? Heidegger (6) diceva che il compito essenziale del pensiero è quello di pensare all’ Essere .

L’uomo quindi, al contrario degli animali, grazie all’illimitatezza del suo pensiero riflette inevitabilmente sulla sua esistenza, medita, si pone le domande “ultime”. Come è nato l’Universo? Quale è l’origine della specie? Esiste un Essere Supremo? Pensa al destino, al futuro: al male fisico, alla malattia che può sopraggiungere in modo inaspettato; alla morte, che coincide con  “non Essere”. Si chiede se esiste il “dopo”, se esiste una vita personale dopo la morte (7,8).

L’assenza di risposte – sia personali che collettive- soddisfacenti o conclusive, genera solamente dubbio e frustrazione. Questo è un primo motivo di non felicità dell’animo. Inoltre i pensieri sono il nostro unico possedimento sicuro; ma non possiamo permetterci di decifrare i pensieri di un altro. L’abilità di mentire, di nascondere e di mettere in atto finzioni è caratteristica dell’uomo. Solamente le dinamiche della paura o dell’odio sono difficili da falsare. La perfetta trasparenza del pensiero sembra appartenere solo al mondo animale.

La consapevolezza della potenziale “non veridicità del pensiero”, della mancanza di una possibile verifica della sincerità o falsità del pensiero soggettivo ma anche del pensiero pubblico, è un ulteriore motivo di tristezza d’animo. Per questo motivo di fronte ad una annunciata asserzione di “verità”, persino ad una verità scientifica, storica, dottrinale o filosofica, l’uomo tende ad essere scettico ed a relativizzare tutto.

 Solamente il simbolismo, oltre alla matematica pura, può essere affrontato senza scetticismo; questo avvalora l’importanza del nostro Ordine, basato fondamentalmente su “verità simboliche”. Un’altra fonte di tristezza dell’animo umano è rappresentata dalla consapevolezza che non esiste una correlazione  sicura  tra  pensiero  ed  atto.

Siamo consci delle nostre costanti “disillusioni”, delle nostre speranze tradite, del fallimento tra ciò che avevamo concepito, con il pensiero, e ciò che abbiamo realizzato; tra l’immagine fantasticata e la realtà .

Giacomo Leopardi (9) aveva ben capito che lo stato di felicità non fa parte dell’uomo. Sapeva benissimo che proprio nell’attività del pensiero e nella conoscenza, caratteristica della nostra specie, andava individuata l’infelicità di ogni esistenza umana. Meglio ridursi a “zoè”- cioè ad un animale che rimanere” bìos” ( essere pensante) . Ecco che l’Autore per raggiungere la felicità sogna nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” (come riportato sopra), di diventare un uccello, che non può conoscere nulla, indifferente al suo stesso esistere.

Credo che sia necessario adesso focalizzare il significato di  “felicità per un uomo massone”.

Io non credo che un Libero Muratore, possa raggiungere uno stato di felicità ( personale – duratura).L’uomo massone è un “essere pensante e libero”, “ansioso di conoscenza”, rivolto alla ricerca della “verità”, alla individuazione dell’ essenza più intima del “senso” di vivere e di morire. La sua riflessione è rivolta fondamentalmente all’ “essere-esserci”.

La nostra Scuola di pensiero (Ordine Iniziatico), essendo al tempo stesso razionale e spirituale, basata sul riconoscimento di una Potenza Superiore, ci esorta a lottare e a proteggere noi stessi ed il prossimo dal “male”; ci educa a riconoscere i principi morali e ad applicarli coerentemente nella vita pratica; ci incoraggia a passare da “uomini in potenza” a “uomini in atto”(10). Credo che le peculiari caratteristiche dell’ “essere” uomo massone, di cui ho tracciato il profilo in questa tavola, siano sufficienti, se confrontate con le considerazioni fatte sopra, per rilevare che Egli non può avere uno stato d’animo felice, ma addirittura “inquieto”.

Al contrario, penso che sia possibile una correlazione tra  felicità o meglio  “serenità”“saggezza iniziatica”; acquisita lentamente con il passare degli anni, nel silenzio del tempio. Saggezza intesa  come “saggezza pratica”, buon senso, virtù dell’azione; una saggezza che aiuta a trovare i mezzi per raggiungere un fine. Una sorta di “calcolo pratico”. Saggio è colui che è capace di affrontare le situazioni della vita secondo il criterio della “ragione”, con equilibrio e prudenza;  colui che riesce a  sopportare  con  forza e dignità, per esempio l’assoluta

 imprevedibilità del destino. Memorabile è l’immagine della metafora socratica del saggio, il quale viene paragonato ad uno scoglio battuto dai flutti del mare in tempesta, che lo flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo ed a logorarlo; come memorabili sono le parole della poesia di R.Kipling «… sei saggio se incontrando trionfi o rovina, riesci a trattarli nello stesso modo»  o le parole di Alberto Bevilacqua, nel suo libro “Lettera alla madre sulla felicità”,  «…E’ stata lei ad insegnarmi come la felicità si possa conoscere e vivere anche quando il mondo ti ringhia addosso».

Mi piace chiudere questo lavoro con una citazione ripresa dai “ Fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij (1880)(11), che mi sembra riassumere il pensiero  espresso nella tavola: «…Allora noi gli daremo una quieta, umile felicità, una felicità da esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono….dimostreremo loro che son deboli, che non sono altro che dei poveri bambini, ma che in compenso la felicità bambinesca, è la più soave di tutte…Solo noi, noi che dovremo custodire il segreto, noi e nessun altro saremo infelici.».

Bibliografia

  (1). I. Bordelois . Etimologia delle passioni . Ed. Apogeo 2007

 (2). M. Donà. Serenità – Una passione che libera – Ed. Bompiani 2006

  (3). Epicureo. Lettera sulla felicità. Ed. Pillole BUR 2007

 (4). F.W.J. Shelling.  Ricerche filosofiche sull’essenza delle libertà umana 1809

 (5). Gorge Steiner. Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero- Ed.

       Garzanti 2005

 (6). M.  Heidegger . Essere e Tempo. Ed. Mondadori 2006

 (7). V. Mancuso .L’anima e il suo destino.  Raffaello Cortina  Editore 2007

  (8). S. Natoli. Dizionario dei vizi e delle virtù. Ed. Feltrinelli 2007

  (9). G. Leopardi. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. 1830

 (10). C. Spinelli. Le Grandi Costituzioni (1786). Nuove istruzioni segrete e

        Fondamentali  “Attualità  Etica”- III Convegno Regionale del R.S.A.A.  Pisa  2006

 (11). Fedor Dostoevskij , I fratelli Karamazov. Ed. Newton 2007

*Scrittura notturna” : Ernesto Sàbato, scrittore argentino, scrive che la letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dei ed una notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori.

.

APPENDICE



++++

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

+

++

+

+

+

+

+

+


Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *