IL GRAN MAESTRO E IL CONTADINO AL CONFINO FASCISTA
di Sergio Bellezza
Il 14 novembre, anniversario della vittoria, la polizia fascista faceva irruzione nell’Hotel Dragoni ed arrestava Tito Zaniboni, già deputato socialista, insieme al suo segretario, ‘[…] un certo Carlo Quaglia, che l’aveva aiutato nei preparativi, ma era di fatto un delatore della questura […]”.l’attentatore, che s’era tagliati i baffi, per essere meno riconoscibile, indossava la divisa di maggiore degli Alpini, con al petto le medaglie al valore conquistate nella Grande guerra. Nella stanza, prenotata da tempo, gli furono sequestrate una pistola e un fucile di precisione austriaco, uno Steir Mannlicher con doppio cannocchiale, rinvenuto smontato e chiuso nell’armadio, appoggiato invece, secondo la versione ufficiale, sul davanzale della finestra”. Da quella finestra, prospiciente Palazzo Ghigi, confessava lo Zaniboni, era sua intenzione sparare a Mussolini, quando lo stesso in mattinata si sarebbe affacciato al balcone, per ricevere il saluto del corteo, diretto all’Altare della Patria.
Un tentativo isolato, dopo i vani tentativi di coinvolgere nell’attentato le frange dell’opposizione e la dissidenza fascista, l’azione disperata di chi s’era deciso infine a procedere da solo “[…] Convinto che a costo della mia vita avrei salvato il mio
Paese dalla vergogna e dal danno della tirannia […}”.
Un tentativo pilotato dal regime e abilmente sfruttato ai propri fini politici. Lo attestano la figura e il ruolo del Quaglia che, come scrisse Carlo Rosselli a Salvemini ‘7…] funzionò da agente provocatore per consiglio della Polizia, secondo quanto ebbe a dire Balbo, padrino di Curzio Malaparte, a Nenni, del quale era vecchio amico […]”; confidenza fatta ad arte, da chi in quel momento era condannato all’emarginazione dalla comunanza d’idee tra il Duce e Farinacci. Lo confermava candidamente due giorni dopo “Il Popolo d’Italia”:
Il complotto è stato seguito fin dall’inizio dall’On. Federzoni […]; in tutti i suoi sviluppi è stato accompagnato dalla discreta e vigile sorveglianza della Polizia […] La Polizia avrebbe potuto soffocare il complotto durante la sua preparazione. Le Autorità hanno invece che i colpevoli giungessero fin sulla soglia del loro misfatto”.
L’attestazione di pagamento rilasciata il 23 novembre 1925 dal confidente al segretario del Partito: “Ricevo la somma di Lire 1.000 dall’On. Farinacci Roberto – firmato Carlo Quaglia”, confermava, qualora ce ne fosse bisogno, di chi fosse l’occulta
regia.
Il 5 novembre, Mussolini telegrafava ai prefetti: Attentato contro di me non deve costituire motivo di rappresaglie fasciste. Ordine non deve essere minimamente turbato. Misure del Governo: occupazione tutte logge, arresto tutti colpevoli, scioglimento partito unitario e sospensione giornale
“La Giustizia”
A suo volta Farinacci, segretario del PNF, informava attraverso l’Agenzia Stefani: ieri mattina è stato arrestato l’on. Zaniboni mentre stava per mettere in atto un atto criminoso contro il Duce nostro.
Più tardi è stato arrestato a Torino, mentre era in procinto di recarsi all’estero, il noto massone generale Capello. Il Governo […] ha ordinato a tutti i Prefetti l’occupazione delle Logge massoniche dipendenti da Domizio Torrigiani.
Chiaro il tentativo di coinvolgere il G.0.I., dato che sia Capello che Zaniboni erano fratelli: si voleva accreditare l’idea del complotto massonico e trascinare l’Istituzione sul banco degli imputati.
Un disegno mirato a scompaginare un’associazione di “uomini liberi”, da sacrificare sull’altare del Concordato colla Chiesa cattolica.
L’assemblea del G.0.I. del 28 gennaio 1923, nel rispetto delle regole istituzionali, esprimeva “l’apprezzamento formale dei massoni per l’avvento del fascismo”, ma ribadiva con fermezza i grandi valori su cui la Massoneria non era disposta a transigere: la laicità dello Stato, la libertà in tutte le sue estrinsecazioni, la sovranità popolare, fondamento incrollabile della vita civile.
Mussolini qualche giorno prima aveva incontrato segretamente a Roma il card. Pietro Gasparri, che poneva al Duce la necessità di sconfiggere la Massoneria e quei gruppi politici irriducibili oppositori di ogni idea di conciliazione tra Stato e Chiesa.
“L’on. Mussolini – scriveva in una sua memoria il prelato – pose subito mano a quelle riforme che riteneva necessarie ai suoi fini politici, tali la soppressione della Massoneria e la riforma della legge elettorale)
Chiara pure l’intenzione, come si legge nel prosieguo del comunicato, di sfruttare l’attentato per approvare leggi liberticide, che avrebbero messo fuorilegge associazioni democratiche e partiti democratici, annullando così nel Paese ogni forma di dissenso:
in tutti i capoluoghi di Provincia sia convocato il popolo in segno di giubilo per lo scampato pericolo del Duce, perché è stata evitata all’Italia l’immane sciagura […] perché il Partito possa precisare le responsabilità delle opposizioni aventiniane, perché possa invocare dal Governo provvedimenti sempre più repressivi.”
L’onda emotiva e una campagna ben orchestrata restituivano credibilità al fascismo, che vide la borghesia accorrere ad iscriversi al Partito e il ritorno di quanti se n’erano allontanati dopo l’assassinio Matteotti. Dichiarati decaduti i parlamentari dell’Aventino, un Parlamento addomesticato approvava le Leggi speciali. Sciolti partiti, sindacato e libere associazioni, sì metteva il bavaglio alla stampa. Onde evitare nuove violenze alla fratellanza, Torrigiani chiudeva in Italia le Logge.
Il fascismo occupava lo Stato e si erigeva a regime. S’instaurava, colla compiacenza di Chiesa e magistratura, la dittatura, basata su abusi e prevaricazioni, con polizia e tribunali speciali pronti a soffocare la pur minima forma di dissidenza.
Nella primavera del 27, dopo 18 mesi di interrogatori, iniziava il processo, il cui impianto accusatorio poggiava esclusivamente sulla testimonianza del Quaglia, “L’unica figura oscura, priva di ogni probità, di questo processo”, come scrisse il corrispondente del giornale conservatore di Basilea “Nachrichten”!!,
Un processo ridicolo sul piano giuridico, in quanto un reato individuale, di mancato o tentato omicidio, non esiste, dato che gli atti preparatori non erano compiuti, l’intenzione dell’agente non era perfezionata, e infine, last not least, la polizia era a conoscenza di tutto.
Incriminati, oltre a imputati minori, il col. Zaniboni, il gen. Capello, quest’ultimo accusato dal Quaglia di essere l’ispiratore dell’attentato e d’averlo finanziato coi fondi della Massoneria, Il primo, difeso dall’avv. Cassinelli, che si scoprirà essere al soldo dell’OVRA, riaffermava di fronte ai giudici che “lui, solo lui era responsabile dell’attentato”. La dichiarazione non era però confacente alle intenzioni del Pubblico Ministero, che incriminando il Generale, cercava di coinvolger nel processo l’Istituzione e il suo G:.M:..
Il teorema accusatorio poggiava su un triplice movente:
1. L’appartenenza a quella massoneria di Palazzo Giustiniani, che si era schierata contro il Governo fascista e il Capello, da alto dignitario qual era, s’era uniformato alle direttive dell’associazione.
2.La sua ambizione di assurgere a capo della giunta militare, che avrebbe dovuto seguire al rovesciamento del Regime.
3.Il risentimento personale del vecchio Generale d’Armata per la mancata riabilitazione nei quadri dell’Esercito”?
A conclusione del dibattito, malgrado l’appassionata difesa dell’avv. Petroni, la durissima sentenza, “equivalente per un uomo di oltre 68 anni, ad una condanna a morte” come scrisse la Vossischen Zeitung.
Duro in proposito il comunicato della Lega dei Diritti dell’Uomo
Il generale Capello e il deputato Zaniboni sono stati condannati a 30 anni di carcere da una Corte di ufficiali fascisti, trascurando ogni principio di diritto […] non fu adottata nessuna parvenza di prova, nemmeno un indizio circa la partecipazione del gen. Capello all’attentato […] fu Mussolini stesso, inscenando questo comico finto attentato, tramite la spia Quaglia, a compromettere il Partito Socialista e la Massoneria.
La “Germania” di Berlino, giornale clericale e antimassonico, ammetteva:
La sentenza non poteva sorprendere nessuno. […] il processo non ha fatto emergere alcuna complicità del generale Capello come sarebbe stato necessario per una sentenza di simile durezza. Ma poiché nel processo doveva venir formulata una sentenza contro la Massoneria e Capello, quale suo esponente era alla sbarra, lo stesso verdetto doveva colpire sia il reo confesso Zaniboni che lui.‘
La vera accusata era quindi la Massoneria, che subì, dopo il mancato attentato, l’occupazione di Palazzo Giustiniani e nuove devastazioni nelle Officine. Rovistati gli uffici del G.O.I. alla ricerca di materiale compromettente per l’Istituzione e il suo G:.M:., con i giornali, che titolavano “Il delitto della Massoneria”,
“Non solo Capello, ma anche la Massoneria sul banco degli imputati”, “Quando toccherà a Torrigiani””,
Questi, dopo la morte della moglie, s’era trasferito a Nizza, ‘ospite dell’amico e fratello Luigi Campolonghi, dove venne raggiunto da una prima citazione. Rientrava in Italia e si metteva a disposizione del Giudice istruttore. Dopo l’interrogatorio, poteva tornarsene liberamente in Francia, dove gli venne notificato un nuovo mandato di comparizione. Agli amici, che cercavano di trattenerlo, spiegò che un suo rifiuto sarebbe stato giudicato una prova di colpevolezza, che avrebbe compromesso anche la posizione degli imputati.
Accusato di correità, venne invece prosciolto in istruttoria. All’indomani della sentenza contro Capello e Zaniboni, “nonostante il Tribunale Speciale avesse dichiarato la sua non partecipazione al complotto” – scrisse sempre “La Germania” – la polizia lo prelevò dalla sua abitazione romana. Condotto a Regina Cieli, senza alcun dibattimento, era condannato dalla Commissione provinciale a 5 anni di confino, nell’isola di Lipari, per “agitazione contro il regime e lo Stato e collusione con l’emigrazione politica”.
Lo scopo ufficiale del confino era quello di preservare la comunità, con l’allontanamento di soggetti ritenuti pericolosi; di fatto costituiva un’arma efficace e silenziosa del regime per colpire dissidenti e avversari politici. Le assegnazioni erano comminate da Commissioni provinciali, composte dal Procuratore del Re, dal Questore, dal comandante l’Arma dei CC.RR. e da un alto ufficiale della MM.S.N. Emesse con estrema rapidità, non trovavano riscontro sulla stampa e spedivano il condannato, a seconda della pericolosità, in una colonia insulare oppure in sperduti comuni sardi o dell’Italia meridionale.
Torrigiani venne assegnato a Lipari, nelle Eolie, la maggiore delle colonie di confine per oppositori politici. Tra i tanti, Mario Angeloni, il primo italiano a cadere nella guerra civile spagnola, Ferruccio Parri, che presiederà il primo Governo dell’Italia libera, lo scrittore socialista Jaurés Busoni, Luigi Basso e Riccardo Bauer, Carlo Rosselli Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, la cui fuga dall’isola avrà una forte risonanza, anche a livello internazionale.
Il G:.M.. era forse la figura più illustre condannata al confino dal regime. Il suo arrivo nell’isola incuteva timore “Quando è arrivato c’era un silenzio di morte quella mattina, tutti erano spaventati, la milizia era spaventata, avevano una paura folle di questa persona che arrivava”. Ma anche tanta curiosità, come sottolineava lo stesso Nitti: alto e robusto, sulla cinquantina, dal viso forte e aperto, ornato di una barbetta a punta, brizzolato, si incamminava a passo svelto verso terra, subito seguito e circondato da un folto gruppo di persone […] 1 liparoti correvano alle finestre, ai balconi, sulle porte, tutti si fermavano al suo passaggio, esaminando curiosamente questo deportato di importanza, questa “bestia nera, questo misterioso mago di una ancor più misteriosa
setta”
La sua presenza non era ben gradita agli altri confinati, in quanto “massimo esponente di quella massoneria che aveva appoggiato e soprattutto sovvenzionato fino al ‘22 il fascismo nella lotta contro il bolscevismo”. La stretta sorveglianza cui sarebbe stato sottoposto Torrigiani, nel timore di una fuga, avrebbe ridotto loro i già esigui spazi di libertà e possibilità di movimento; sotto stretto controllo anche i vecchi massoni dell’isola, per timore, che attraverso gli stessi potesse “comunicare col continente”.
Comprensibile l’iniziale isolamento; uniche distrazioni le lunghe passeggiate, la lettura e lo studio, finché non comparvero seri problemi alla vista.
A lenire il suo isolamento nella casa che aveva preso in affitto, la maggior parte dei segregati dormiva in cameroni comuni e mangiava in mensa, v’era un vecchio contadino di Castiglion del Lago, che già conosceva la famiglia Torrigiani e che lo aiutava nelle faccende domestiche. Si chiamava Giulio Cozzi Lepri ed era stato arrestato “per attività sovversiva” nel novembre del 1926 e assegnato a 5 anni di confino nell’isola di Lipari, dopo aver risposto col fuoco ad una spedizione punitiva fascista. Visibili ancor oggi, sulle mura della sua abitazione, i segni delle pallottole esplosi dalle squadracce provenienti da Perugia e Ferrara”. Nella sua cartella di pregiudicato politico si legge:
celibe, comunista, è nativo e risiede a Vaiano, fraz. Di Castiglion del Lago. Lavoratore piuttosto assiduo trae sostentamento coltivando le sue proprietà. Conduce vita ritirata e taciturna. E’ di limitata intelligenza ed
istruzione avendo frequentato la 3° elementare. Fu iscritto al partito socialista e successivamente a quello comunista dimostrandosi orgoglioso di appartenervi. Non frequenta alcuna compagnia perché nessuno l’avvicina specialmente per le sue idee politiche. Non ha mai ricoperto cariche politiche ed amministrative. Nei partiti ai quali appartenne ebbe sufficiente influenza, limitata però al Comune di residenza.”
Bonario e gentile, colto e raffinato il G:.M:. riusciva presto a farsi apprezzare dai confinati e dagli stessi isolani. Quando a dicembre del ‘27 Giulio Cozzi Lepri, cui il Duce aveva commutato il confino in ammonizione, lasciò Lipari, Torrigiani andò a vivere coll’avv. Naldin e Alfredo Morea, il repubblicano fabrianese, giovane segretario dell’Aventino.
La vista andava gradualmente peggiorando e l’esistenza sull’isola, senza l’amata lettura, diventava sempre più vuota. Pesava poi la difficoltà per la dieta, a base di latticini e verdura, prescrittagli dall’oculista. L’aiutava il colloquio cogli altri coscritti, che stimavano l’uomo acuto e dotto, spiritoso e pieno d’umorismo, con cui si poteva parlare di tutto e a lungo. Giovanni Ansaldo, uno di quelli che non l’avrebbe voluto tra i piedi, finì per passare con lui ore ed ore, parlando di letteratura e di storia; Bruna Pagani, che bambina aveva raggiunto
il padre nell’esilio di Lipari, ricorderà sempre “quel signore toscano, un po’ in sovrappeso, che tutte le mattine la aspettava sulla strada per accompagnarla a scuola”.
I contatti umani, l’apprezzamento dei confinati, l’incognita di una nuova destinazione lo trattenevano a Lipari, ma quando seppe, che uno dei suoi coinquilini stava per essere liberato, crollò psicologicamente e chiese d’essere trasferito. Il 20 ottobre 1928, senza rimpianti, Torrigiani lasciava l’isola e dopo 7 ore di navigazione approdava a Ponza, che per il clima umido, la scarsità di verdure, la lontananza da un medico si rivelava però una sistemazione peggiore.
Per intercessione del fratello Arturo, noto medico fiorentino, l’antivigilia di Natale era trasferito a Montefiascone e ricoverato a Villa Margherita, una prigione piuttosto che un luogo di cura, chiuso com’era nella propria stanza, con 8 carabinieri di guardia e la porta sempre aperta. La clinica era fredda, il cibo scarso e cattivo, il costo della retta di molto superiore a quella degli altri pazienti. l’isolamento peggiorava lo stato psichico del G:.M:, che diventava sempre più scontento. Piccola nota di
conforto una missiva di Giulio Cozzi Lepri, subito segnalata dalla Questura di Viterbo, addetta alla revisione della sua posta: “quattro frasi sgrammaticate, magari con qualche errore d’ortografia, ma dense di quel calore che solo le persone semplici, ma vere sanno regalare”.
Nel gennaio del 1930, sempre grazie al fratello, Torrigiani poteva tornare a Ponza, dove ritrovava vecchi conoscenti, tra cui quell’anziano contadino di Castiglion del Lago, che l’aveva servito a Lipari; v’era arrivato nel giugno dell’anno precedente dopo che la Commissione provinciale di Perugia l’aveva assegnato per altri 5 anni al confino per le sue convinzioni antifasciste. Ormai vecchio, senza famiglia, sempre più sordo e non proprio lucido, ma affezionatissimo, fu di fatto l’unica vera compagnia di Torrigiani, che pure si legò molto a “questo vecchio (che) prima di rientrare in camera ogni sera mi farà la brace e mi metterà il fuoco a letto”
Seguiranno per entrambi più di due anni di paciosa convivenza, durante i quali l’operosità del G:.M:. portava alla costituzione sull’isola della loggia clandestina “Carlo Pisacane’, che accoglieva, tra gli altri, i fratelli Placido Martini e Silvio Campanile, trucidati entrambi alle Fosse Ardeatine.
A interromperla la scadenza per Torrigiani del “termine di assegnazione’, che poteva così nell’aprile del ’32 lasciare Ponza, e ritirarsi in libertà vigilata nella villa di S. Baronio in comune di Lamporecchio. Quasi cieco e ormai “ridotto ad un relitto d’uomo, bisognoso di cure speciali” come relazionava al Ministero dell’Interno, il prefetto di Pistoia, era comunque sottoposto
da parte delle Autorità di P.S., d’accordo con l’Arma dei RR.CC. (alle) più rigorose e scrupolose misure di sorveglianza […] soprattutto allo scopo di evitare qualsiasi tentativo di espatrio clandestino.”
Nel giugno le sue condizioni si aggravavano; l’uomo aitante e possente di un tempo era ormai l’ombra di se stesso. Il 31 agosto il passaggio all’Oriente Eterno.
Temuto in vita, continuò a incutere paura anche dopo morto. Il funerale, per disposizioni superiori, avvenne di notte e alla presenza di soli, pochi familiari, circondati da un nugolo di poliziotti.
Al cimitero la bara venne tumulata in una fossa, piantonata per settimane; riesumata e verificatone il contenuto, venne infine traslata nella cappella di famiglia.
Cozzi Lepri avrebbe invece lasciato Ponza il 10 ottobre del ’33 per raggiungere la nuova destinazione di Scano di Montiferro, in prov. di Nuoro, dove arrivava il giorno di Ognissanti. A metà dicembre, su richiesta del podestà di Castiglion del Lago, usufruiva di 10 gg. di licenza, per la stipula del contratto di vendita di alcuni suoi terreni. Lascerà definitivamente la colonia sarda nel febbraio successivo, prosciolto dal confino per ordine di S.E. il Capo dello Stato. Con foglio di V.O. della Questura di Nuoro’, poteva così far ritorno nella natia Vaiano, dove, sottoposto a vigilanza, non dava luogo, fino all’aprile del ’42, a rilievi per la propria condotta politica.
La guerra, le sconfitte militari, i disagi sociali rianimarono il suo animo d’antifascista e nel giugno di quell’ anno era di nuovo proposto per il confino per “essere elemento irriducibilmente avverso alle istituzioni e pericoloso per la sua facilità a tenere discorsi disfattisti e deprimenti lo spirito pubblico”.
La Commissione prov.le di Perugia lo destinava per due anni a Capaccio, l’odierna Paestum, da cui sarebbe tornato alla libertà all’indomani della caduta del fascismo.
Riapprodato a Vaiano, sempre più anziano, riprendeva a zappare la propria terra. Il 6 aprile del 1947 passava a miglior vita. Sulla sua tomba mano amica faceva incidere l’epitaffio, reso ancor più veritiero dall’incerta sintassi, che ne sintetizzava compiutamente l’esistenza
“Giulio Mario Cozzi Lepri, martire del lavoro e per la libertà, per tre volte fu confinato politico. Chionni Armando e Maria che si condivisero
le violenze del fascismo”!
A lui il nostro ricordo reverente, unitamente a quello di Domizio Torrigiani. La loro vicinanza, occasionale nel tempo, la coesistenza imposta dagli eventi, costituiscono un esempio di solidarietà umana e di vera fratellanza; il rifiuto della dittatura, la sopportazione del confino dimostrano l’universalità di quei principi di giustizia e libertà, insiti in tutti gli uomini, siano essi il G:. M:. di Palazzo Giustiniani o un povero contadino dell’Umbria.