MASSONERIA E UTOPIA di Antonio Binni
L’otium natalizio mi ha permesso di rileggere, con leggerezza d’animo e pazienza certosina, l’immortale opera di Tommaso Moro, il Santo Cancelliere, motivo e fonte poi di riflessioni e considerazioni auspicabilmente non inutili sul concetto di utopia e di quella singolare utopia che è stata la massoneria speculativa. Procedendo con ordine, lascerò, innanzitutto, spazio al contenuto del testo di Moro che, per quanto ben noto, merita ugualmente una epitome che, per quanto succinta, investe tuttavia alcuni punti interessanti, almeno a giudizio di chi scrive. Il primo a inventare e descrivere un’isola utopica, come noto, fu Platone nei dialoghi del Timeo e di Crizia. Il capostipite del romanzo utopico, che avrà nei secoli notevole fortuna fu comunque il Santo Cancelliere, inventore della stessa parola utopia, fortunatissimo neologismo per significare un non luogo, ma anche un luogo felice, a seconda che si apponga un “on” iniziale, indicando una negazione, o un “eu” traducibile con un giudizio di positività sostanziale. Il termine indica un’isola immaginaria, inaccessibile e felice, descritta da Moro con arguzia e spirito ludico: testo godibilissimo perché sempre intriso di una costante vena umoristica e, talora, pure da sarcasmo. Le cinquantaquattro città dell’isola felice descritta da Moro sfavillano di luci e colori che incantano il lettore anche perché così simili a giardini. Nell’isola non esiste proprietà privata, radice di ogni male, la cui estinzione necessaria viene indicata al pari della abolizione del denaro. L’uso dei beni è però permesso liberamente a ogni abitante, secondo i propri bisogni. Le eventuali controversie sono decise da magistrati equi. La doverosità del lavoro è limitata ad appena sei ore di impegno giornaliero per permettere all’homo laborans di essere elevato ed educato pienamente. Rimane tuttavia la schiavitù come ombra triste del passato. Si registra una scarsa valorizzazione degli uomini di cultura. Con il consueto tono semi-serio, Moro fa intendere che essi, anziché lavorare, tendono a perdersi in futili inezie. Diversamente da Platone, Moro offre cittadinanza alla famiglia, della quale riconosce tutto il valore come educatrice e sostegno. Ignota la rivelazione cristiana, ogni uomo professa la propria religione entro i limiti della pura natura e della pura ragione: una sorta di deismo ante litteram, risolvendosi codesta religiosità in un vincolo che unisce gli uomini in società: dimensione “orizzontale” insista nel termine religio. Nell’isola felice nessuno può venire perseguitato per la propria religione. È ammesso il tentativo della conversione, ma con la persuasione, e non con la persecuzione. V’è concordia intorno all’esistenza di un Essere Supremo. L’ateismo e il materialismo vengono puniti con l’emarginazione. L’ateo non può essere un buon cittadino, non avendo nel Cielo sopra di sé alcun giudice che lo possa scrutare e valutare. È condannato il fanatismo, corruzione della religiosità. Vige l’idea che l’anima sia immortale, che la virtù sarà premiata e il vizio castigato. Amanti della pace, gli abitanti dell’isola sono disposti a ricorrere anche ai più cinici e machiavellici accorgimenti pur di evitare la guerra. Il libro è una perla di rara bellezza sempre sorretta da un profondo senso ludico che, da solo, invita alla lettura. La riflessione moreana investe una pluralità di temi, alcuni dei quali ancora oggi attuali, come quello, ad esempio, dell’impatto che l’introduzione della macchina ha nella compagine sociale. All’autore di queste note sembra tuttavia inevitabile porre l’accento sugli insegnamenti morali che punteggiano l’opera per la loro indiscutibile preziosità. Ne citiamo alcuni, scelti, all’evidenza, perché consentanei alla dottrina che pratichiamo.
Il primo. Vivere secondo natura e ragione.
Gli altri. La centralità della coscienza (etiamsi omnes, ego non – anche se tutti, io no), con la conseguente fedeltà ai propri convincimenti, accettando, se non è possibile evitarlo, di essere perseguitati per la verità e la giustizia.
L’idea di una religione caritatevole, perciò fattiva e operosa, orientata verso la città: visione dell’etica del tutto moderna perché pone al centro l’impegno e il compito dell’uomo nel mondo.
La credenza in Dio al di là di ogni forma e figura, sorgente di tutto, ma sorgente celata, per evitare che venga manipolata dagli interessi umani, troppo umani. Dopo questo excursus pare però giunto il momento di interrogarsi sul rapporto che l’autore di Utopia ha avuto con l’utopia come concetto.
L’utopia nasconde un’intensa volontà di riforma, tenendo desto il desiderio di una società radicalmente diversa, alternativa rispetto la presente. Segna lo scarto che sussiste fra ciò che è e ciò che si vorrebbe che fosse. Nel concetto di utopia è dunque insita l’idea di un programma nuovo da realizzare sul piano effettuale conformemente ad uno schema originale. In Moro non è dato, tuttavia, rinvenire nulla di tutto ciò, non essendo nell’opera possibile cogliere una qualsiasi seconda tensione fra utopia e volontà di riforma. Quella che figura rappresentata dal Santo Cancelliere è infatti una società cristallizzata, un punto di arrivo silente sul pregresso percorso realizzativo secondo un quid novi, ponte vertiginoso fra teoria utopica e pratica realizzativa. Si vuol dire altrimenti che rimangono celati tutti i passaggi progressivi attraverso i quali si è potuto realizzare un rivolgimento di così grande portata quale quello figurato nel racconto. C’è, al postutto, da chiedersi come una così grande rivoluzione sia potuta accadere senza una grande coazione. L’opera di Moro dimostra soprattutto il pericolo insito nella integrale realizzazione dell’utopia, posto che, una volta completata, oltre a sottrarre compiti realizzativi nuovi e originali, diventa causa di generale conformismo e soprattutto di sopraffazione nei confronti di quanti, ad essa, non si adeguano. Quello di Moro è uno Stato pietrificato che nulla ha a che vedere con l’utopia perché l’autentica utopia è apertura mentale perennemente incompiuta, ragionevole criterio sociale e, infine, capacità di prefigurare soluzioni politiche ed economiche rivolte al futuro. La Nuova Atlantide di Francesco Bacone e La Città del Sole di Tommaso Campanella dal profilo qui trattato, sono invece opere esemplari per essere fecondo terreno di programmi riformisti decisamente efficaci. Rileggendo e riflettendo sulle pagine di Utopia e sulle influenze che l’opera determinò in quanti – numerosi! – hanno tentato di dare pratica realizzazione al disegno utopico, non ho potuto esimermi dal riflettere su quanto di utopico v’era nella fondazione della massoneria speculativa allorché fu concepita sulle ceneri ancora ardenti della massoneria operativa. In fondo, nessuno può negare l’esistenza di un quid di utopico nell’aver voluto considerare come praticabili e osservabili da parte di uomini di fini pensieri regole e principi normati invece per costruttori e, più in generale, per artigiani. Questi ultimi erano infatti una comunità di vita (stesso tetto; stesso fuoco), a differenza dei primi che tali invece avrebbero dovuto diventare. Vuol dirsi altrimenti che già il mestiere in sé costituiva un elemento di unione, seppur gerarchizzato, a differenza di quella libertà di pensiero che costituiva all’opposto la cifra e la peculiarità caratteristica degli speculativi. Né era operazione priva di utopia – e di rischi – innestare uomini totalmente estranei al mestiere in una comunità tenuta invece assieme da una attività eminentemente pratica. Si pensi, ad esempio, alla profonda differenza qualitativa fra il segreto degli operativi di natura collettiva rigorosamente legato alle norme della edificazione e quello invece degli speculativi squisitamente personale, ancorato e dettato dalla crescita spirituale di ciascuno. È poi innegabile che la massoneria speculativa con il totale ribaltamento che comportava fu un’operazione “a tavolino”, diciamolo francamente, una autentica scommessa dotata però dal chiarimento della scala e della via per raggiungere lo scopo di creare esseri umani diversi, dominati da una autentica bellezza spirituale, coltivata ed educatrice in netta antitesi alla – allora nascente – civiltà di massa con le sue periferie fuligginose, il frastuono e la volgarità. Una scommessa vinta che si protrae da trecento anni che ignora però il pericolo dell’uniformità perché, minoranza creativa, la massoneria moderna perennemente si rinnova, senza però mai negare né abbandonare i principi che l’hanno ispirata.
DA “OFFICINAE” Gennaio 2020