L’ARMONIA MASCOSTA

L’armonia nascosta

Maurizio Nicosia

Un uovo a sghimbescio può essere:

un nudo di donna

l’evoluzione dell’io

un dramma spaziale.

E anche semplicemente un uovo.

Fausto Melotti, Linee.

Ormai agli atti gl’influssi teosofici su Mondrian e Kandisky, “rosacrociani” su Yves Klein, dell’antroposofia su Beuys, per fare alcuni esempî, non è più questione di dimostrare che segmenti dell’arte di questo secolo si sono intrecciati con l’esoterismo o lo siano tuttora. L’ubriacatura alchemica degli ultimi lustri basterebbe ad attestare come le opere, le dichiarazioni di poetica, le interpretazioni critiche abbiano sovente e volentieri attinto al mare magnum delle dottrine ‘segrete’.

Sicché ricerche inedite costituirebbero ulteriori esempî ed aumenterebbero la casistica senza tuttavia affrontare ciò che è da ritenere la questione nodale. Che non sta nel documentare la quantità d’influenze esoteriche nell’arte visiva ma, semmai, nell’individuare la natura e la qualità di tali rapporti, nello stabilire o quanto meno indicare se si tratta di una duratura, connaturata e non strumentale relazione o di convergenze temporanee tra idiomi autonomi, dovute magari ad influenze epocali ed esterne.

Credo che la proposta di valutare la qualità dei rapporti tra arte ed esoterismo apra nuovi territori d’indagine. In primo luogo, se e quale valore euristico scaturisca: se ne vengano nuovi risultati, se la conoscenza si amplî. In secondo luogo, se l’iconologia, che è inevitabilmente la metodologia critica più utilizzata, sia l’ermeneutica più appropriata. Voglio dire che lo sguardo iconologico, teso alla ricerca del significato occulto nell’immagine, ovvero alla ricerca di un eventuale codice esoterico nell‘arte, può comportare che si ponga in secondo piano, si trascuri o si dimentichi la questione dell’esoterismo dell‘arte, cioè il significato intrinseco della forma.

Individuare natura e qualità dei rapporti tra arti visive e codici esoterici implica, secondo i limiti metodologici dell’iconologia fissati da Gombrich, la restrizione del campo ai casi in cui l’uso del codice sia intenzionale. È evidente, infatti, che una interpretazione “esoterica” dei fenomeni artistici e dei fenomeni in genere è sempre possibile. Anche dei coniglietti di Jeff Koons.

Ma allora, implicito e frainteso il motto di Goethe “tutto l’effimero non è che un simbolo”, l’universo intero si offre alla medesima lettura confusa et distributiva, sottraendoci a priori la possibilità di qualunque caratterizzazione. Che è quanto invece ci interessa. Già più pertinente sarebbe applicarla ai coniglietti di Vettor Pisani, ma il problema si sposterebbe di poco: la pertinenza, nell’esaminare la qualità, cioè il valore euristico, è condizione necessaria ma non sufficiente, come vedremo in seguito.

Si consideri come caso il noto autoritratto di De Chirico. La figura di Hermes alle sue spalle autorizza una lettura iconologica secondo un codice esoterico? Ovvero: posto che il messaggero degli dei sia inequivocabile sineddoche dell’ermetismo, per fare un esempio, è possibile essere certi che la sua immagine implichi necessariamente la conoscenza del sistema linguistico e magari anche la pratica di questo filone esoterico, trascurando per ora il valore euristico, se cioè l’opera veicoli o amplî o trasmetta conoscenza “ermetica”?

L’uso di un vocabolo non implica necessariamente la conoscenza del vocabolario da cui è tratto e nemmeno della sintassi che lo organizza. Un bimbo, esclamando ‘papà’, non intende manifestare conoscenza dei rapporti parentali e sociali. La parte non è il tutto: Melotti invitava a diffidare “di chi, gettando un pugno di sabbia sul tavolo, ti dice: «È il deserto»”. E nel caso Hermes venga interpretato non come vocabolo ma come tutto, cioè come il sistema stesso, si tornerebbe di fatto ad un’interpretazione confusa et distributiva.

La figura di Hermes, quindi, non appare sufficiente a garantire che l’uso del codice ermetico sia intenzionale. Come posso essere certo che non si tratti solo di una citazione, o di una rapina? E qualora una serie di testi di De Chirico corroborasse l’ipotesi, e dimostrasse la conoscenza sintattica del codice, resterebbe comunque dubbio se l’opera trasmetta il messaggio esoterico a un destinatario o viceversa lo divulghi, rendendolo “essoterico”.

Se il messaggio non ha, non può o non vuole avere destinatarî, è ininfluente che vi appaia il messaggero: uno dei caratteri precipui dell’esoterismo è nel sistema di trasmissione. E l’esoterismo, in quanto linguaggio, è in primo luogo comunicazione, è trasmissione.

Vi sarebbero inoltre i problemi interni all’interpretazione: la posizione di Hermes dà adito a diverse letture. Ispira il pittore ritratto che diviene suo protetto e strumento, o viceversa il pittore gli volge le spalle, intenzionalmente o per caso? E se considero invece De Chirico come colui che sta dinanzi al suo ritratto, e quindi può vedere Hermes, non dovrò concluderne che invece è il dio strumento del pittore, come veicolo di messaggi o principe delle rapine o simbolo della Grecia o altro ancora?

Prendiamo un altro caso. Tempo fa Vettor Pisani ha esposto a New York un frigo aperto con una bottiglia di J & B nel freezer. L’etichetta con l’acrostico dei produttori Justerini & Brooks probabilmente rinvia alle due colonne contrassegnate una dalla J, l’altra dalla B, che marcano l’ingresso del tempio massonico a memoria di quello salomonico, dove due colonne bronzee chiamate Jachin (stabilità) e Boaz (forza) s’ergevano davanti al vestibolo. Anche la bottiglia, come stylos cilindrico, rinvia alla colonna e all’immagine femminile (una coniglietta?) posta nello scomparto per le bottiglie.

In questo caso l’interpretazione secondo il codice massonico è legittima e pertinente an-zi, quasi obbligatoria poiché più volte l’artista, esplicitamente e ostentatamente utilizzandolo, l’ha caldeggiata. Direi persino desiderata. Ora, a parte le possibili connotazioni ironiche (l’esoterismo massonico è freddo o addirittura surgelato? O si scalda vigorosamente e “spiritualmente” dinanzi alla possibilità della conjunctio?), risulta evidente che chi conosce il codice e il significato potrà decrittare l’opera, e chi l’ignora no.

Chi sa si potrà interrogare se Justerini & Brooks e Vettor Pisani hanno scelto intenzionalmente l’acrostico, ma non accrescerà il proprio sapere. Chi lo ignora non potrà nemmeno congetturare le connotazioni ironiche. Il valore euristico dell’operazione è pressoché nullo, mentre l’esoterismo si prefigge di accrescere e qualificare la conoscenza.

Ciò significa che un artista, usando un codice esoterico, non necessariamente condivide le finalità che il codice si prefigge o addirittura le può rovesciare. In questo caso è difficile essere certi che la relazione non sia strumentale; non si può nascondere il sospetto che l’uso possa scaturire da motivazioni essoteriche: suggerire all’osservatore che conosce il codice di far parte di una sorta di élite. Nella quale, ovviamente, figura l’artista.

Sui rischi e le difficoltà d’interpretazione, sia pure solo nei casi d’uso intenzionale d’un codice esoterico, gli esempî si potrebbero moltiplicare. Ma credo che questi siano sufficienti a proporre di distinguere l’esoterismo come philosophía, ovvero come possibilità interpretativa o introduzione di significati in un sistema formale qual è l’opera dall’esoterismo come sophía, che si ponga come principio ordinatore di un sistema conoscitivo quale può esserel’opera. La distinzione, per altro, rinvia alle origini storiche del termine.

‘Esoterico’, infatti, viene impiegato da Aristotele per indicare i testi ‘interni’ alla sua scuola. Curiosamente, sono gli unici testi dello Stagirita che conosciamo. I testi ‘essoterici’, o ‘esterni’, sono stati divorati dal tempo. In questo caso la “parola perduta” è essoterica. Nel pensiero aristotelico la sophía è conoscenza di cause e principî primi.                                  

Con esoterismo, per evitare l’indeterminatezza concettuale che deriva dall’utilizzarlo per qualsiasi dottrina segreta, conviene indicare una dottrina ‘interna’ a un sistema conoscitivo di cui costituisce evidentemente il nucleo e che può essere, in rapporto al sistema, di volta in volta o anche simultaneamente la premessa sottaciuta o l’approdo finale da raggiungere per gradi ma non solamente una lettura in profondità, una philosophía.

In altri termini, con una metafora architettonica, l’esoterismo corrisponderebbe al principio organizzatore del progetto, non più visibile nell’edificio ultimato, o al sancta sanctorum, fisicamente esistente ma non accessibile ai profani. Aristotele stesso definisce “architet-tonica” la sophía che organizza le altre in vista di un fine. Quale fine dunque si pongono arte ed esoterismo, qual è la loro sophía architettonica?

Realizzare l’opera: questo il loro fine comune. La stessa arte regale è così detta in quanto realizza chi la pratica. La traiettoria della vita, non più parabola cieca, ma ordita e composta mediante l’individuo, diviene opus. E ciò spiega la singolare tangenza tra alchimia e arte di questo secolo. Qualora si sposti l’attenzione dall’oggetto artistico al gesto che lo genera o lo si sostituisca con il comportamento o l’intenzione dell’operatore, com’è avvenuto nel Novecento e ancor più dal secondo dopoguerra, gesto, comportamento o intenzione verranno comunque proposti e interpretati come opere.

L’intento implicito o esplicito dell’operatore è di affermare la propria vita come opera, di sostituirla all’opera–oggetto, che diviene solo un mezzo, o una traccia del processo. O svanisce, definitivamente. Ma in questo caso l’arte abdica alla propria regalità, o se si preferisce alla propria sophía poietica, cioè fattrice: il suo fine è sempre e comunque l’opera–oggetto da realizzare. Duchamp non si è definito “anartista” per vezzo o provocazione, ma nella profonda coscienza che l’arte è fare e comporta una metamorfosi sostanziale della materia, come sottolinea nel ’57 ne Il processo creativo : “con il cambiamento della materia inerte in opera d’arte una vera transustanziazione ha luogo”. Ma l’uomo moderno, constatava Eliade proprio in quegli anni, è incapace di sperimentare il sacro nelle sue relazioni con la materia, se non nella sfera onirica o estetica.

L’esoterismo, in realtà, può limitarsi alla speculazione o all’azione, ovvero alla sua sophía etica, alla sua disciplina del comportamento: nel fare ha semmai un mezzo, non un fine. L’episodio di Parmigianino che rinuncia alla pittura per l’alchimia, e ne muore, ci ricorda che l’esoterismo può fare a meno dell’arte, cioè della poietica. E questo sebbene l’alchimia, proprio e in quanto codice esoterico operativo e non solamente activo, sia particolarmente prossima all’arte. Un ulteriore segnale di rinuncia alla regalità poietica si può cogliere nel vocabolario critico. Il termine ‘operatore’, che ha invaso i testi critici, indica infatti chi agisce, non chi fa perciò sono costretto a usarlo. ‘Autore’, ovvero ‘colui che fa accrescere’, è viceversa scomparso dal lessico di questi anni.

In altre parole: se il fine può apparire per alcuni aspetti comune, l’esoterismo si propone tuttavia il perfezionamento etico dell’individuo, la sua realizzazione, e dunque la sfera dell’agire come proprio campo elettivo, mentre l’arte si propone la realizzazione dell’oggetto e il fare che esso comporta. Su questo equivoco si è sviluppato il paradosso di un’arte contemporanea indifferente alla propria finalità e quanto mai restia a riconoscere che l’opera supera l’operaio o operatore. Nella durata, in primo luogo, e nella proliferazione di senso. Una volta compiuta, l’opera manifesta la sua indiscutibile ‘autonomia’.

Quindi ‘realizzare l’opera’ nel codice esoterico ha accezione metaforica e significato cosmogonico: “porta oltre”. Nell’arte va intesa anzitutto alla lettera. A ciò è connesso che la conoscenza nell’esoterismo costituisce il fine; nell’arte, invece, il principio. Pertanto, se il sistema conoscitivo è uno e comune, ne risulta che l’arte s’avvia dove l’esoterismo giunge al termine, come in una staffetta. Qual è dunque il punto in cui l’esoterismo consegna all’arte il “testimone”?

L’esoterismo scaturisce dalla dialettica tra l’attività simbolica della psyché umana e le intimazioni culturali e sociali delle epoche. Ma l’attività simbolica, di per sé, non è esoterica. Infatti è connaturata in tutti gli uomini; l’esoterismo no. Nemmeno un sistema simbolico, cioè un percorso conoscitivo fondato sull’intellezione, l’intuizione e l’esperienza, è di per sé esoterico. Può essere il frutto straordinario dell’elaborazione d’un singolo: per certi versi il caso di Blake.

L’esoterismo s’avvale d’uno o più sistemi simbolici, ma la sua caratteristica è d’organiz-zarli e soprattutto trasmetterli entro un codice linguistico che viene quindi conosciuto e condiviso da più individui. L’iniziazione, comune a moltissimi se non a tutti i sistemi esoterici, costituisce il modo rituale per creare la condivisione del codice: per trasmetterlo. In mancanza d’iniziazione la condivisione si raggiunge per mezzo di pratiche attive o operative.

L’esoterismo traduce il mondo in cifra. Lo rende cifrato. Come il linguaggio. Ma mentre il linguaggio ordinario è logico, posizionale e differenziale, l’esoterismo è linguaggio immaginativo, basato sull’analogia e l’anagogia. Le immagini non sono illustrazione del linguaggio esoterico, sono il linguaggio stesso, mediante le quali si attua ciò che potrebbe essere chiamato trasferimento perpetuo: la cosa, pur restando se stessa, trasformata in immagine, diviene continuamente altro. o, ancor meglio, catalizza simpateticamente le proprietà d’altri oggetti–immagine.

Perciò il linguaggio esoterico è apparentemente ambiguo e interiormente sintetico: sul profilo semantico, esso procede per concentrazione, e non per astrazione concettuale. Attraverso l’immagine, l’esoterismo compie la reductio ad Unum dell’universo. In questo compimento, dinanzi all’arrheton, l’indicibile, l’esoterismo approda al silenzio. Ma l’immagine catalizzatrice e traboccante di senso, che l’esoterismo infine sacrifica dinanzi all’arrheton, all’indicibile, è precisamente il testimone che consegna all’arte.

Le immagini non sono opere di per sé. Possono però divenirlo. In questa metamorfosi, in questa transustanziazione, si sprigiona l’esoterismo dell‘arte, in ciò che un tempo si chiamava mestiere, ovvero il mistero del farsi cosa dell’immagine, il mistero del farsi cosa del possibile. …

(il cammino per l’opera d’arte passa attraverso la solitudine; il cammino esoterico s’avvia con la trasmissione; comunque il cammino esoterico approda al silenzio, sia che scaturisca da vigoria, sia che sfibri per debolezza. Nel primo caso infatti si vela, come il progetto, nel secondo si tace perché la parola è “perduta”. Ma quale sia l’origine, nel porsi l’arrheton come fine la parola è comunque perduta)

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