1867: Annus Horriblis. Il colera e la sconfitta di Garibaldi a Mentana
Le difficoltà degli esordi dell'Italia Unita nel 1861, molto peggiori delle attuali.
Aldo A. Mola | 26 NOVEMBRE 2022
Di quando in quando l’ISTAT lancia l’allarme: fra trenta o quarant’anni quanti saranno gli abitanti dell’Italia?
Come saranno distribuiti, di quali e quante etnie? Le proiezioni sono più astruse che astratte. Non mettono
in conto, infatti, gli eventi che fanno storia e condizionano la demografia: epidemie, catastrofi naturali
imponenti e soprattutto le guerre, lontane e vicine, capaci di azzerare o compromettere sul lungo periodo
ambiente, assetto igienico-sanitario, infrastrutture e la vivibilità stessa del territorio. Sul futuro della
popolazione in Italia a medio e lungo periodo si possono avanzare ipotesi solo in subordine a quanto
accadrà nell’Africa settentrionale e nel Vicino Oriente e sulle risposte che un’Europa davvero unita
(sommando politica estera e difesa, come ripete il Generale Claudio Graziano in Missione, ed. Luiss) sarà in
grado di dare alle sfide incombenti. Senza questa premessa ogni previsione è fatuo esercizio poetico.
1861: esordio in salita del Regno d’Italia
L’Italia scoprì la propria vulnerabilità all’indomani dell’unificazione nazionale. Il 1867, poco più di un secolo
e mezzo fa, fu tra i più drammatici della sua storia. Sei anni prima era stato proclamato il Regno d’Italia. Nel
1865 la capitale fu trasferita da Torino a Firenze. La decisione, prospettata dalla Convenzione italo-francese
del 15 settembre 1864, fu segnata “nigro lapillo” dalla strage di popolani che a Torino protestavano
ritenendola lesiva di chi aveva dato tutto per l’unificazione nazionale.
Anziché durare i quattro anni previsti, la Camera eletta il 22-29 ottobre 1865 fu sciolta dopo appena due
anni per dare rappresentanza alle province del Veneto e a Mantova, annesse all’indomani della guerra
italo-prussiana contro l’Austria: 50 seggi in più. Alle nuove elezioni, il 10-17 marzo 1867, votò appena il
51,8% degli aventi diritto: la percentuale più bassa mai registrata. Era palese la disaffezione verso le
istituzioni da parte della pur ristretta cerchia di cittadini con diritto di voto. Anche la Sinistra faticava a farsi
strada. Dalla proclamazione di Vittorio Emanuele II re d’Italia (14 marzo 1861, pubblicata il 17 nella
“Gazzetta Ufficiale” del Regno) si erano susseguiti otto diversi governi, presieduti da Camillo Cavour (morto
il 6 giugno), Bettino Ricasoli (sino al marzo 1862), Urbano Rattazzi, travolto l’8 dicembre dalle dispute sulla
spedizione garibaldina “Roma o morte”, Luigi Carlo Farini (che uscì di senno e fu sostituito da Marco
Minghetti, in carica sino ai fatti del settembre 1864), Alfonso La Marmora (due governi sino al giugno 1866,
quando assunse il comando dell’Armata contro l’Austria) e nuovamente Ricasoli, che all’indomani delle
elezioni del marzo 1867 si dimise.
La divisione originaria tra Destra e Sinistra era già stata superata quando Cavour aveva formato il “centro-
sinistro” con Urbano Rattazzi. Riaffacciata alla morte del Gran Conte, essa si attenuò con l’avvento del
Terzo Partito, formato da deputati cresciuti tra cospirazioni e patrie battaglie. Nelle logge massoniche essi
avevano appreso a conciliare gli opposti. Ne furono esponenti Antonio Mordini e Angelo Bargoni. Ma già
l’ultimo governo Ricasoli incluse Agostino Depretis, esponente della Sinistra, alla Marina e poi alle Finanze.
Su incarico di Vittorio Emanuele II, il 10 aprile 1867 Urbano Rattazzi varò il suo secondo ministero, con il
quarantasettenne Michele Coppino (massone ed esponente della Sinistra) all’Istruzione e il geniale
economista Francesco Ferrara alle Finanze. Il governo affrontò coraggiosamente il nodo fondamentale:
drastica riduzione del debito pubblico con operazioni di ampio respiro. Varò la statizzazione e l’alienazione
dei beni ecclesiastici e la tassa sulla macinazione delle farine per procurare allo Stato le risorse
indispensabili per fare dell’Italia un Paese moderno: rete ferroviaria, stradale e telegrafica, scuole, ospedali
e difesa dei confini (anzitutto marittimi) in presenza delle tensioni internazionali tre anni dopo precipitate
nella guerra tra Napoleone III e la Prussia di Bismarck. Le misure economiche contenevano un disegno
politico-culturale: la laicizzazione del Paese. Secondo il federalista milanese Carlo Cattaneo, israelita, in
Italia gli ecclesiastici dovevano ridursi dal 7 all’1 per mille della popolazione, come negli altri Paesi
economicamente avanzati. Meno preti, più insegnanti; meno seminari più scuole obbligatorie e gratuite (in
alcune regioni gli analfabeti erano ancora il 90% degli abitanti) furono le parole d’ordine non solo della
sinistra democratica ma anche di conservatori che prendevano a modello Svizzera, Gran Bretagna, Paesi
Bassi, Prussia… Le città della Nuova Italia avevano bisogno di rete idrica e fognaria, di medici e di ospedali:
“servizi” che non sono né di destra né di sinistra ma vitali.
La falce dell’epidemia colerica…
Il 1867 impresse all’Italia una frustata che lasciò il segno. Si registrarono 866.865 morti: 130.000 in più
rispetto all’anno precedente. Il Paese dava per scontata l’elevatissima mortalità infantile. Annualmente
nascevano circa un milione di bambini; ma il 53% moriva entro il quindicesimo anno. Gli ottantenni erano
214.000 su 25.372.000 abitanti: meno del’1%. Tifo petecchiale, vaiolo e altri malanni spesso mortali erano
diffusissimi (anche per scarsa pratica di vaccinazioni). In assenza di prevenzione, essi venivano curati con
rimedi arcaici, notoriamente dannosi, come i salassi, proibiti per legge ma ancora praticati. Il 1867 fu l’anno
del colera. “Importato” dal Vicino Oriente, cominciò a serpeggiare in città portuali (Sicilia, Puglia…) e presto
divampò ovunque. A Bergamo si contarono quasi 4.000 morti. Altrettanto colpite furono Brescia, Torino,
Milano. Verso fine luglio su 63.000 ammalati i morti erano 32.000. Il contagio colpì tutte le classi sociali,
malgrado quarantene e altre misure. In molti casi i sindaci e persino i notai abbandonarono le città. Per
arginare la “diserzione” delle autorità, il 28 agosto fu coniata la medaglia dei benemeriti contro l’epidemia:
erano i nuovi patrioti.
…e la “questione di Roma”
Come se la popolazione non avesse abbastanza problemi e come se il giovanissimo Regno non fosse sotto
stretta osservazione delle Grandi Potenze, sul piatto della storia venne riproposta la “debellatio” del “papa-
re”. Improvvisamente divamparono insieme questione di Roma, dal 27 marzo 1861 proclamata Capitale
d’Italia su proposta di Cavour, eliminazione del potere temporale del papa e sacertà della Chiesa cattolica.
A quel groviglio altri nodi si aggiunsero, ancora più ingarbugliati. Vittorio Emanuele II, scomunicato, sapeva
bene che Roma era indispensabile al regno d’Italia. Ma non poteva certo sfidare l’Europa, che ancora non si
era ripresa dalla guerra del 1866, né, meno ancora, Napoleone III, antico cospiratore, forse carbonaro, ma
deciso a proteggere Pio IX per calcoli interni e internazionali. V’era infine la contrapposizione tra Giuseppe
Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Il primo era per l’azione, all’insegna “Italia e Vittorio Emanuele”. Il secondo
voleva l’insurrezione contro il papa quale ultimo volano per fare dell’Italia la Repubblica, obiettivo che
perseguiva da quasi quarant’anni.
A inizio settembre Garibaldi andò al Congresso della Pace, a Ginevra, per enunciare il suo programma
pacifista. Pochi giorni dopo, però, raggiunse il confine tra Italia e Stato Pontificio. Fu garbatamente
“fermato” da un ufficiale dei Carabinieri e trasferito a Caprera, sorvegliato coi mezzi dell’epoca, comunque
a maglie larghe. Da lì mandò messaggi per incitare all’impresa. Una sera si allontanò dall’isola vogando con
un remo solo verso la nave che lo condusse in terraferma. Al suo richiamo accorsero migliaia di volontari.
Come altre volte nel Paese dei guelfi e dei ghibellini, si sovrapposero e si intralciarono un Comitato
Nazionale e il Comitato Romano, reciprocamente diffidenti.
Garibaldi, sessantenne, sapeva di guerra. Aveva vinto battaglie vere. Quella sui Borbonici al Volturno il 2
ottobre 1860 ne mostrò il talento di comandante. A Bezzecca nel luglio 1866 ottenne l’unica vittoria italiana
contro gli austriaci, grazie all’artigliere Orazio Dogliotti, capostipite di una dinastia di massoni. Per marciare
su Roma organizzò un piano ben congegnato: tre colonne convergenti, capitanate da Acerbi, Nicotera e da
suo figlio, Menotti. Nel frattempo una legione di volontari puntò su Roma per suscitarvi l’insurrezione.
Intercettata, ebbe la peggio. Morirono Enrico Cairoli e, per le ferite, suo fratello Giovanni. Nella Città
Eterna, indifferente e immobile, attirati da un esplosione gli zuavi pontifici irruppero nel lanificio Ajani e
uccisero Francesco Arquati, sua moglie, Giuditta Tavani, e il loro figlio Paolo, cospiratori repubblicani. Due
muratori, Monti e Tognetti fecero esplodere la Caserma Serristori, causando decine di vittime, più italiane
che francesi. Arrestati come terroristi, furono condannati a morte e ghigliottinati.
Pio IX era tutelato dalle proprie milizie, agli ordini del gen. Hermann Kanzler. In suo soccorso arrivò una
legione di volontari cattolici, agli ordini di Aurelles de Paladines, detti “antiboini” da Antibes, il porto ove si
erano raccolti. Decisivo fu infine il corpo di spedizione inviato da Napoleone con armi di prima qualità,
fabbricate a Brescia.
Il 26 ottobre, dopo un primo successo a Montelibretti, Garibaldi prevalse a Monterotondo.
L’indomani Rattazzi si dimise. Il re propose a Cialdini di formare il governo. Alla sua rinuncia, lo affidò a Luigi
Federico Menabrea, un generale di vastissima cultura.
Il 3 novembre i garibaldini furono disfatti a Mentana. Avevano più entusiasmo che armi. Molti non
vestivano alcuna divisa. Sotto l’incalzare del nemico parecchi si dettero alla fuga. Il grosso si ritirò. Garibaldi
rientrò nei confini del regno. Arrestato a Figline, fu tradotto nel forte di Varignano (La Spezia), come già nel
1862 dopo essere stato ferito sull’Aspromonte, ove venne fermata la spedizione da lui capitanata col motto
al “Roma o morte”. Quindici giorni dopo venne condotto a Caprera. Sul movimentismo garibaldino calò la
saracinesca del buon senso. A quel punto Mazzini cercò di tirare i fili della causa repubblicana, ormai persa.
Garibaldi gli rinfacciò di non averlo aiutato quand’era il momento. Lo scrisse in lettere di fuoco e lo ribadì
nelle Memorie. Per lui valeva il motto “Italia innanzi tutto”: l’Italia doveva fare i conti con la realtà. Scrisse
persino a Bismarck per averne l’assenso all’impresa.
La disputa tra Garibaldi e Mazzini
Il 12 dicembre 1867 Agostino Bertani affermò alla Camera che Garibaldi si era battuto per assicurare Roma
al Re. Tra il Generale e Mazzini la sconfitta di Mentana aprì un solco profondo, destinato a rimanere
incolmabile. Dal 6 gennaio Garibaldi aveva chiarito all’“Apostolo” la propria linea di condotta: per
impegnarsi in un’impresa che fondeva cospirazione politica e azione militare voleva sapere “con chi aveva
da fare e ciò che si vol(eva)”. Il 15 seguente fu ancora più netto sul punctum dolens: “Sulle cose di Roma,
noi non siamo d’accordo. Io non vorrei che succedesse là ciocché successe a Palermo, e credo si debba
prolongare il periodo di preparazione, ed agire quando si possa scansare il pericolo di venire a fucilate, coi
soldati Italiani”. Niente sedizione militare, dunque; bensì un’azione non ostacolata dal governo, senza
mettere in forse la disciplina militare né suscitare un conflitto con l’esercito che aveva ancora sulle spalle la
repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno. Da Castelletti il 16 giugno Garibaldi mandò a Mazzini l’ultimo
messaggio di quell’anno: “Credo roviniamo l’affare a Roma, imponendo programma politico. Lasciamo
nascere l’infante, nato che sia lo si battezzerà e lo battezzeremo. Oggi urge rovesciare il governo papale.
Lavoriamo dunque concordi all’uopo”.
Mazzini perseguiva un disegno del tutto diverso. Per lui l’insurrezione in Roma doveva essere la scintilla
decisiva per proclamare la repubblica. L’annientamento del papa-re era la premessa per abbattere il Savoia
e fare di Roma il faro della Repubblica Universale.
Nelle Memorie Garibaldi sintetizzò in poche pagine la campagna nell’Agro Romano: “Molti furono i buoni,
che mi coadiuvarono nell’impresa, e non pochi coloro che la contrariarono, massime la Mazzineria, che si
dice indebitamente partito d’azione, e che non tollera iniziativa emancipatrice a chicchessia”. Dopo aver
descritto con vigore di scrittore autentico la fuga da Caprera su un beccaccino, l’approdo alla Maddalena, la
traversata del Tirreno sulla paranza procuratagli da Adriano Lemmi, l’arrivo a Vada e le prime fasi
dell’impresa, incluso il difficile rapporto con la popolazione di Monterotondo (“che poca simpatia s’era
meritata, per il mutismo e l’indifferenza, quasi avversione, manifestata verso di noi”, talché ne nacquero
“disordini”), Garibaldi tornò sul tema più amaro: “Qui, con dolore, devo ricordare un’altra delle cause della
sventura di Mentana. Già dissi i mazziniani aver cominciato la loro propaganda dissolvente (…) e il motivo
della loro propaganda era falso, senza ragione alcuna”. Mentre Garibaldi manovrava, forte del possesso di
Monterotondo, solida base della fase successiva dell’impresa, i mazziniani “come sempre, dovevano
giungere a dare il calcio dell’asino a chi non aveva altra aspirazione che la liberazione degli schiavi nostri
fratelli. (…) Il risultato di queste mene mazziniane fu la diserzione di circa tremila giovani dalla nostra
ritirata dal Casino de’ Pazzi sino a Mentana (…) e lascio pensare a che punto di moralità e di fiducia nel
compimento dell’impresa potevano trovarsi i rimanenti volontari”. Il suo giudizio conclusivo è drastico: “i
volontari (…) non si mostrarono in quel giorno degni della loro fama”. Rimpianse di non aver avuto a
disposizione “una polizia di campo (…) indispensabile in ogni corpo di milizia”.
Negli anni seguenti non mutò opinione. Alla polemica contro la “Mazzineria” in alcuni appunti pubblicati
nell’Edizione nazionale dei suoi scritti (1937) Garibaldi aggiunse quella contro una certa Massoneria. Aveva
le sue brave ragioni. Infatti nei giorni della spedizione di Garibaldi verso l’Agro Romano nel “Bollettino del
Grande Oriente d’Italia, di cui era gran maestro, Ludovico Frapolli scrisse che “la Massoneria non ha ad
occuparsi del poter temporale dei papi. Poco le cale che ci sia un principe di più o di meno. Combatte il
Pontefice e non il Papa-re. (…) Va più in là. Lavora per distruggere le credenze assurde”, ma “non si lascia
trascinare nel campo delle discussioni politiche della giornata e tanto meno in quello dell’azione”. Benché
“primo massone d’Italia” Garibaldi ebbe motivo di sentirsi tradito proprio nel vivo della battaglia.
Il Generale per la Grande Riforma
Dopo la sconfitta di Napoleone a Sedan da parte dei prussiani (2 settembre 1870), su precipuo impulso di
Quintino Sella (come ha documentato Aldo G. Ricci sulla scorta dei verbali del Consiglio dei ministri), il
governo inviò verso la Città Eterna un Corpo di Esercito italiano agli ordini del generale Raffaele Cadorna,
fratello di Carlo, politico autorevole come ha scritto Franco Ressico nella sua ottima biografia (“Carlo
Cadorna, 1809-1891. Uno Statista del Risorgimento con e oltre Cavour”, ed. BastogiLibri). Dopo estenuanti
trattative per ottenere da Pio IX l’ingresso degli italiani in Roma senza ricorso alle armi, nel timore che la
crisi potesse essere “internazionalizzata” e risultare insolubile e dinanzi al rischio che qualche colpo di
mano di repubblicani e anticlericali la facesse precipitare, all’alba del 20 settembre 1870 Cadorna ordinò
l’irruzione nella Città Eterna. Garibaldi rimase sorvegliato speciale a Caprera; ma il suo “vice”, Nino Bixio,
ebbe il comando della divisione incaricata di entrare in Roma proprio là dove i garibaldini nel giugno 1849
avevano opposto strenua resistenza contro i francesi del generale Oudinot, inviati da Napoleone III per
schiacciare la Repubblica romana e restaurare il papa-re. Come Isacco Artom scrisse nella “Rivista storica
del Risorgimento italiano” diretta dal braidese Beniamino Manzone, Vittorio Emanuele II mantenne la
promessa che gli aveva fatto subito dopo la catastrofe garibaldina a Mentana: fare della Città Eterna la
capitale d’Italia.
Nel 1875 Garibaldi andò a Roma per illustrare di persona al re come ammodernarla: arginare il Tevere per
impedire le ricorrenti rovinose esondazioni, installare industrie, aprire un porto per farne approdo di
traffico mercantile. Fu ricevuto da Vittorio Emanuele II presente Giuseppe Medici, con Enrico Cosenz antico
ufficiale garibaldino. Il Generale si reggeva sulle grucce. Indomito. Il re lo accolse con affetto. Il
movimentismo si dette il nuovo obiettivo: “guarire la gran piaga della miseria”, redimere l’Italia
dall’arretratezza secolare e dar senso a unità e indipendenza con scuole, lavoro, igiene. L’anno dopo al
governo salirono Depretis, Giovanni Nicotera, Coppino… Avevano ben presente il punto di partenza, lo
sciagurato 1867, e i metodi per salire la china. Lo ricordava Garibaldi alla figlia Teresita: coltivare campi,
innaffiare ortaggi, abbeverare gli armenti. Perciò nel 1907 il prosaico Giovanni Giolitti decretò festivo il 4
luglio, centenario della nascita dell’“Eroe dei due mondi”. Mentana va ricordata perché segnò il passaggio
decisivo dalla retorica alla politica. Lo capì bene Carducci che nel “Programma” della rivista “Il Paese”
esortò i “colti” a impegnarsi negli studi di economia e statistica, di scienze mediche e ingegneria, di
agronomia e geologia anziché dilettarsi di rimerie. Solo così la Terza Italia avrebbe potuto fronteggiare
nuove epidemie, come l’ondata colerica divampata nel 1884.
ALDO MOLA