GIOVANNI AMENDOLA

Giovanni  Amendola

BIOGRAFIA

Giovanni Amendola nasce a Salerno il 15 aprile dei 1882, da una famiglia della media borghesia salernitana, originaria di Sarno. I fratelli del padre, Pietro Paolo, erano riusciti ad elevarsi da una condizione mediocre di piccoli borghesi, attraverso studi e notevoli sacrifici.

Pietro Paolo, invece, abbandonò gli studi in giovane età, per arruolarsi nell’esercito garibaldino: dopo il congedo, uno dei suoi fratelli, Liberato, segretario alla direzione delle Belle Arti, presso il Ministero alla Pubblica Istruzione, a Roma, gli procurò un impiego d’usciere in questo stesso Ministero.

Le difficoltà economiche della famiglia, composta da cinque tra fratelli e sorelle, non impedirono lo stesso a Giovanni di esser mantenuto, con gran fatica, alle scuole tecniche, completando poi i suoi studi con la laurea in matematica.

Nonostante la sua formazione scientifica, Amendola aveva una grande attrazione per la filosofia e gli studi classici, imparando come autodidatta greco e latino, oltre al francese, l’inglese, il tedesco.

La sua passione per la filosofia lo portava a passare tutto il suo tempo libero alla Biblioteca Nazionale romana, dove s’impadronì del pensiero dei filosofi tedeschi, in particolare di Kant e Shopenhauer.

Diplomato a diciotto anni all’istituto Tecnico Superiore, non senza aver vinto un primo premio ad un concorso della scuola per l’italiano, il brillante studente, che non apparteneva, come i suoi compagni, alla borghesia agiata romana, aveva molti dubbi ed inquietudini sul suo futuro.

S’iscrisse alla Facoltà di matematica. Dopo la laurea, i suoi interessi filosofici lo portarono ad assumere poi una libera docenza in filosofia teoretica, all’Università di Pisa. La sua tesi, pubblicata, aveva il titolo La Categoria, Appunti critici sullo svolgimento della critica delle Categorie da Kant a noi, Bologna.

Chiamato dall’amico Mario Missiroli, iniziò la carriera giornalistica professionista nella redazione romana del Resto del Carlino, affiancandosi ad Errico De Marinis, sociologo e deputato social-riformista. Nel contempo, collaborava con le riviste Leonardo e La Voce di Papini e Prezzolini1), da cui fu contagiato per l’interesse per la politica teoretica.

La sua acuta maturità nel giudizio politico, la sua esperienza logica maturata dalla frequentazione dei circoli filosofici, lo portarono ben presto   all’assiduità con Luigi Albertini (1871-1941), la cui spiccata personalità era perfettamente congeniaie alle sue idealità di rigore morale ed alle sue convinzioni politiche.

Il suo impegno giornalistico aumentò quando accettò, auspice Luigi Aibertini, la direzione della redazione romana del Corriere della Sera.

Conseguentemente alle sue idealità, si dedicò alla vita politica attiva e fu eletto per tre legislature alla Camera dei Deputati nel collegio della sua natia Salerno. La sua prima adesione in Parlamento fu al gruppo della democrazia liberale, su posizioni antitetiche al pragmatismo ed al cinismo giolittiano.

Fautore della moralizzazione della politica e degli interessi popolari, si oppose ad ogni estremismo (sia di destra, sia di sinistra). L’inizio della Grande Guerra del 1914 fu l’inizio di uno spartiacque delle coscienze, prima che politico, che furono divise, in maniera traversale, in ogni schieramento.

Una parte della destra parlamentare voleva ancora riferirsi alla Triplice Alleanza ed al mantenimento del patto con la Germania. Un’altra vedeva nell’intervento, a fianco della Francia e dell’intesa, la possibilità di compimento dei Risorgimento, con la conquista del Trentino e soprattutto di Trieste.

La sinistra si divise ancor più ferocemente; i socialisti massimalisti (in particolare) prima rifiutarono l’intervento e poi predicarono la diserzione, in quanto giudicavano la guerra come dettata da interessi capitalistici e nazionalistici, in estremo contrasto con gli interessi popolari.

Ma importanti frange della sinistra, compresa quell’anarchica, giudicarono la guerra come l’inizio dei riscatto delle masse e della rivoluzione sociale.

Giovanni Amendola, nel 1914, si schierò a favore dell’intervento nella Prima Guerra Mondiale a fianco dell’intesa, per la definitiva unificazione nazionale, divenendo uno dei maggiori protagonisti dell’interventismo democratico che vedeva nella Guerra europea la IV Guerra d’indipendenza.

Fu a capo dei gruppi nazional-liberali interventisti e, con estrema coerenza, partecipò come volontario alla guerra dove raggiunse il grado di capitano d’artiglieria e fu decorato con una medaglia ai valore.

Dopo  la  vittoria,  sostenne  le  posizioni  democratiche  dei  Presidente  statunitense  W. Wilson ed auspicò il riavvicinamento, nei 1918, con gli slavi (Patto di Roma) contro la monarchia austro-ungarica. Ai ritorno della pace, alternò l’impegno parlamentare con l’attività giornalistica assumendo la direzione della redazione romana del Resto dei Carlino.

Corrispondente dei Corriere della Sera e del New York Herald, nei 1922 fu tra i fondatori del Mondo, che fu un caposaldo giornalistico per la difesa e la diffusione delle idee liberal-democratiche; il Mondo nasceva però nell’anno in cui il fascismo conquistava il potere e non potette avere che una vita breve.

            Dopo l’omicidio (1924) del deputato socialista riformista Giacomo Matteotti, divenne il capo dell’opposizione demo-liberale al nascente regime fascista. Convinto sostenitore dell’astensione e della secessione dai lavori parlamentari detta “deIl’Aventino” colpiva, con la sua penna e la sua parola, l’acquiescenza alla dittatura da parte della monarchia, della chiesa e delle forze politiche moderate.

La sua azione politica d’intransigente e diretta opposizione provocò la reazione violenta dei fascisti, che lo aggredirono e lo percossero prima a Roma e, successivamente, (21 luglio 1925) lo sequestrarono all’Hotel La Pace di Montecatini. In una località fra Monsummano e Serravalle, Amendola fu percosso e subì gravi lesioni traumatiche.

A seguito delle sue condizioni di salute, prodotte dalle lesioni del pestaggio, abbandonò la vita politica attiva riparando in Francia dove, in una clinica di Cannes, mori il 12 aprile 1926. Nella libera Francia, ospitale ai fuoriusciti dell’antifascismo, moriva uno dei più illustri martiri dell’ideale, un coraggioso ed intransigente difensore dei valori liberali e democratici, che furono lo scopo principale della sua attività politica.

Paradossalmente, la più bella commemorazione d’Amendola fu pronunciata proprio da Mussolini, dopo che l’On. Casertano, ipocritamente, aveva annunciato al Parlamento la sua morte a causa di “un male incurabile”. Mussolini così si espresse: “Amendola era il più forte avversario che il Paese potesse proporci     Egli, il più apparentemente pacifico dei liberali, era il solo realistico combattente della libertà”.

GIOVANNI  AMENDOLA:  IL MASSONE  E  L’ESOTERISTA

I corsi e ricorsi storici vichiani portarono, negli ultimi decenni del XIX secolo, molte menti acute ed inquiete ad interrogarsi sul rifiuto della metafisica e del misticismo che l’illuminismo prima ed il positivismo poi, avevano inserito nella storia del pensiero europeo.

Molti videro, in questa concezione, una barriera alla comprensione ed alla conoscenza globale dell’uomo e dell’universo e reagirono, riportando in luce le filosofie esoteriche.

L’influenza della madre Adelaide Bianchi, anticlericale come il marito, ma profondamente religiosa, sul giovane Giovanni lo portò a profonde meditazioni sul significato e sugli scopi dell’esistenza umana. Uno degli interessanti saggi su Amendola, quello del Capone2), rende noto che i suoi interessi esoterici iniziarono in giovanissima età, anche attraverso la lettura di teologi e mistici, come Santa Teresa e Sant’Agostino, e filosofi come Giordano Bruno, Kant e Shopenhauer3).

Il suo stesso primo radicalismo socialista e rivoluzionario, vicino a quello di Cavallotti e Colajanni, poteva provenirgli dalla frequentazione di circoli comunitaristi pitagorici vicini al Martinismo ed ai Riti Massonici “egizi”, in una sintesi fra utopia e realtà sociale che considerava  “un nuovo socialismo spiritualistico ispirato non già ai dogmi del positivismo o del socialismo ufficiale, bensì ad un’etica umanitaria e anarchica alla Merlino o religiosa alla Tolstoi. 4)

A diciassette anni (1899) iniziò la collaborazione con la rivista La Capitale diretta da Eduardo Arbib, noto spiritualista e sostenitore della società Teosofica, che introdusse il giovane amico e collaboratore negli ambienti spiritualistici.

Gli articoli dell’Amendola nella rivista La Capitale rivelano i suoi primi interessi, rivolti a tematiche metafisiche, ed alieni da qualsiasi riferimento politico.

Nel 1900 s’iscrisse alla Loggia Teosofica romana5). Frequentò, assieme alla fidanzata, la russa Eva Kűnn, i corsi di Wundt a Lipsia (1906) che furono l’inizio di una vera ricerca scientifica sulla filosofia, e l’inizio della sua carriera universitaria.

L’adesione di Giovanni Amendola alla Massoneria, essendo posteriore al suo primo avvicinamento al mondo esoterico, ne fu evidentemente la conseguenza.

Gli ultimi decenni del XIXo secolo videro la rinascita dello spiritualismo, visto come un movimento capace di opporsi sia al razionalismo, allo scientismo ed al positivismo, sia allo sfruttamento della fede religiosa e della superstizione popolare da parte del clericalismo.

Pur contrastata da eminenti tradizionalisti per la sua componente occultistica, la Società Teosofica, assieme ad altri gruppi di maggior livello, fu l’alfiere della ribellione all’aridità filosofica ottocentesca.

Questa, nata dall’illuminismo, n’aveva prevaricato e degenerato i concetti base, ideati per la necessaria distruzione di un vecchio mondo per la riedificazione del nuovo.

Già Helena Petrovna Blavatsky, nei suoi studi comparativi sull’origine del rituale massonico, si era avvicinata alla latomistica ma fu in particolare Annie Besant, che le era succeduta alla guida della Società, che cercò di stabilire contatti con la Massoneria, ma la sua creazione di massonerie irregolari e miste non la favorirono. Annie Besant cercò di sincretizzare, come molti degli spiritualisti della sua epoca, un cristianesimo esoterico, forse più strumentalmente ideato che reale, con un induismo d’ugual sorta.

Forse, fu proprio l’estrema volgarizzazione delle tematiche metafisiche indotta dalla Teosofia (come attualmente induce il New-Age), che provocò il suo successo mondiale.

All’interno della Società Teosofica vi era un circolo riservato, la Scuola Arcana o Interiore, di carattere più strettamente esoterico, alla quale Giovanni Amendola fu ammesso.

Oltre alle motivazioni filosofiche della scelta d’Amendola, vi erano certamente delle affinità politichecon la Besant6), che era stata una stretta collaboratrice d’Eveiing, genero di Karl Marx, e che coniugava il radicalismo politico socialista con alcune visioni messianiche della storia.7)

In alcuni articoli per La Capitale, Amendola presentò il bramino indiano Roy Chatterji (La filosofia indiana a Roma e Un’intervista con Roy Chatterji), ma prese poi le distanze dall’eccessiva pretesa dell’induista di presentare la tradizione orientale come la sola possibile.

Forse fu questa la motivazione dell’avvicinamento d’Amendola alla Massoneria, che rappresenta la permanenza, nell’era attuale, della tradizione occidentale.

Amendola fu iniziato alla Massoneria di Palazzo Giustiniani il 24 maggio del 1905, nella Loggia Giandomenico Romagnosi all’Oriente di Roma. L’amicizia con Arturo Reghini ed Amedeo Armentano, con gli ambienti esoterici del Martinismo e con il Rito di Memphis, 8)  ne formarono, o ne confermarono, la posizione spirituale.

In quest’ambito Giovanni si apri ad una visione più laica e pagana della religiosità, quella stessa, laica, d’Arturo Reghini il cui anticlericalismo derivava, più che da beghe temporali, da motivazioni storiche, filosofiche, metafisiche.

Ma la posizione d’Amendola, eminentemente tradizionale, risulta dalla polemica con Enrico Ferri, che su l’Avanti (15 febbraio 1900) aveva affermato l’incompatibilità fra l’esoterismo, visto come spiritualità avulsa dal sociale, dallo scientifico e dal razionale, e l’impegno politico socialista, con la stessa visione ottusa degli pseudo e neo-positivisti d’oggi.

Amendola nel suo articolo Il misticismo contemporaneo, rispondeva che nello spiritualismo non era presente alcuna forma di conservazione, o, peggio, di reazione, ma come movimento moderno, indispensabil­mente portato alla libertà ed alla liberazione dei popoli, non poteva in alcun modo contrastare con un impegno politico liberai-democratico o socialista.

Amendola affermava che: “Il socialismo non è una dottrina ma una tendenza, un complesso di sentimenti ed idee che agitano gli animi mutano i costumi e tendono a mutare in meglio, cioè a rendere più eque, le relazioni fra gli uomini. Il socialismo non è una cosa di là da venire, ma è lo stesso processo di trasformazione morale e materiale che si compie in noi individui e nella società; è un fatto, non è un’idea; è il giusto salario (vale a dire una ricompensa proporzionale alle fatiche ed adeguata ai bisogni) che chiede chi lavora; è la terra da coltivare che chiedono i contadini; l’emancipazione cui agogna la donna; la libertà. La giustizia, la verità, l’amore che chiedono tutti gli uomini. Niente di ciò che appartiene al perfezionamento dell’uomo è estraneo al socialismo… (omissis) Se questo è il misticismo ebbene esso non deve esser confuso con quello reazionario che ha provocato la bancarotta della scienza.. .Il vero grande movimento spirituale nascente negli uomini, dopo l’instaurazione del sistema positivistico, batté per altre vie e piuttosto che dai cattolici, ci venne dai socialisti e dagli anarchici.”

Il suo rigore morale si espresse bene nel convegno nazionalista di Firenze, nel 1910 9),  in cui si scagliava contro la degerazione morale della vita pubblica: “Un più alto concetto della vita e della moralità individuale, ci spinge a disprezzare tutta questa catena di uomini posti in alto o in basso, che non sentendo in alcun grado la terribile serietà di ogni atto individuale, ogni scelta, giocano spensieratamente con la vita si che l’inerzia, il deficiente senso di responsabilità, la scarsa energia fattiva, e costruttiva, e l’indecorosa e disonesta condotta, ci appaiono come conseguenze già incluse in un male ben più profondo, ch’è la fiacca ed arretrata vita morale dell’individuo. Un più alto concetto dei fini propri della convivenza sociale in genere che si chiama l’Italia, ci fa disprezzare e compiangere vari decenni di vita politica ed amministrativa del Regno, che hanno tradotto in fatti, talora irrimediabili di vita pubblica, la pochezza morale, la povertà fattiva ed intellettuale della classe dirigente. E constatiamo con impazienza e con sdegno quale immane peso noi dovremmo poi rimuovere dal nostro cammino di popolo, prima di poter intraprendere una vita nazionale corrispondente all’attuale realtà dei nostri ideali e dei nostri bisogni”.

Così come l’adesione d’Amendola alla Massoneria fu dettata da motivi di ordine filosofico e metafisico, ugualmente il suo assonnamento non fu dettato dal rifiuto successivo delle sue idealità, ma dalla degenerazione della Massoneria, che dall’unità d’italia in poi si era resa complice e partecipe di speculazioni partitiche lontane dalla sua intima essenzialità e spiritualità.

Testimonianze orali dei discendenti d’Eduardo Frosini, peraltro non dimostrabili, affermano comunque che Giovanni Amendola, fino al 1923, fu vicino al Rito Filosofico italiano d’Arturo Reghini, al quale forse aveva aderito in forma riservata.

GIOVANNI  AMENDOLA:  IL  FILOSOFO

I giovanili studi di Kant e Shopenhauer formarono certamente Amendola nella sua ideazione filosofica. Kant avrebbe, secondo la nota formulazione di Colorni, generato il positivismo, l’idealismo e l’irrazionalismo, ma in Giovanni nacque ben presto una propensione per quest’ultimo, pur rispettando sia l’idealismo ed il positivismo, di cui criticava però le limitazioni gnoseologiche.

La sua etica considerava in special modo il contrasto dialettico fra la “personalità psichica” e l”inibizione”.

La prima è colma di: “contenuti pratici i quali si estrinsecano in innumeri e sempre rinascenti tendenze all’azione.. .al di fuori dell’lo”. L’lo interviene, attraverso la volontà, solo quando è chiamato a “pesare la compatibilità parziale delle varie tendenze e a reprimerle per quel tratto che si rivela incompatibile con il complesso delle altre”.

In questa concezione amendoliana dell’etica, in cui l’lo è deputato ad affermare il principio di realtà attraverso l’inibizione volontaria e conscia, si induce il rifiuto di ogni teoria della storia da cui si possa ipotizzare una politica e quello di ogni filosofia militante conseguente.

Da ciò deriva inoltre il rifiuto di ogni distinzione pragmatistica fra morale e politica, fra morale ed economia, in quanto tra volizione dell’individuale e volizione dell’universale non può esservi distinzione pratica in quanto necessariamente coincidenti. L’azione politica rigida ed intransigente d’Amendola è l’affermazione stessa di questa teoria, applicata conseguentemente alla prassi.

La sua testimonianza filosofica non è scindibile da quella politica, pregne di valori che i Massoni devono condividere per la loro stessa esistenza sul piano spirituale e su quello storico: l’impegno per far prevalere l’universale sul particolare, la scelta democratica, la fede nella libertà, e soprattutto la coerenza piena, interiore ed esteriore, con ciò che si afferma.

GIOVANNI  AMENDOLA:  IL  POLITICO

La prematura morte di Giovanni Amendola, che pur ha dimostrato maturità di teorizzazione filosofica e politica, non ci ha lasciato opere che esprimano, completamente, il suo pensiero in una forma definitivamente matura, completa ed organica.

La raccolta dei suoi scritti e discorsi politici, a cura d’Antonio Cerioti, In difesa dell’italia liberale,10) assieme ad altre biografie, come quella esemplare, inserita nella presentazione di Renzo De Felice del testo La crisi dello stato liberale Scritti politici dalla guerra di Libia all’opposizione al fascismo,11) rivela comunque una sua originalità che esula dall’asse Croce-Gramsci, e che lo rivela inoltre, assieme a Gobetti, come un ispiratore del movimento Libertà e Giustizia dei F.lIi Rosselli e degli azionisti dell’Italia del primo dopoguerra.

L’attribuzione di “centrista”, nel caso d’Amendola non deriva da una sua semplice moderazione ideologia: il suo pensiero, d’altro canto, ha caratteri di riformismo rivoluzionario, ma con la coscienza che l’azione violenta nella storia provoca reazioni incontrollabili e negative, così come, ad esempio, la Santa Alleanza prevalse, dopo la sconfitta di Napoleone, producendo un ritardo nell’evoluzione storica, che dovette aspettare il ‘48 per riprendere la sua marcia.

Apparentemente l’ideologia politica di Giovanni Amendola, con la vittoria dell’idea repubblicana e democratica, potrebbe sembrare ormai storicizzata.

Ma l’evoluzione storica non procede ininterrottamente e linearmente, ma comporta sempre ricadute ed imperfezioni.

Lo studio di questo filosofo, quasi dimenticato, potrebbe dare indicazioni e suggerimenti anche per l’attuale momento storico, in particolare per la formazione massonica di una nuova linea di tendenza all’impegno, ed alla testimonianza diretta della propria essenzialità di creatrice d’evoluzione storica, di progresso civile e sociale.

Proprio questo dovrebbe essere l’impegno di un’Officina che prende il proprio nome distintivo da Giovanni Amendola.

L’imprigionamento d’Amendola nello schema Gramsci-Croce, nasce dalla preoccupazione storico politica di erodere la consistenza e l’autonomia culturale della corrente liberai-democratica. in questa visione, Albertini ed Amendola si vogliono assegnati oggettivamente ad un’area fortemente conservatrice.

L’ala sinistra, Gobetti, viene assegnata, altrettanto oggettivamente, ad un comunismo vagamente ed impossibilmente democratico.

Un’analisi storica dell’etica filosofica e politica amendoliana mostrano come sia errato e strumentale quel tentativo, e come, nell’opera giornalistica, nella docetica e nell’azione politica di Amendola emergano caratteri autonomi e specifici del suo pensiero.

La sua presa di distanza da un preteso conservatorismo, emerge dalla sua opposizione a quanti tolleravano il fascismo come una sorta di rozzo e provvisorio estremismo nazionalista nato dalla Destra storica, ed in grado di battere il liberalismo democratico: “Se ci sono liberali —scriveva sulle colonne de il Mondo il 24 settembre 1922 — che hanno così fragile sensibilità morale da plaudire a coloro che affermano senza equivoci la fine inonorata del liberalismo, ci sono democratici che non si sentono di imitarli”.  In questa frase si riassume l’azione politica di Amendola negli anni successivi la Marcia su Roma, il voler rappresentare, fino ad un sacrificio forse annunciato e cosciente, l’anima di un’opposizione democratica che appariva, ed era, ambigua e tollerante verso l’intolleranza altrui.

Amendola fu deputato di centro, in una circoscrizione campana, negli ultimi gabinetti Facta, e fu testimone e compartecipe indignato della farsa fra Governo e monarchia sul decreto dichiarante Io stato d’assedio alla vigilia della marcia su Roma.

I fatti successivi lo videro intransigente oppositore di Mussolini, anima della secessione Aventiniana; alcuni storici considerano quest’azione politica come un grave errore. Ma la compromissione crescente di molti deputati di ogni partito con il nascente regime imponeva uno spartiacque che definisse senza ambiguità ogni posizione politica personale.

Ma al di là dell’azione coerentemente oppositiva di Amendola, qual’era in realtà la sua posizione politica? Amendola riteneva che solo l’assunzione rigida di una posizione di centro avrebbe potuto salvare lo stato liberai-democratico dai congiunti, e sinergici, attacchi dei bolscevismo da sinistra e dal fascismo da destra.

Ma la posizione di centro amendoliana si differenziava profondamente dall’area centrista degli anni dopo la prima guerra mondiale per diverse motivazioni..

La prima e la maggiore è quella che Amendola volle connotare la sua posizione con un solido aggancio ai principi della democrazia popolare, garante di un’espressione efficace del voto, e della corretta dialettica tra le classi sociali, in un’ottica di mediazione dei conflitti da parte dello Stato.

L’interventismo, di cui Amendola fu tenace assertore, nasceva dalla preoccupazione della maggior parte del liberalismo italiano di poter compiere il Risorgimento italiano attraverso la ricostruzione di un’unità nazionale persa nei lunghi anni di malgoverno e di corruzione politica che ebbero il suo acme nel “decennio” giolittiano.

Per quanto il governo piemontese avesse avuto modo, anche se maldestramente, di cavalcare l’opposizione fra le classi e di gestire in qualche modo lo scontro economico-sociale relativo alla trasformazione ed alla modernizzazione dello Stato, la stasi politica italiana fra ‘800 e ‘900 produceva la rivolta delle classi meno privilegiate, i cui prodromi si videro nei moti del 1908 e nella conseguente repressione di Bava Beccaris.

La guerra avrebbe prodotto, oltre il compimento geografico dello stato unitario, un’omogeneizzazione fra le classi sociali, non più attraverso la politica o la diplomazia, ma da una rinascita morale profonda nata dal sacrificio di un intero popolo.

La stessa questione sociale si sarebbe risolta attraverso una catarsi morale che avrebbe abbattuto gli egoismi ed i particolarismi, in una visione forse utopistica, ma comunque veggente di una nuova ed auspicata Italia.

Infatti, l’interventismo fu un movimento politico ed ideale che vide l’adesione traversale di gruppi dalle origini più disparate e spesso divergenti. Nazionalisti, socialisti, anarchici, liberali, sognarono assieme una nuova Italia ed una nuova Roma.

NeI ‘19 il movimento fascista era repubblicano e socializzante, rivoluzionario ed anticlericale. Il pragmatismo e l’ambizione di Mussolini, e la successiva “ragion di stato” produssero il connubio tra fascismo ed agrari, nascenti capitalisti, clericali e reazionari, fino alla soppressione d’ogni libertà ed al Concordato.

Non molti furono coloro che videro chiaramente la successione logica di questi avvenimenti storici. Alcuni Fratelli, che aderirono al fascismo fin dai suoi inizi, se ne distaccarono presto. Fra questi indimenticabili, Arturo Reghini e il Gen. Cappello. Ma pochissimi, come Amendola, che pure ne condivideva alcune istanze, ne intravidero fin dagli inizi la degenerazione della sua natura nazionale, sociale e rivoluzionaria in termini di reazione e conservazione.

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