LA VALIDITÀ DEL PENSIERO DI ERICH FROMM
PER L’UOMO CONTEMPORANEO
L’uomo, nonostante il suo progresso intellettuale e tecnico, è tuttora prigioniero di emotività arcaiche. Viviamo nell’era atomica, ma siamo ancora succubi di idoli e di illusioni che hanno nomi nuovi ma possono corrispondere concettualmente a Baal ed Astarte.
Il grande problema dei nostri tempi è l’indifferenza dell’uomo rispetto a se stesso. L’uomo deve liberarsi dai fattori emotivi che offuscano e deformano le sue capacità intellettive per incominciare a capire se stesso, la natura, la società e la cultura in cui vive.
ERICH FROMM
LA LOGICA ARISTOTELICA
I princìpi logici della filosofia aristotelica, hanno avuto un’importanza fondamentale e decisiva sulla civiltà del mondo occidentale, durante tutto il suo sviluppo culturale, fino all’età moderna ed ancora oggi, in certe particolari manifestazioni di pensiero.
Questo tipo di logica è basato su tre postulati che la tradizione ha raccolto sotto il nome di leggi del pensiero.
1) – PRI NCIPO D’IDENTITA’, il quale dichiara che A è A.
2) – PRINCIPIO DI CONTRADDIZIONE: A non è NON A.
3) – PRINCIPIO DEL TERZO ESCLUSO: dati A e NON A, non ci può essere X che sia contemporaneamente A e NON A.
Queste leggi del pensiero hanno influenzato così profondamente la nostra formazione mentale, che ci sembrano proposizioni naturali, tanto evidenti da non pensare nemmeno lontanamente di poterle mettere in discussione.
Questo dimostra quanto esse siano radicate nel nostro pensiero.
Bertrand Russell, nel suo saggio “I problemi della filosofia” dice. “Anche il nome leggi del pensiero crea disordine, ha creato confusione ed errori perché non si è compreso come, ciò che deve contare, non è che noi dobbiamo pensare in accordo con queste leggi, ma che le cose si comportino in accordo con esse; in altre parole, che quando pensiamo in accordo con esse ciò che pensiamo è vero”.
Nella sua “Storia della filosofia occidentale” poi, lo stesso Russell fa queste osservazioni: L’influenza di Aristotele, che fu grandissima, nei campi più diversi, fu massima in quello logico. Nella tarda antichità, quando Platone era ancora insuperato nella metafisica, Aristotele era l’autorità riconosciuta per quanto riguardava la logica e conservò questa posizione per tutto il Medioevo.”
La sua supremazia in campo logico ha resistito, in certe correnti di pensiero, anche per molti nostri contemporanei.
“AI giorno d’oggi – prosegue Russell – gli insegnanti cattolici di filosofia e molti con loro, respingono ancora, ostinatamente, le scoperte della logica moderna, ed aderiscono, con strana tenacia, ad un sistema ormai antiquato almeno quanto l’astronomia tolemaica. Lo sviluppo odierno del pensiero aristotelico è così contrario alla chiarezza delle idee, che riesce difficile tenere presente quale gran passo in avanti egli abbia fatto, quando divenne noto, su tutti i suoi predecessori, compreso Platone, o quanto ammirevole sembrerebbe ancora il suo lavoro logico se avesse rappresentato lo stadio di un progresso continuo invece di essere, come in realtà fu, un termine ultimo, seguito da oltre due mila anni dì ristagno.”
“AI tempo in cui l’originalità ha tentato dì affermarsi, un regno, durato due mila anni, ha reso assai difficile detronizzare Aristotele. In tutta l’epoca moderna, quasi ogni nuovo progresso nella scienza, nella logica o nella filosofia, si è dovuto compiere sotto forma di opposizione alle teorie di Aristotele.”
Il pensiero aristotelico influenza profondamente la mentalità corrente. È sufficiente seguire un dibattito su dì un argomento qualunque, per rendersi conto di come le leggi del pensiero siano ancora usate, disinvoltamente, per sostenere punti di vista discutibili, imponendoli come verità assolute, solo perché confortati da stiracchiati argomenti logici.”
L’impostazione della cultura occidentale sulle leggi del pensiero ha avuto come conseguenza, la convinzione, fortemente radicata, che è possibile, con certezza, conoscere la verità per mezzo del giusto pensiero. L’esasperata esaltazione di questo tipo di logica e la conseguente idolatria delle parole, ha portato alla creazione dei dogmi, ad infiniti argomenti sulle formulazioni dogmatiche ed all’intolleranza più spietata in nome della verità.
La convinzione che il credere nel giusto pensiero fosse lo scopo principale e la capacità più elevata della mente umana, ha portato e porta, come conseguenza, ad una situazione non molto convincente e cioè: se un uomo dice di credere in Dio, anche se non vive in Dio, si sente ed è considerato superiore a quello che, pur vivendo secondo un Ideale, rispettando se stesso e gli altri, afferma che non crede in Dio.
A questo punto, è anche molto interessante notare come il linguaggio stesso, svolgendo, tra l’altro, la sua invisibile funzione di filtro, abbia avuto un’importanza non trascurabile insieme alla logica aristotelica, nell’accrescere la confusione che spesso si avverte di fronte a certe espressioni dogmatiche, proprio per l’incapacità strutturale di entrambe a fissare compiutamente, in genere, le esperienze esistenziali oppure i rapporti semantici fra le parole.
IL LINGUAGGIO
Facciamo, ora, una digressione dal tema che stavamo trattando, interessante la logica, per soffermarci su certe curiosità riguardanti i linguaggi, curiosità insospettate che fanno, quanto meno, riflettere su quanta cautela si deve usare, sempre, quando ci troviamo di fronte a lingue non conosciute personalmente oppure a traduzioni disinvolte ed approssimative. Altra considerazione possibile è come le culture possano avere degli strumenti per difendersi da ciò che può turbare l’equilibrio culturale acquisito, e come questo sia un argomento al quale non è concessa molta attenzione.
In effetti, il linguaggio, insieme alla logica che è adottata da un determinato sistema culturale, costituiscono dei veri e propri filtri i quali lasciano giungere alla consapevolezza individuale solamente certe esperienze, mentre lo impediscono ad altre.
Vi sono, per esempio, in una data lingua, molte esperienze, specialmente nell’ambito affettivo, per le quali non esiste alcuna parola per comunicarle, mentre in un’altra, possiamo trovare più vocaboli per indicare vari momenti ed aspetti della stessa esperienza.
Le lingue moderne, tanto per fare riferimento a quanto dicevamo prima, tendono ad esprimere solo quei fatti e quei sentimenti che superano la prova del nostro tipo di logica, proprio quella aristotelica. La maggior parte delle persone presume che la propria lingua sia naturale e che le altre usino solo parole differenti per dire le stesse cose. In tal modo si presume, erroneamente, che le regole, quando si riferiscono ad un criterio accettato di pensare, siano naturali ed universali. Da ciò discende che quanto è illogico in un dato sistema culturale lo si debba ritenere altrettanto illogico anche in qualsiasi altra cultura, solo perché si ritiene che sia contrario alla logica naturale.
La lingua nel suo complesso, si può affermare che sia un vero e proprio atteggiamento di vita. La lingua è, in realtà, un’espressione compiuta di un certo modo di vedere, sentire e vivere la vita. Ecco perché il linguaggio ha pure, in certi casi, una notevole ed efficace importanza terapeutica.
Vi sono lingue, per esempio, in cui la forma verbale piove, è coniugata in modo diverso a seconda che si voglia intendere, che piove e l’ho costatato perché sono uscito e mi sono bagnato, oppure, perché vedo il fenomeno stando bene al coperto, o perché ne sono stato informato da qualcuno.
Nella nostra cultura, mettendo in evidenza l’aspetto puramente intellettuale della conoscenza, non è molto importante esprimere, concisamente, il modo in cui un fatto è sperimentato, se direttamente o indirettamente o per sentito dire. Nel caso si voglia proprio essere più precisi, si può o si deve ricorrere ad una circonlocuzione.
Un altro esempio delle limitazioni che s’incontrano quando si cerca di passare da una lingua ad un’altra, può essere il seguente. In ebraico, il criterio fondamentale che regola la coniugazione dei verbi, è quello di determinare se un’attività è completa (perfetta) o incompleta (imperfetta), mentre il tempo in cui si verifica (presente, passato o futuro) è espresso solamente come un accessorio secondario. Con i verbi che riguardano le azioni nel mondo fisico, il perfetto indica, necessariamente, il passato, ma con le attività di natura non fisica, come il conoscere, per esempio, la cosa è molto diversa. Se io ho finito di imparare, quest’evento non è necessariamente nel passato, infatti, il perfetto di conoscere può significare: conosco completamente, capisco fino in fondo, oppure ho capito, ho conosciuto. La stessa cosa vale per i verbi, come amare e simili. In ebraico non c’è differenza fra io amo completamente ed io amai.
Diventa di facile comprensione, quindi, come queste particolarità strutturali di una lingua, possano influenzare lo spirito, il contenuto, il senso o la lettera di una traduzione, non certo a favore della chiarezza e della precisione espressiva.
In latino, i due criteri, tempo e perfezione, sono sempre usati congiuntamente e con uguale importanza. In inglese, invece, si mette l’accento predominante sul tempo. Va da sé che questa diversità di coniugazione, si riflette in una diversa modalità nell’ambito dell’esperienza e dei significati.
In inglese, per esempio, la parola awe significa due cose diverse: awe è il sentimento d’intensa paura, come risulta anche dall’aggettivo awful (spaventoso), ma awe indica pure qualche cosa di simile alla profonda ammirazione, come possiamo trovare in awesome (grandioso, imponente), e in away by (messo in soggezione da). Dal punto di vista razionale e conscio, timore ed ammirazione, sono sentimenti distinti e quindi non dovrebbero essere confusi, ma se c’è una parola come awe, usata nell’uno o nell’altro senso, diventa alta la probabilità che si possa, in alcuni casi, congiungere in uno stesso sentire, come valori equivalenti: timore ed ammirazione. Anzi è facilmente comprensibile come possa accadere che, nell’esperienza corrente in una società, timore ed ammirazione non siano l’uno esclusivo dell’altra, anzi che siano convenzionalmente accettate come necessariamente coesistenti, con implicazioni considerevoli nei rapporti fra individui e, particolarmente, nei rapporti con l’autorità. Altro apprezzabile esempio, con uguale forte impatto nell’organizzazione sociale, è la parola aweless che significa: intrepido, senza timore, ma anche, senza rispetto.
La lingua dunque, con il suo lessico, la sua grammatica, la sua sintassi e con le sue espressioni accettate, determina, in modo notevole, quali esperienze possano essere percepite dalla nostra consapevolezza e quale debba essere la loro interpretazione emotiva.
Da quanto appena accennato, si può comprendere quali potenti filtri siano tanto la logica quanto la lingua e come non siano facili gli scambi, fra cultura e cultura, attraverso queste barriere invisibili, ma potentissime.
Soprattutto è importante rendersi conto di quanta cautela sia indispensabile, quando si tentano degli scambi o dei confronti, fra culture diverse.
LA LOGICA PARADOSSALE
Tornando al tema iniziale, dobbiamo dire che non possiamo misconoscere come la logica basata sulle leggi del pensiero aristoteliche, nell’ambito della nostra cultura e più precisamente nel campo scientifico, pur commettendo errori che non hanno consentito di abbracciare la realtà oltre una certa approssimazione, ci ha portati, fino all’età moderna, ad un grado di conoscenza che ha permesso uno sviluppo, tecnologico ed organizzativo, esaltante. Questi risultati, infatti, sono diventati anche validi argomenti per quanti hanno avuto interesse a sostenere che proprio il corretto pensiero è ciò che maggiormente conta per il progresso dell’umanità. Questo però, non è il solo aspetto derivante dall’adozione della logica aristotelica da parte del mondo occidentale. La nostra cultura ha creato la scienza ed il dogma, ha portato alla Chiesa Cattolica ed alla scoperta dell’energia atomica, ha fatto un uso esaltato ed esaltante dell’intelligenza, escogitando, però, sistemi che non sono riusciti a dare, come invece era auspicabile, una valida soluzione globale, al problema uomo. Ogni tentativo di definire la natura e l’uomo, ha portato a concepire sistemi chiusi, deformanti la realtà, i quali ci hanno indirizzato più verso l’autodistruzione che verso la pacifica convivenza.
In contrapposto alla logica aristotelica, che è stata, come già detto, la struttura basilare della cultura occidentale, e che ha sempre fornito, un’immagine approssimativa ed incompleta della realtà, pur prospettandola, invece, come esatta e totale, nel mondo orientale si è affermata quella che viene chiamata la logica paradossale e che è stata predominante nella costruzione del pensiero cinese ed indiano. Proviamo a cercare di saperne di più, naturalmente, con la cautela del caso, cioè con la cautela che abbiamo constatato necessaria per tentare di capire come stanno veramente le cose.
Nell’approccio con una parte del pensiero di queste due cultura, la cinese e l’indiana, ci troviamo a dover affrontare proprio le difficoltà dovute all’interpretazione di quei filtri di cui abbiamo fatto cenno in precedenza e che per tanti secoli hanno funzionato egregiamente, impedendo scambi culturali travolgenti e profondi. Infatti, la logica ed i linguaggi delle culture di cui trattasi, diversi dai nostri occidentali, hanno sempre attivato tutta la loro potenza ostruzionistica, ed anche oggi gli sbarramenti sono tuttora solidi e resistenti.
Ci renderemo presto conto di come, costruire un modo di vivere e di pensare, avendo come base una logica piuttosto che un’altra, possa conseguire risultati incredibilmente lontani.
Potremo, invece, solo provare ad immaginare, le incertezze e le complicazioni che hanno dovuto superare i traduttori occidentali quando si sono immersi nei segni e negli ideogrammi di antichi testi che, pensate un po’, non sono ancora uniformemente letti ed interpretati nemmeno dagli studiosi orientali dei nostri giorni.
Non c’è alcun dubbio che l’impegno conoscitivo cui ci apprestiamo, si presenti interessante, quanto mai avvincente ma anche da esaminare con entusiasmo controllato.
Per essere sufficientemente circospetti, in quest’avventura, e per cercare di avvicinarci il più possibile a mondi culturali che difendono così bene il loro pensiero, si è ritenuto opportuno affidarci prevalentemente ad uno studioso occidentale il quale, non solo ha tradotto testi antichi e tradizionali ed ha interpretato comportamenti e leggende, ma ha vissuto direttamente, per anni, l’esperienza dottrinaria di cui ci parla. Mi riferisco allo scrittore Alan W. Watts che, insieme al professor D. T. Suzuki di Kyoto e pochi altri, sono riusciti a far conoscere all’occidente qualche cosa che si avvicina molto ad una buona interpretazione dello spirito della dottrina Zen.
Quanto segue è, molto sinteticamente e parzialmente, ciò che ci hanno trasmesso con le loro meravigliose opere di divulgazione.
* * *
I maestri della logica paradossale partono dal presupposto che l’uomo è incapace di afferrare l’unità del mondo. L’uomo può percepire la realtà solo nelle contraddizioni e non potrà mai percepire, nel pensiero, l’estrema realtà-unità: l’uno stesso.
I pensatori brahamani sostengono che i due opposti percepiti, non riflettono la natura delle cose bensì quelli della mente che percepisce. I contrapposti sono una parte della mente umana e quindi, in se stessi, non sono elementi di realtà. Dato che la mente umana conosce la realtà solo nelle contraddizioni, non può essere formulato alcun giudizio positivo sulla realtà stessa. Il pensiero può solo portarci alla convinzione che non è possibile avere una risposta universale. Il mondo del pensiero è impotente e resta prigioniero del paradosso.
La filosofia vedantica dice, drasticamente, che il pensiero, con tutta la sua fine capacità di fare distinzione, è solo un modo per allargare un orizzonte d’ignoranza, in effetti, è questo il sottile ed ingannevole capriccio di Maya, cioè dell’esteriore apparenza della realtà.
L’unico modo in cui il mondo può essere afferrato definitivamente, non sta nel pensiero ma negli atti, possibilmente nell’esperienza dell’unità. Tutto, nella vita, anche ogni piccola azione, può essere conoscenza, ma non si tratta di una conoscenza nel pensiero, logica ed intellettuale, bensì di una conoscenza nella giusta azione.
Per cercare di intuire il pensiero di questi maestri orientali, proviamo ad ascoltare cosa dicono ai loro discepoli.
Lao-Tze: “Le parole che sono strettamente vere, sembrano essere paradossali”
Chuang-Tzu: “Quello che è uno è uno. Quello che non è uno è pure uno”. Ed ancora: “Quello che sa, non si cura di parlare, colui che è pronto a parlare, non sa nulla”.
Notevolmente seducenti sono queste espressioni di un maestro buddista: “Quando ti interrogano curiosi, cercando di sapere cosa Esso sia, non affermare nulla, non negare nulla… Perché ogni cosa affermata non è vera… E ogni cosa negata non è vera… Come potrà qualcuno dire con verità che cosa può essere finché egli stesso non ha pienamente raggiunto ciò che è? E dopo che l’ha raggiunto, quale parola si può mandare da una regione dove il carro della parola non trova una via su cui correre? Dunque, alle loro domande, offri il silenzio soltanto: il silenzio ed un dito che indica la Via.”
Forse, per comprendere meglio gli scopi ed i risultati che si producono con l’applicazione della logica paradossale nell’esistenza giornaliera, sarà opportuno approfondire un poco la conoscenza del Buddismo – Zen.
Dice Alan W. Watts: “Descritto in parole, lo Zen ha molte cose in comune con altre religioni e filosofie; ciò che lo distingue da tutti gli altri sistemi di pensiero è il suo metodo. Mentre è destino di quasi tutte le ideologie o religioni, che nel tempo, si allontanino dallo spirito dei primi seguaci, lo Zen è riuscito a tener vivo questo spirito iniziale fino ad oggi. Dopo 1400 anni, non è degenerato in mero filosofismo, né in una formale osservanza di precetti, dei quali si sia perso il significato originario.”
“Di ciò vi è una duplice ragione: in primo luogo, il risultato dello Zen è un’esperienza spirituale così precisa da essere inconfondibile, in secondo luogo, i più antichi maestri escogitarono un metodo di insegnamento, così particolare che l’intelletto non può, in nessun modo alterare cercando di forzarlo. È un metodo che, se viene adottato, può avere un solo risultato e cioè quell’esperienza spirituale inconfondibile. I due elementi di questo metodo sono inseparabili: il primo è noto sotto il nome di Satori; il secondo sotto quello di Koan. Il Satori è un esperienza ben precisa, per quanto riguarda il modo del suo presentarsi e per i suoi effetti sul carattere, ma indefinibile, perché consiste nel rendersi improvvisamente conto della verità dello Zen. Il Satori è un esperienza istantanea ed è spesso descritta come un rovesciarsi della mente. Il Satori è un sollievo dall’abituale stato di tensione e dall’attaccamento a false idee di possesso. La rigida struttura in cui l’uomo vede di solito configurata la vita, cade improvvisamente in pezzi, e ne deriva un senso di sconfinata libertà. La prova del vero Satori sta in questo: chi lo sperimenta non ha il minimo dubbio sulla pienezza della sua liberazione. Se rimane la più leggera incertezza, il più vago senso che «è troppo bello per essere vero», allora il Satori è solo parziale, perché implica il desiderio di fermare quest’esperienza affinché non vada perduta e l’esperienza non può definirsi completa finché questo desiderio non sia superato. Il desiderio di fermare il Satori, di assicurasi di possederlo, lo uccide, come, d’altra parte, uccide ogni altra esperienza.”
“Mentre il Satori è «la misura dello Zen», perché senza di esso non può assolutamente esserci Zen, ma soltanto un cumulo dì assurdità, il Koan è «la misura del Satori».”
“Il Koan è un problema che non ammette soluzione intellettuale; la risposta non ha alcun rapporto logico con la domanda e la domanda è tale da mettere nel più grande imbarazzo l’intelletto. Eccone alcuni esempi: «Battendo le mani l’una contro l’altra, si produce un suono. Qual è il suono di una mano sola ?». «Un uomo teneva un’oca dentro una bottiglia; l’oca crebbe finché non poté più uscire dalla bottiglia; l’uomo non voleva rompere la bottiglia e neanche far male all’oca. Tu come te la saresti cavata ?»”
“Ogni Koan racchiude qualche cosa che somiglia ad un dilemma; alla mente si propone, in genere, la scelta fra due alternative ugualmente impossibili. Così, ogni Koan riflette il Koan gigantesco della vita, giacché per lo Zen, il problema della vita è quello di superare le due alternative, della negazione e dell’affermazione, che oscurano entrambe la verità.”
“Ogni Koan deve portare, alla fine, ad un’impasse risolutiva. Si comincia cercando di risolverlo intellettualmente e si scopre che contiene una serie di simboli e di analogie. Per esempio, nel racconto dell’oca, è chiaro che l’oca può rappresentare l’uomo, e la bottiglia, le circostanze della sua vita; l’uomo deve o abbandonare il mondo per liberarsene o lasciarsene schiacciare ma, entrambe queste alternative, sono forme di suicidio. Ecco il dilemma fondamentale che deve affrontare il discepolo Zen, e dal quale deve trovare una via d’uscita. Nel momento in cui la trova, lo colpisce il lampo del Satori: l’oca è fuori dalla bottiglia e la bottiglia è intatta perché il discepolo è uscito dalla rigida visione della vita che egli stesso aveva edificato sulle fondamenta deI suo desiderio dì possesso.
“Scrive un maestro sull’esperienza del Koan e del Satori: «Il discepolo, di fronte al suo Koan si accorge che in esso non vi è alcuna spiegazione intellettuale, che è completamente privo di senso, nel significato comune della parola. Si accorge che è insipido, non ha nulla di attraente e, quindi, comincia ad avvertire disagio ed impazienza insieme. Dopo qualche tempo, questi sentimenti si intensificano ed il Koan sembra così opprimente ed impenetrabile che il discepolo è paragonato ad una zanzara che cerchi di pungere un blocco di ferro, ma nel momento in cui il ferro respinge, nel modo più deciso, il fragile pungiglione, e sembra raggiunto un limite insuperabile della tensione mentale, per un attimo, il discepolo sente la sua mente ed il suo corpo cancellati dall’esistenza insieme con il suo Koan. Nell’istante dell’urto, ecco il lampo del Satori ed il discepolo comprende che è penetrato ed ha oltrepassato il ferro e che, dopo tutto, forse, là dove è arrivato non c’è nulla. In quel momento sentirà una gioia inesprimibile, come bere acqua e sapere, per lui solo, che è fresca…»’
“In una famosa parabola Zen, è detto che per coloro i quali non sanno nulla dello Zen, le montagne sono soltanto montagne, gli alberi soltanto alberi e gli uomini soltanto uomini. Dopo aver studiato lo Zen per qualche tempo, uno giunge a percepire la vanità e la fugacità di tutte le forme, e le montagne non sono più montagne, gli alberi non sono più alberi, gli uomini non sono più uomini, giacché mentre l’ignorante crede nella realtà oggettiva delle cose, chi è parzialmente illuminato vede già che esse sono soltanto apparenze che non hanno nessuna durevole realtà e trascorrono come nuvole in fuga. Ma, conclude la parabola, per colui che ha compreso pienamente lo Zen, le montagne sono di nuovo montagne, gli alberi sono alberi e gli uomini sono uomini…”
Questi pensieri, pur nella loro ostica formulazione paradossale, risvegliano, anche in noi occidentali, echi non insopportabili, non si può dire che abbiamo l’impressione di conoscere, ma si ha l’impressione di sentire, come con un senso diverso, un qualche cosa che, per un attimo, sembra più profondo, universale.
Nei dialoghi fra i maestri della scuola Zen ed i loro discepoli, ci troviamo di fronte all’illogica, dirompente ed illuminante compresenza ed identità, del punto geometrico con l’infinito. Sembra di abbracciare, contemporaneamente, tutta una serie d’interpretazioni, che vanno dalla banalità all’immensità inafferrabile.
Domanda il discepolo: «Cosa è il Budda ?»
Risponde il maestro:«Tre libbre di lino.»
Domanda il discepolo: «Se è vero che un uomo comune è come un Budda, perché, allora, non lo sento?»
Risponde il maestro: «Perché fai questa domanda? »
Le risposte sembrano insoddisfacenti, assurde ma, pensandoci, acquisiscono un loro significato. Per esempio, la risposta «Perché fai questa domanda ?» in realtà, pur sembrando paradossale, si può ben capire come possa essere una replica semplice ed esauriente.
Il buddismo Zen, che affonda le sue radici nei secoli, ed ha considerevolmente influenzate le culture cinese e giapponese, ha un atteggiamento che è considerato anti intellettualistico e, quindi, per noi occidentali sconcertante, ma in realtà è decisamente orientato verso un’elementare e completa accettazione della vita, nella sua immediatezza, senza tentare di sovraccaricarla con inutili spiegazioni che la irrigidirebbero, che la ucciderebbero, che impedirebbero di coglierla nel suo fluire libero, nel suo variare senza discontinuità.
Ed anche la posizione anti intellettualistica dello Zen è meno sconvolgente di quanto vogliano evidenziare certi denigratori occidentali, instancabili difensori della logica aristotelica. Questa precisazione di Alan W. Watts è molto interessante e può chiarire certe incomprensioni: “L’intelletto, per chi vive lo Zen, deve essere un buon servo perché altrimenti diventa un cattivo padrone. Mentre gli uomini, in genere, diventano schiavi dei loro moduli di pensiero intellettuale, lo Zen mira a controllare e sorpassare l’intelletto. Ma, come nel caso dell’oca nella bottiglia, l’intelletto, cioè la bottiglia, non è necessario che venga distrutto…”
E così pure quello che la filosofia taoista propone sull’esistenza e sull’umanità è francamente avvincente, ed anche se un po’ spigoloso, forse per la traduzione in un linguaggio che evidentemente non è il suo, riesce a prospettare qualche cosa di nuovo: orizzonti inesplorati nei quali, però, non si prova timore ad avventurarsi.
“La più alta forma di umanità è quella dell’uomo che è capace di adattarsi e tiene il passo con il movimento del Tao. Il fatto stesso che l’uomo si accorga del mutare delle cose e se ne rattristi, dimostra che egli non si muove con il ritmo della vita.”
“Ciò che è assolutamente immobile o perfetto, è assolutamente morto, perché senza la possibilità della crescita e del cambiamento non vi può essere Tao.”
Cerchiamo di capire un poco, almeno, cosa intendono dire questi maestri Zen quando parlano del Tao.
Il Tao è una parola intraducibile, è un concetto che esprime la crescita ed il movimento; in sintesi, è il corso della natura, è la natura stessa. Dice Lao-Tzu (600 a.C. circa): “Il Tao che si può definire a parole non è il vero Tao.”
“Per la filosofia Zen – scrive Watts nel suo libro «Lo Zen» – vivere è come ascoltare musica. Per sentire la sinfonia nel suo complesso, ci dobbiamo concentrare sullo scorrere delle note e delle armonie via via che nascono e si perdono, mantenendo sempre la nostra mente legata al ritmo ed alla melodia. Tutta l’attenzione deve essere diretta alla sinfonia e l’io deve essere dimenticato. Se uno tenta, consciamente, di concentrarsi, non segue più la musica.”
Altro punto molto importante, per completare questo quadro schematico del pensiero con base logica paradossale, è il valore che viene dato all’insegnamento.
Poche righe, forse, sono sufficienti per chiarire bene il concetto.
Il Budda paragonò il suo insegnamento ad una zattera, con cui attraversare il fiume, e che bisogna lasciarsi dietro quando si è giunti all’altra riva. Scritti e dottrine vanno bene fino a quando sono considerate solo come aiuti necessari per superare un momento evolutivo dell’esistenza; i maestri Zen paragonano gli scritti e le dottrine ad un dito puntato verso la luna: è un pazzo colui che scambia il dito che indica, per la luna.
COMPARAZIONE FRA CULTURE
Confrontando i risultati raggiunti, nel tempo storico, dall’Occidente e dall’Oriente, considerati come mondi culturali nel loro complesso, ci troviamo di fronte a situazioni veramente paradossali.
Nel mondo occidentale, con la massima esaltazione ed affermazione delle possibilità della mente umana, abbiamo creato un mondo nuovo, trasformando e contagiando la natura tanto da essere giunti molto vicino a limiti pericolosi per tutta l’umanità. Si è cambiata la natura per dominarla, ma non si è riusciti a comprendere ed a soddisfare molte delle necessità umane fondamentali.
Nel mondo orientale, con l’esaltazione della giusta azione e della tolleranza ideologica, si è creato un mondo spirituale e di pensiero a totale detrimento della scienza, della tecnologia e del benessere materiale. Non si è contaminata la natura e si sono comprese le esigenze non animali dell’uomo, giungendo ad una certa padronanza psico-fisica del corpo umano
I risultati raggiunti dalle due parti, in senso globale, si possono definire obiettivamente, non soddisfacenti. Soltanto una mente superficiale o narcisista, può vedere in modo univoco gli errori di una sola delle due parti in esame.
Queste grandi culture, per secoli hanno progredito, lungo la loro strada, quasi senza conoscersi, senza influire profondamente l’una sull’altra. Certo, anche per la resistenza opposta dai filtri di cui abbiamo parlato: il linguaggio e la logica. Ma oggi, che il mondo è diventato estremamente piccolo e sono cadute le barriere che lo hanno tenuto diviso per tanto tempo, l’interscambio culturale, iniziato per osmosi naturale, progredisce sempre più, favorito anche dalla considerevole forza di penetrazione fornita dall’imponenza degli scambi commerciali.
Come si è sempre verificato nella storia, quando si ha l’incontro dì due civiltà, anche se questo avviene su di un piano di potere diverso (basti pensare alla Grecia ed a Roma), si sono attuate compenetrazioni tali che hanno, ogni volta, profondamente modificato quasi tutte le strutture culturali delle due contraenti, ad ogni livello di espressione.
Anche in questo caso, quindi, proprio perché oggi le idee circolano con più libertà, e i filtri hanno perso, in parte, la loro funzione difensiva e campanilistica, si può facilmente ipotizzare che la confluenza delle due correnti di pensiero, sommariamente ora tratteggiate, e che già dagli inizi del XX secolo ha maturato i primi frutti, porterà a profondi cambiamenti dell’una e dell’altra parte. La logica del paradosso, per esempio, è già entrata nell’uso delle scienze più avanzate, per formulare ipotesi di studio e per dare accettabilità alla spiegazione di eventi altrimenti inspiegabili.
In una nota: “Lo Zen e l’occidente” di Umberto Eco, si può leggere:
“L’uomo occidentale ha appreso dalla fisica moderna che il caso domina la vita del mondo subatomico, e che le leggi e le previsioni, da cui ci facciamo guidare, per comprendere i fenomeni della vita quotidiana, sono valide solo perché esprimono delle medie statistiche approssimative. L’incertezza è diventata il criterio essenziale per la comprensione del mondo. Sappiamo che non possiamo più dire: all’istante X l’elettrone A si troverà nel punto B, bensì, all’istante X vi sarà una certa probabilità che l’elettrone A si trovi nel punto B. Sappiamo che ogni nostra descrizione dei fenomeni atomici è complementare, che una descrizione può opporsi ad un’altra, senza che una sia vera e l’altra falsa. Pluralità ed equivalenza delle descrizioni del mondo sono accettabili. L’incertezza e l’indeterminazione sono un’oggettiva proprietà del mondo fisico.”
Il cambiamento che si sta producendo nel mondo occidentale, non potrà mai, certamente, concludersi con l’abbandono di tutto quanto è stato costruito, e della mentalità con cui è stato creato. Non ci potrà mai essere, ed anche storicamente è un fatto inaccettabile, una sostituzione totale di un modo di pensare, per quanto affascinante possa essere l’alternativa, non sarà mai possibile trapiantare in toto, in un altro mondo, ciò che è il risultato prodotto da secoli di vita, di creatività e di pensiero.
Dice, infatti, Umberto Eco: “Quanto a parlare della validità assoluta del messaggio Zen per l’uomo occidentale, avanzerei la mia più ampia riserva. Anche di fronte ad un buddismo che celebra l’accettazione positiva della vita, l’animo occidentale non potrà mai rinunciare al bisogno inalienabile di ricostruire questa vita, accettandola secondo una direzione voluta dall’intelligenza. L’occidente, anche quando accetta il mutevole e rifiuta le leggi causali che lo immobilizzano, non può rinunciare a ridefinirlo attraverso le idee provvisorie della probabilità e della statistica perché, sia pure in questa plastica accezione, l’ordine e l’intelligenza che distingue, sono la sua vocazione. Se lo Zen (e con esso tutta la filosofia del mondo orientale) ha riconfermato al pensiero occidentale, con la sua voce antichissima, che l’ordine eterno del mondo consiste nel suo fecondo disordine e che ogni tentativo di sistemare la vita in leggi unidirezionali è un modo di perdere il vero senso delle cose, l’uomo occidentale accetterà criticamente di riconoscere la relatività delle leggi, ma la reintrodurrà nella dialettica della conoscenza e dell’azione, sotto forma di ipotesi di lavoro.”
Ed è proprio per questo motivo che intendo proporre Erich Fromm , e che pongo la domanda sulla validità del suo pensiero per l’uomo contemporaneo. Perché ritengo che il risultato strutturale del lavoro di Fromm nasca, precisamente, dal tentativo dì sistemare il fenomeno vita partendo proprio dai presupposti del pensiero orientale, elaborandoli con l’intelletto, per giungere alla giusta azione, non per mezzo della volontà, intesa come imposizione razionale, ma come scelta, derivante dal raggiungimento di un orientamento del carattere; orientamento che viene a far parte della personalità dell’uomo, quando questi riesce a diventare libero.
Le proposte di Fromm, che partono dalle dicotomie esistenziali insite nella condizione umana, si applicano con un metodo empirico tendente a risolvere il conflitto degli opposti ed a padroneggiare i fenomeni da esso prodotti.
Queste proposte esprimono proprio quell’accettazione critica, preconizzata ed indicata da Umberto Eco, per cui la filosofia paradossale s’introduce nel problema della conoscenza, come ipotesi di lavoro, ma sono proposte che esprimono pure la fede nella ragione (continuità del pensiero squisitamente occidentale), come presupposto fondamentale del suo schema inteso a liberare l’uomo, rendendo conscio l’inconscio, sostituendo l’irrazionale con la consapevolezza. Esaminiamolo, dunque, questo schema dal quale potrebbe anche nascere l’uomo futuro, l’uomo generato dalla sintesi delle due maggiori correnti di pensiero del mondo.
Ritengo, comunque, questo tentativo un’esperienza conoscitiva interessante, e per qualcuno potrebbe essere proprio il dito che indica la via, di cui abbiamo parlato in precedenza. Ricordiamo però, come esortazione generale mai troppo richiamata, per evitare confusioni ingannevoli: ciò di cui parliamo è costituito solo da parole che sono una cosa ben diversa dalla realtà. Per muoverci con una consapevole programmazione sulla superficie terrestre, facciamo uso di carte geografiche, di paralleli e di meridiani come punti di riferimento. ben sapendo che non sono il territorio vero e proprio che vogliamo conoscere; i pensieri, le idee sono solo mezzi con i quali ci si può muovere verso lo scopo, senza essere loro stessi lo Scopo; come la zattera buddista, aiutano ad attraversare il fiume, ma per arrivare alla mèta c’è ancora tanta strada da percorrere, non dimentichiamolo mai.
IL PENSIERO DI ERICH FROMM
L’esame della situazione umana è la base da cui parte Erich Fromm per fondare il suo sistema aperto dell’uomo.
Il comportamento degli animali è determinato dagli istinti, cioè un complesso di scelte esistenziali dettate da strutture neurologiche ereditarie che in parte si modificano con l’esperienza. Per quanto riguarda il corpo e le funzioni fisiologiche, l’uomo, si può dire, appartiene al regno animale.
“L’uomo – dice Fromm – è un animale, però il suo apparato istintuale, in confronto a quello di tutti gli altri animali, è insufficiente ad assicurargli la sopravvivenza se egli non riuscisse a produrre i mezzi necessari per soddisfare i suoi bisogni materiali, e non riuscisse a sviluppare la favella ed a perfezionare gli utensili con i quali trasformare l’ambiente nel quale vive. L’uomo ha un’intelligenza, come gli altri animali, che gli consente di impiegare i processi del pensiero, per il raggiungimento degli scopi immediati, pratici. Ma l’uomo ha un altra qualità mentale che manca all’animale: egli è consapevole di sé, del suo futuro che è la morte, e delle sue modeste qualità fisiche; egli è consapevole degli altri, in quanto distinti da sé, come amici, nemici o stranieri. L’uomo trascende tutti gli altri esseri, perché egli è unico, perché è la vita consapevole di se stessa. Quando l’uomo nasce, sia come specie, sia come individuo, è estromesso da una situazione tranquilla e ben definita, ed è immesso in una situazione indefinita, incerta e sconfinata. L’uomo è messo di fronte al pauroso conflitto di essere limitato e prigioniero della natura, eppure dì essere libero nei suoi pensieri; di essere caduto fuori dalla natura e di esservi ancora dentro; di sentirsi in parte divino ed in parte animale, in parte finito ed in parte infinito; di sentirsi uno con l’umanità e, nello stesso tempo, solo come individuo; dì avere bisogno della libertà, e di non riuscire a liberarsi dal dubbio; di sentire, con paura, la contraddittoria necessità di sottomettersi completamente, per una sicurezza più completa; di conservare la fiducia nel proprio pensiero, per prendere delle decisioni, pur non avendo certezze sul risultato delle proprie decisioni. Però, il vero problema dell’uomo, anche se esso nasce dalle dicotomie ora accennate, non è nelle dicotomie come tali. Il vero conflitto dell’uomo è determinato dal fatto che, questa situazione umana esige una soluzione pratica ed immediata. La risposta che l’uomo deve dare agli interrogativi che gli si pongono, non è, e non può essere, solamente di ordine teoretico, ma deve essere una risposta utile all’intero suo essere, al suo sentire e soprattutto al suo agire. La risposta può essere migliore o peggiore, ma, perfino la risposta peggiore viene accettata purché sia una risposta; purché essa, in un qualunque modo, tradotta in azione, aiuti l’uomo a superare il senso di separazione, acquisendo un convincimento tranquillizzante di unicità e di appartenenza. Naturalmente, nessuna di queste risposte, come tale, indica l’essenza dell’uomo; quello che costituisce l’essenza, se così si può dire, è il bisogno di una risposta. Le varie forme di esistenza e di convivenza umana, sono solamente le risposte che l’uomo dà, tenendo conto delle sue personali possibilità socio-economiche e culturali, alle dicotomie esistenziali. Le idee religiose, le idee filosofiche e politiche tutte, hanno in comune l’intento di dare una loro soluzione, nell’ambito dello schema generale di riferimento fornito da una data cultura. Però, queste contraddizioni, che abbiamo veduto essere saldamente radicate proprio nelle condizioni naturali dell’esistenza umana, questi conflitti che, in sé richiedono soluzione immediata, lasciano, in realtà, all’uomo, due sole possibilità: regredire o progredire.”
“Quello che, talora, è apparso come un impulso, innato nell’uomo, al progresso, non è altro che la dinamica di una ricerca di sempre nuove soluzioni perché, a qualunque nuovo livello l’uomo arrivi, nasceranno sempre altre contraddizioni che lo costringeranno a portare avanti il compito di trovare, ancora e sempre, nuove soluzioni Questo processo, nel senso del progredire, tende ad una mèta: lo sviluppo dell’uomo, in un essere pienamente umano, ed il raggiungimento di una completa unione con il mondo. Una delle qualità peculiari della mente umana è che, quando si trova di fronte ad una contraddizione, non possa restare passiva; il sistema uomo ha bisogno di equilibrio e, quindi, si deve mettere in azione con lo scopo di risolverla. Sembra incredibile, ma tutto il progresso umano è dovuto a questo semplice meccanismo.”
“L’uomo può impedire, o cercare di impedire, alla sua mente di entrare in azione, quando è spinto a reagire alla consapevolezza di una contraddizione, e lo può fare in un solo modo: negare l’esistenza stessa di tale contraddizione. Armonizzare, e quindi negare le contraddizioni, è la complessa funzione delle così dette razionalizzazioni, a livello della vita individuale: invece, a livello della vita sociale, abbiamo delle razionalizzazioni con schemi più generali, ma con la stessa funzione di armonizzare e negare; esse prendono, comunemente, il nome di ideologie.”
“L’uomo ha la possibilità dì reagire in modi diversi alle contraddizioni che gli s’impongono; può cercare di armonizzarle, può tentare di negarle, ma le dicotomie esistenziali, non potrà mai annullarle. Può pacificare la propria mente, come abbiamo già detto, mediante ideologie tranquillizzanti. Può cercare di sfuggire alla sua intima inquietudine, mediante un’attività incessante, volta ai piaceri od agli affari. Può cercare di abrogare la propria libertà e di trasformarsi in uno strumento a disposizione di poteri a lui esterni, immergendo in essi il suo Sé: Ma resterà sempre insoddisfatto, ansioso ed inquieto. Non vi può essere che una soluzione al suo problema: guardare in faccia la verità; riconoscere la propria solitudine fondamentale, in un universo che è indifferente al suo destino; riconoscere che non esiste una potenza che lo trascenda e che possa risolvere per lui il suo problema. L’uomo deve accettare la responsabilità di se stesso, e deve rendersi conto che, solamente impiegando le proprie risorse umane, può conferire significato alla propria vita. Ma anche questo, deve essere vissuto senza l’illusione che ciò implichi l’eliminazione di ogni dubbio, perché il dubbio e l’incertezza, e la loro accettazione come sfida, è proprio la condizione indispensabile che porta l’uomo a sviluppare le proprie capacità. L’uomo non potrà mai cessare di essere perplesso, di meravigliarsi, di porsi nuove domande. Solo se, consapevolmente, si rende conto ed accetta la condizione umana, cioè le dicotomie inerenti alla propria esistenza e la propria capacità di svilupparsi come uomo, sarà in grado di riuscire ad essere se stesso, dalla parte di se stesso, e raggiungere quel senso di attiva serenità che nasce dalla realizzazione piena delle facoltà che sono le sue peculiari: la ragione, l’amore ed il lavoro produttivo.”
“Anche se la fame, la sete e gli impulsi sessuali sono soddisfatti, l’uomo non può essere completamente soddisfatto; all’opposto dell’animale, i suoi problemi più cogenti, a questo punto, non sono stati ancora risolti, ma stanno, semplicemente, cominciando a porsi. La disarmonia, nell’esistenza umana, genera bisogni che trascendono, di gran lunga, quelli della sua origine animale. Tali bisogni sfociano in una tendenza imperativa a ricostituire un’unità ed un equilibrio. In primo luogo nel suo pensiero, costruendosi un quadro mentale del mondo, che serva da cornice sistematica di riferimento, dal quale poter trarre una risposta al problema derivante dalla situazione in cui si trova. Dal momento che è un’entità dotata di corpo, oltre che di mente, e deve reagire alle dicotomie della sua esistenza, nella globalità del processo vitale, cioè con il pensiero, con i suoi sentimenti e con le sue azioni, è costretto a sforzarsi di raggiungere l’esperienza dell’unità e dell’unicità in tutte le sfere del suo essere, per trovare un equilibrio nuovo. Pertanto, qualsiasi sistema di orientamento soddisfacente, implica, non solo elementi intellettuali, ma anche elementi di sentimento e di senso, da potersi realizzare nell’azione, in tutti i campi del comportamento umano. La dedizione ad uno scopo, per esempio, ad un ideale, oppure ad una potenza che trascenda l’uomo, come Dio, è l’espressione di questa necessità di completezza che è propria del processo di vivere.”
“L’uomo, quindi, per compiere come si è detto, il tentativo di restaurare l’unità e l’equilibrio tra se stesso ed il resto della natura, ha bisogno di costruirsi uno schema mentale che chiameremo di orientamento e di finalità ideale. Naturalmente, le risposte fornite al bisogno di orientamento e di finalità ideale, differiscono ampiamente, sia nel contenuto che nella forma, e quindi, il significato della vita, che ne consegue, varia in ogni individuo. Esistono sistemi primitivi, quali l’animismo ed il totemismo, nei quali l’oggetto naturale o gli antenati rappresentano risposte sufficienti all’esigenza di significato esistenziale insita nell’uomo appartenente a società che abbiano raggiunto un determinato stadio evolutivo, Esistono sistemi monoteistici, come il buddismo, che sono accettati da milioni di individui. Esistono sistemi filosofici, oppure altri sistemi religiosi monoteistici, che forniscono una risposta alla ricerca di significato da parte dell’uomo, ponendola in riferimento al concetto di una divinità trascendente.”
“Esistono, anche, sistemi che possiamo chiamare laici i quali si radicano, nondimeno, nella medesima necessità da cui scaturiscono sia i sistemi religiosi sia quelli filosofici. Ad esempio, nella nostra cultura, vediamo milioni di persone dedicarsi al raggiungimento del successo e del prestigio. Abbiamo visto, ed ancora vediamo in alcune società, la devozione fanatica di aderenti a sistemi dittatoriali, di conquista e di dominio. Ci stupiamo dell’intensità di tali passioni che riscontriamo essere, molto spesso, assai più forti perfino dell’impulso di autoconservazione.”
“Ma non è chiaro che il vigore ed il fanatismo, con cui tali mète laiche sono perseguite, sono gli stessi che troviamo nelle espressioni religiose ? Non è evidente che tutti questi sistemi di orientamento e di finalità ideale, differiscono tra loro solo nel contenuto, ma non nell’esigenza fondamentale alla quale tentano di dare una risposta?”
“Nella nostra società, che riteniamo a base religiosa, assistiamo a certe manifestazioni che sono in netto contrasto con le regole di vita dettate dalle varie Chiese, regole che non sono rispettate nemmeno dagli stessi osservanti. La situazione diventa comprensibile se ci si rende conto che la loro devozione autentica appartiene a sistemi i quali, per la verità, sono assai più vicini al totemismo ed all’idolatria che a qualsiasi forma di cristianesimo.”
“La capacità di intendere la forza e la natura religiosa di questi impulsi laici, culturalmente accettati, è la chiave per capire le nevrosi e le scelte razionalizzate. Queste due espressioni: le nevrosi e le razionalizzazioni, si possono spiegare come risposte individuali, come forme particolari di religione, tendenti a soddisfare l’esigenza umana di orientamento e di finalità ideale, differenziandosi da quelle che prima abbiamo chiamato ideologie, unicamente per le loro caratteristiche individuali, cioè prive delle schematizzazioni accettate dal gruppo.”
“La conclusione è che, mentre il bisogno di un sistema di orientamento e di finalità ideale è comune a tutti gli uomini, ciò che differisce, in genere, è il contenuto particolare del sistema che soddisfa tale bisogno. Queste differenze sono solo diversità di scopi da raggiungere. La persona matura, produttiva e razionale cercherà dì avere un sistema che gli consenta di agire in modo maturo, produttivo e razionale. La persona che è rimasta bloccata, durante il suo sviluppo naturale, adotterà sistemi primitivi ed irrazionali i quali accresceranno la sua dipendenza ed irrazionalità e rimarrà ad un livello evolutivo infantile, o che l’umanità, nei suoi migliori rappresentanti, ha già cercato di superare migliaia di anni fa.”
“Dunque, si può dedurre da quanto premesso, che l’uomo non è libero tra avere o non avere ideali ma è costretto per necessità, per vivere, a scegliere fra diversi tipi di ideali, a seconda del suo sviluppo psichico e cioè della sua libertà interiore. Spinto da forze inconsce, intimamente convinto di fare scelte razionali, sarà portato ad orientarsi verso il culto della potenza e della distruzione, oppure, verso la ragione e l’amore, oppure ancora, combattuto, tenuto e tormentato da forze contraddittorie, di volta in volta, sceglierà in modo diverso e solo apparentemente sarà un uomo libero.”
Dopo questa lunghissima citazione del pensiero di Erich Fromm, è indispensabile, ora per capire meglio, soffermarci un poco sul suo concetto di libertà.
Dice Fromm: “È un grave errore parlare della libertà dell’uomo in generale, invece della libertà del singolo individuo, perché impostare un discorso sulla libertà dell’uomo non può che avvenire in modo astratto e ciò rende il problema decisamente insolubile. Questo accade perché, nella realtà, ci può essere chi ha una certa libertà di scegliere, ma c’è anche chi, questa libertà, l’ha perduta. Quindi, se si cerca di definire la libertà come un qualche cosa da applicarsi a tutti gli uomini, o si ha un’astrazione, oppure un mero postulato morale che, poi, è la stessa cosa. La libertà non è un attributo costante che abbiamo o non abbiamo.”
“Anche spostando l’analisi sul concetto di libertà di scelta, in senso universale, la cosa non è di facile soluzione, infatti, per il singolo individuo, non esiste nulla di simile alla scelta fra bene e male in senso astratto, ma esistono solamente azioni specifiche, concrete, che sono mezzi verso ciò che è bene ed altre che sono mezzi verso ciò che è male, purché bene e male, meglio o peggio, s’intendano sempre in riferimento alla questione morale di fondo, cioè alla vita. Quindi, e questo è un fatto di basilare importanza, le azioni di cui trattasi, possono essere giudicate, hanno un valore, come mezzi verso il progredire o verso il regredire, verso l’amore o l’odio, verso l’indipendenza o verso la sottomissione. Anche la libertà di scelta, quindi, non è una facoltà normale che l’uomo in generale ha o non ha, ma è, piuttosto, una funzione che fa parte della struttura del carattere di una persona.”
“Alcuni, per esempio, non hanno più la libertà di scegliere il bene perché la struttura del loro carattere non è più in grado di agire in armonia con il bene. Alcuni hanno perduto la capacità di scegliere il male, proprio perché la struttura del loro carattere ha perduto la disposizione verso il male. In questi due casi estremi, possiamo dire che ambedue gli individui sono determinati ad agire come agiscono, perché la risultante delle forze, nel loro carattere, non gli lascia alcuna possibilità di scelta. Nella maggior parte degli uomini, invece, ci sono inclinazioni contraddittorie le quali si bilanciano, in modo tale che si ha, apparentemente, la possibilità di fare una scelta. L’atto che ne consegue è il risultato degli sforzi compiuti, dalle varie inclinazioni in conflitto nell’inconscio della persona. E quello che, talvolta, è chiamato atto di volontà, non è che un’inconsapevole razionalizzazione di copertura.”
“Il concetto di libertà può essere usato, secondo i casi, con due significati diversi.”
“Il primo significato è che la libertà va intesa come un atteggiamento, un orientamento, una risultante della struttura del carattere maturo, completamente evoluto e creativo. L’individuo che ha questo orientamento è da considerarsi una persona libera. La libertà non si riferisce ad una particolare scelta fra due possibili azioni, ma alla struttura del carattere in questione. In tal modo, è possibile giungere all’affermazione paradossale che proprio la persona la quale non è libera di scegliere il male, è quella che si può definire completamente libera.”
“Il secondo significato di libertà è quello che indica la facoltà di fare una scelta fra alternative opposte, quindi è una capacità di scegliere, a livello esistenziale, fra quelle che sono le alternative essenziali per l’essere umano e si esplicano nel prendere posizione pro o contro la vita, e cioè favorire la crescita dell’individuo oppure bloccarsi nel ristagno atrofizzante.”
“L’uomo migliore ed il peggiore, come si è già detto, non hanno libertà di scelta. È, invece, per l’uomo che si trova in una posizione intermedia che esiste il problema della scelta. Ma, da quali fattori dipende questa possibilità di optare fra le inclinazioni contraddittorie? Il fattore decisivo, per incominciare a scegliere fra il meglio ed il peggio della vita, è lo sviluppo del discernimento necessario, per agire sulla base della consapevolezza delle alternative e delle loro conseguenze.”
“Sarà necessario prima, fare alcune semplici considerazioni sulla differenza fra consapevolezza e conoscenza, per evitare malintesi interpretativi e di valutazione.”
“Mentre la conoscenza si può considerare come il prodotto dell’apprendimento dall’autorità, cioè dall’insegnamento convenzionale ed alieno, e viene accettata e considerata vera solo perché proviene da fonti gestire dal potere, la consapevolezza è il risultato della scelta razionale di vivere, che una persona fa quando agisce secondo quello che impara da sé, sperimentandolo, provando da sé, osservando criticamente gli altri, superando le illusioni che si è creato o che gli hanno propinato, ed alla fine, conquistando una convinzione, invece di avere un’opinione la quale deriva solo dalla conoscenza.”
“Lo sviluppo della consapevolezza comporta la modifica spontanea dello schema di orientamento e di finalità ideale adottato e, naturalmente, il nascere di nuove contraddizioni, però, in una successione dinamica, positiva e liberante. Al di là di questi risultati già considerevoli, per il raggiungimento di una piena consapevolezza, rimane da compiere l’operazione veramente più importante, al fine di indurre una duratura modificazione del carattere. Si debbono, cioè, acquisire alla coscienza le forze positive ed inconsce che sono dentro di noi e smascherare le razionalizzazioni che, insieme ai preconcetti, limitano ed imbrigliano la libera e ragionevole capacità di criticare. Solo agendo sul razionale e sull’irrazionale che è dentro di noi, è possibile produrre quelle modificazioni nella struttura del carattere per cui, rotto l’equilibrio fra le inclinazioni contraddittorie, l’uomo incomincia ad accrescere e poi ad acquisire l’impossibilità di fare scelte regressive.”
Per tentare di arrivare alla comprensione, anche se parziale, della psiche umana come appare nel pensiero di Fromm, è necessario, ora, considerare sia pure brevemente, anche il concetto di personalità.
“La personalità è la totalità delle qualità psichiche ereditarie e di quelle acquisite che, insieme, determinano un individuo e lo rendono unico. Specificatamente, le qualità ereditarie sono tutte le doti psichiche biologicamente date e costituiscono il temperamento. Le qualità acquisite sono quelle risultanti dalle esperienze vissute da una persona, durante la sua esistenza; questo insieme di qualità acquisite costituisce il carattere“
“Il temperamento si riferisce alle modalità di reazione ed è, come abbiamo detto, costituzionale ed immutabile. Se, ad esempio, un individuo possiede un temperamento sanguigno – dice Fromm – la sua modalità di reazione è rapida ed energica. Ma in che cosa egli sia rapido ed energico, dipende dal suo modo di ‘essere in rapporto’, dal suo carattere. Se è una persona con un carattere produttivo, reagirà in modo rapido ed energico, quando ama, quando s’indigna per un’ingiustizia, quando è colpito da un’idea nuova. Se è un carattere distruttivo e sadico, sarà rapido ed energico nella distruttività o nella crudeltà.”
“Il carattere, questo è un fatto importante e fondamentale, muta ed è mutabile in qualche misura, come conseguenza, sia delle normali esperienze emotivamente importanti, le quali se reiterate possono modificare le qualità esistenti, sia dei nuovi tipi di esperienza derivanti dall’accresciuta comprensione e consapevolezza del mondo esterno ed interno dell’individuo, e cioè, si può dire, come conseguenza delle modificazioni intervenute a livello di sistema di orientamento e di finalità ideale.”
PROCESSO DI CRESCITA SEGUENDO FROMM
Da quanto abbiamo appreso fino ad ora del pensiero di Erich Fromm, appare evidente che il punto chiave, per una proficua utilizzazione delle considerazioni proposte, è l’assunto che una parte della personalità umana, e più precisamente il carattere, muti e sia mutabile.
Come si è potuto capire, due sono i tempi del processo nei quali si può impostare l’operazione liberante dell’individuo. In tutti e due i casi, si perviene certamente ad un apprezzabile accrescimento dalla coscienza.
1) Arricchire la conoscenza del mondo interno ed esterno, ed avere la consapevole aspirazione ad impostare la propria vita secondo un sistema di orientamento e di finalità ideale che sia maturo, produttivo e razionale.
2) Scoprire gli impulsi inconsci che l’individuo razionalizza, e portare a livello di coscienza le varie motivazioni inconsce di atti apparentemente ragionevoli.
Questo è lo sforzo che spetta alla parte conscia, deve penetrare, e cioè deve farsi accettare da quel mondo sconosciuto nel quale vengono realmente dettate le motivazioni e vengono decise tutte nostre azioni.
Solo con questa operazione, la parte conscia può pervenire alla consapevolezza della realtà. E per far questo, è necessario che impari ad ascoltare l’inconscio ed a lasciarlo libero di palesarsi senza alcuna interferenza intellettuale, seguendone il ritmo, nello stesso modo che la filosofia Zen propone di ascoltare la musica, per poi portare a livello di coscienza i risultati che, in tal modo, sono acquisiti e vanno ad integrare il sistema di orientamento e di finalità ideale.
Il modo con cui favorire le sopra citate modificazioni interiori può apparire molto semplicistico e, forse, troppo facile da sperimentare. Certamente questo può dipendere anche dall’eccessiva schematicità dell’esposizione, ma in realtà, l’operazione risulta poi essere un processo piuttosto articolato e complesso.
In genere, anche il minimo cambiamento del carattere incontra resistenze di vario tipo, i risultati positivi, faticosamente conseguiti, possono essere considerati, come tutte le modificazioni importanti, una vera e propria nuova rinascita.
Tutto questo perché, la maggior parte delle persone accetta con difficoltà l’idea di essere dominata da forze interne che agiscono anche senza il suo consenso. Poi, anche accettando questo ipotetico stato di fatto, rimane forte il timore che questa operazione di scavo possa rivelargli che, in realtà, dentro è molto diverso da quello che si crede dì essere, ed allora si fanno avanti seri dubbi su cosa potrà diventare il suo Io dopo. C’è chi, pure, non osa affrontare le illusioni che sono dentro di lui, e nel timore di smascherarle e doverle accettare per quello che sono, si crea quelle resistenze razionali che il suo inconscio gli fornisce pur di non trovarsi di fronte ad insopportabili realtà.
Ogni trasformazione, verso una nuova esistenza umana è un parto travagliato. Essa significa, sempre, lasciare una situazione sicura ed apparentemente nota, per una situazione del tutto sconosciuta. Ogni passo avanti nella vita genera paura e dolore, fino a quando viene raggiunto un punto dopo il quale, timore ed incertezza sono dominati e vinti da un sufficiente grado di sicurezza interiore, che prelude ad una vitalità e ad un entusiasmo rintracciabili solo in coloro per i quali vivere significa qualche cosa di più che attenuare stati di tensione, od evitare, ad ogni costo, le sofferenze conflittuali della vita di tutti i giorni. Torneremo in altra occasione ad approfondire i meccanismi psichici e le tematiche con le quali è possibile ottenere i mutamenti di cui si è parlato.
Erich Fromm, nell’esposizione del suo pensiero, non si arresta certo a questo punto. Ho cercato di sintetizzare le sue idee, per stimolare la curiosità ad una sua più approfondita conoscenza ma, nei suoi scritti, egli, usando il suo schema, come strumento e come riferimento, per sceverare i problemi che riguardano l’uomo, sviluppa una precisa disamina dei vari tipi di carattere, evidenzia per esempio, come il comportamento esteriore, apparentemente uguale di due persone, può avere motivazioni psicologiche diverse, descrive le tappe di un processo regressivo, culminante in una vera e propria sindrome di decadimento; in contrapposto, puntualizza una sindrome di crescita delle personalità umane attraverso vari livelli progressivi; studia l’uomo in rapporto con la società, nelle situazioni storiche passate, ipotizzando gli orientamenti ottimali per il futuro.
Anche se incompleta, ora, ci siamo formati una certa idea sul pensiero di Erich Fromm, tale da stimolare, certamente, la curiosità di chi voglia saperne di più, ma anche tale da tentare di esprimere un parere sulla validità della sua opera, per l’uomo contemporaneo e per la preparazione di un futuro migliore per l’umanità.
ERICH FROMM NEL FUTURO DELL’UMANITÀ
Dunque, poniamoci ancora l’interrogativo iniziale: che valore può avere, per la soluzione delle difficoltà esistenziali dell’uomo di oggi, l’opera di Erich Fromm?
Ritengo si possa, tranquillamente, rispondere che la tesi contenuta nel pensiero di Fromm ha di certo aperta una via che l’umanità, nella sua evoluzione, non potrà fare a meno di prendere in considerazione e percorrere.
Sono convinto che le sue idee possano costituire uno strumento, più che efficace necessario. Utilissimo, a noi uomini appartenenti alla cultura occidentale, tanto a livello individuale quanto collettivo, per tentare di sperimentare la logica paradossale come ipotesi di lavoro nell’arte di vivere, senza dover gettare alle ortiche la razionalità della nostra impostazione cosciente, ma portando l’intelletto ad essere un umile servo, invece che un padrone dispotico.
Alla base del pensiero orientale, come abbiano constatato, c’è il drastico presupposto che afferma l’incapacità della mente umana di afferrare la realtà se non nei suoi aspetti contrapposti e, di conseguenza, il rifiuto ad usare la mente come strumento utile per risolvere i problemi esistenziali.
In Fromm, invece, pur accettando il principio paradossale delle dicotomie, per spiegare la difficile condizione umana, introduce la consapevolezza con la quale orientare l’individuo verso la giusta azione ed ottenere la modificazione, in senso liberante, del sistema di orientamento e di finalità ideale il quale è un prodotto, anzi una sintesi prettamente intellettuale.
Tuttavia, Fromm accetta il principio che l’intelletto non deve essere il nostro padrone onnipotente, infatti, non può essere utilizzato nel dare la caccia ai nostri legami irrazionali e nella scoperta del nostro mondo subconscio. In questa ricerca, nelle profondità della nostra realtà interna, viene escluso l’intelletto, inaffidabile perché irretito dalle sue ingannevoli razionalizzazioni.
Anche per quanto riguarda le finalità, tanto la filosofia orientale quanto il pensiero di Fromm hanno precisamente lo stesso scopo: l’uomo e la sua salute mentale
C’è, in tutti e due, la vitale importanza che ha la natura, nell’esistenza umana, ed anche la precisa convinzione che i mezzi usati per il raggiungimento dello scopo sopra indicato, gli insegnamenti, le idee, le schematizzazioni non debbono essere fine a se stessi, sono solamente dei veicoli. Come la filosofia buddista dice che la zattera diventa inutile, quando si è raggiunta la riva opposta ed importante è proseguire il cammino, così il pensiero di Fromm non si esaurisce con la definizione dalla condizione umana e le possibili scelte che l’uomo può fare o no.
Il fine delle argomentazioni di Fromm, vera sintesi empirica del pensiero orientale con il razionalismo occidentale, è che l’uomo diventi libero dai legami interiori e viva in modo liberato, per comprendere meglio questa società di uomini nella quale conduce la sua esistenza, per modificarla, facendola diventare una società per gli uomini. La voce di Fromm , ne sono pienamente convinto, è di una validità eccezionale, anche perché, invece di essere come quella di tanti falsi profeti, è una voce di speranza, senza essere una fuga dalle realtà esistenziali.
Termino questo mio collage di pensieri, questo mosaico di idee, con la speranza che il lavoro fatto e le conclusioni raggiunte possano essere utili ad altri come lo sono state per me. La chiusura, l’affido ad uno scritto di Fromm del 1947.
“Finché c’è chi ritiene che il suo ideale o la sua finalità siano posti al di fuori di lui, vale a dire, al di sopra delle nuvole, nel passato o nel futuro, uscirà da se stesso e cercherà adempimento proprio dove non lo potrà trovare. Cercherà soluzioni e risposte in qualsiasi punto, salvo che dove può veramente rinvenirle: in se stesso.”
“Sono in molti i quali propongono che il nostro futuro, personale e sociale, sia garantito solamente dalla nostra materiale efficienza. Ma, palesemente, ignorano certi fatti incontrovertibili. Non vedono che il vuoto e la piattezza della vita individuale, che la mancanza di creatività e la conseguente mancanza di fede in se stessi e nell’umanità, se continueranno ancora, sfoceranno in disturbi emotivi e mentali che renderanno l’uomo incapace persino di soddisfare le proprie finalità materiali. Si odono, oggi, sempre più spesso, profezie funeste che traggono origine da interpretazioni pessimistiche della situazione attuale, che peraltro non è certo esaltante.”
“Ma, queste profezie, non valutano, nei giusti termini, la promessa implicita nelle titaniche conquiste compiute dall’uomo, in tutti i campi dello scibile e dell’arte. In realtà, tali conquiste denunciano, senza tema di smentite, l’inesauribile presenza di forze produttive vive, che non sono compatibili con il quadro di una specie umana in decadenza.”
“La nostra è, indubbiamente, un’epoca di transizione. Il Medio Evo non terminò nel quindicesimo secolo, e l’era moderna non incominciò immediatamente dopo. Fine e principio hanno richiesto, per manifestarsi, un periodo che è durato quattrocento anni. Un tempo, in verità, estremamente breve, se lo misuriamo in termini storici e non con il metro dell’esistenza individuale. La nostra epoca è un fine ed un principio, la fase attuale è pregna di possibilità.”
“A questo punto, l’uomo, il quale si sta rendendo conto che mentre cresce il suo potere sulla materia, cresce anche la sua impotenza nella vita individuale e nella società, può sperare nel futuro? può fidare in se stesso e nell’umanità? ha le capacità necessarie per affrontare e vincere questa sfida estrema?”
“Ritengo che la risposta possa essere potenzialmente affermativa, ma con una precisazione fondamentale: per farcela, per avere delle ragionevoli speranze, non possono più essere nutrire né illusioni, nè preconcetti; nè l’esito buono, nè quello cattivo sono automatici e preordinati dal fato. La decisione, ora, spetta solo all’uomo.”
“Spetta alla sua capacità di prendere sul serio se stesso, la sua vita e la sua felicità. Spetta alla sua volontà di affrontare il suo problema morale ed il problema morale delle sue società. Spetta al suo coraggio di essere se stesso e di stare, con ragionevole consapevolezza, dalla parte di se stesso.”