HO CONOSCIUTO UN MASSONE

HO CONOSCIUTO UN MASSONE

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

alla fine di ottobre del 1990, a Roma, in una luminosa e calda giornata, conobbi

un Massone, ma non me ne accorsi subito: nella ridda di presentazioni di Grandi

Dignitari che m’impegnò in quel giorno, non riuscii a ponderare con tempestività le

qualità iniziatiche ed umane di coloro che, ad uno ad uno, mi sorridevano e, cosa non

tanto consueta per me, mi abbr vano gratificandomi del triplice bacio.

L’ho capito a poco a poco, dividendo con Lui nei quattro anni successivi, due

stanzette al primo piano di Villa Il Vascello e ne fui definitivamente conscio nell’aprile

del 1995, quando al termine di una riunione di Giunta, ci salutammo per rivederci solo

in occasione della successiva Gran Loggia.

Avevo assunto l’incarico al quale ero stato chiamato con serietà e quindi in

modo piuttosto aggressivo: bisognava vedere tutto, indagare su tutto ed infine

cambiare tutto. Lui, sin dai primi giorni, subiva, paziente, con un caldo ed affettuoso

sorriso, la mia nervosa efficienza piemontese, un po” cinica, poiché tendevo a risolvere

i problemi che man mano si presentavano in base alle loro connotazioni oggettive. Il

suo approccio era invece ben diverso, al tempo stesso umano e fraterno direi, se queste

due parole sono sufficienti a suscitare in voi, fratelli miei, calore ed affetto

assolutamente disinteressati nei confronti di colui che si conosce bene, che si conosce

poco, che non si conosce affatto. Il caso che vi viene esposto da chi vi sta davanti

adombra le necessità di un fratello: è quindi l’unico fattore importante, in questo

momento non c’è posto per null’altro, ciò che ti riguarda, fratello, riguarda me. Ma è

necessario che tu chieda, ti apra: non si deve prevenire, sarebbe un grave attentato alla

sfera più intima del tuo riserbo.

Dopo giornate di lavoro che si prolungavano per dodici ore filate, saltando il

pranzo, ci immergevamo sottobraccio nelle strade del Centro, la notte, appena usciti

dal ristorante in cui avevamo abbondantemente cenato e bevuto un po’. Era il nostro

un vagare senza meta apparente, un viaggio iniziatico con alcune fermate d’obbligo:

sostavamo in piazza del Pantheon e, con il naso per aria, scrutavamo le grandi finestre

oscurate di palazzo Giustiniani. Mi raccontava di saloni dei Passi Perduti, di Templi

impreziositi dalla patina di straordinarie presenze di fratelli poco conosciuti, quasi tutti

passati all’Oriente Eterno (degli Insigni poco parlava seppur con molto rispetto).

Capivo così che al centro del suo universo egli poneva l’uomo, il cui divenire seguiva

con innata, tiepida comprensione senza evidenziare né pregi né difetti, né debolezze né

eroismi.

E quando riprendevamo il nostro cammino, (era Trinità dei Monti l’altra tappa

consueta, certo la scalinata con in cima la vera Villa Medici – la nostra non è Villa

Medici, è Il Vascello -, ma anche l’Obelisco e l’Ambasciata di Spagna), il suo incedere

Mi riportava alla mente la figura indimenticabile di Don Pipeta l’Asilé.

Parlavamo di musica e si riferiva a Mozart come al genio assoluto, al maestro

che percorreva con la facilità propria degli dei la strada più difficile: quella della

semplicità.

Da Schopenauer aveva assorbito una concezione entusiastica della musica e la

considerava come (forse) la più sublime di tutte le arti poiché s’identifica con la forza

primordiale che regola dall’interno il pulsare dell’universo. Così per illustrare uno

stato d’animo, una particolare emozione suscitata, ad esempio, da lavori di Loggia,

scomodava Brahms oppure Beethoven.

Ho spesso (come dire?) canzonato, con tenerezza, il culto quasi sacrale con cui

egli viveva la giornaliera frequentazione del Vascello, ed è a lui che devo le notizie

storiche sulle vicissitudini della Villa e dei sui antichi abitanti, che qui tralascio. Aveva

partecipato alla trattativa sfociata nell’acquisizione da parte del Grande Oriente d’Italia

del nobile fabbricato; quando se ne parlava, avvertivo nella sua voce l’emozione di

aver contribuito ad assicurare alla Comunione quello storico monumento che così bene

s’accompagna all’aspetto tradizionale della nostra Istituzione. Antiche stampe, che

ornavano le pareti della sua stanza, rinnovellavano il ricordo di quei fratelli, spesso

giovanissimi, che, con la vita, avevano sacrificato l’ultimo residuo di illusione dopo le

straordinarie speranze, che la Repubblica Romana del 1849 aveva suscitato. Sono

convinto che sentiva intorno a sé l’afflato di quelle anime, la notte, quando, dopo

esserci salutati in prossimità del mio albergo, risaliva al Gianicolo per riposare. Ed io,

arrivando presto al mattino, lo trovavo già seduto al tavolo da lavoro, fortificato nella

sua concezione di un popolo Massonico ispirato da un perenne ed universale legame

fraterno. La Villa era, per lui, una vera casa comune alla quale tutti i fratelli, di

qualsivoglia ordine e grado, potevano accedere liberamente.

In quegli anni abbiamo visitato insieme Logge sparse in tutta Italia. Poiché

eravamo ospiti, venivamo introdotti nel Tempio a lavori aperti; le Tavole erano molto

rare e, normalmente, le tornate si esaurivano nella celebrazione degli invitati. Di ciò

egli si rammaricava: avrebbe voluto partecipare a tornate normali, assistere ai lavori

dall’inizio alla fine, arricchirsi lo spirito dei contributi di fratelli che vivevano realtà

diverse. Era sempre all’altezza del suo ruolo di Maestro Massone. In un consesso in

cui i compagni di viaggio, completamente assorbiti da problematiche di politica

massonica, anche nella ritualità del Terzo Grado che caratterizza le riunioni del

Consiglio dell’Ordine, dimenticavano Passi, Segni, Ordini, Rituali, sedevano in

Tempio in modo scomposto, egli si distingueva per la qualità del suo stare all’Ordine,

per la proprietà del saluto rituale, della parola rituale. Quel comportamento suscitava

acuta in me la nostalgia della mia Loggia, della Pedemontana, delle nostre riunioni

ordinate, ossequiose dei regolamenti, rigorose nel rispetto che l’un l’altro ci

riconosciamo. In uno di quei momenti, come se mi leggesse nel pensiero, mi chiese

sorridendo: – Hai notato come solo nelle nostre Logge di appartenenza riusciamo a

concentrarci sui Simboli? Temo che questo sia un aspetto evidente della nostra

imperfezione.-

Oltre alla musica, l’altro argomento che amavamo affrontare quando

c’imponevamo di evadere dalle gravose incombenze e dalle preoccupazioni del giorno

appresso, era rappresentato dalla letteratura. Stimolato dall’argomento, confessavo di

non aver letto praticamente nulla di Guénon (infatti solo un paio di volte ho aperto

l’Introduzione Generale allo Studio delle Dottrine Indù spiluccando parole qua e là), di

aver scorso le Bhagavad Gita ed alcuni testi sulla gnosi: !a mia cultura esoterica

origina dagli sforzi dei miei fratelli di Loggia che hanno scolpito tante tavole

fondamentali. Parlavo diffusamente di Richard Bach, di Hermann Hesse, di Thomas

Mann, di Tolstoi, persino di Proust; mi compiacevo di aver letto Il Gabbiano Jonathan

Livingston ed il Pellegrinaggio in Oriente nel lontano 1973 e di considerare il

Siddhartha come uno dei libri che segnarono la mia giovinezza: rivendicavo persino

(millantato credito?) il merito di aver suggerito per primo quelle letture ai fratelli della

mia Loggia, rafforzando la mia affermazione con un Aa; ondiscendente “forse”.

Divagavo a lungo sull’Antologia di Spoon River, sulla poesia italiana dell’ottocento e

del novecento, pronunciavo sentenze.

Quando si sfioravano argomenti storici, davo sfogo a tutta la mia passione: ero

capace nel tempo necessario a percorrere quattro © cinque isolati, di risuscitare, senza

dare ad alcuno la minima possibilità d’interrompermi, le gesta, spesso nefaste, dei

Valois di Francia o l’ascesa al potere di Enrico di Navarra; di scorrere episodi della

storia della Massoneria in Italia e nel mondo, evocando grandi figure. Bocciavo senza

appello Mola, che definivo illeggibile e, comunque, mortalmente noioso (l’opinione

negativa sull’uomo era scontata  e condivisa). Ritirandomi in albergo e riandando col

pensiero, un po’ imbarazzato dalla mia invadenza, alla serata appena trascorsa, mi

accorgevo dalle poche parole da lui pronunciate, che conosceva almeno quanto me

opere, autori, argomenti, personaggi ma in modo meno letterario, Meno agiografico.

Ospiti di una loggia cosiddetta Esoterica, ricordo un suo lucido intervento

sull’influenza che Guénon ha, dovrebbe o non dovrebbe avere sui lavori, intervento

pacato, di grande acutezza e profondità culturale.

Vennero giorni grigi e tempestosi, nei quali l’esistenza della Comunione fu

gravemente minacciata. Tutti noi, componenti della Giunta, eravamo provati

dall’ostilità manifesta dei fratelli che ci reputavano troppo compromessi con

i transfughi per essere in grado di organizzare una efficace opera di difesa

dell’immagine, dei magistrati che ci consideravano ispiratori di un potere occulto da

neutralizzare, delle forze dell’ordine che ci ponevano ai vertici di un pericoloso gruppo

di tredicimila sovversivi, dei giornali e della televisione di Stato che cavalcavano la

tigre alienandoci in modo pressoché irrimediabile l’opinione pubblica. Avevamo

subìto (lui, più esposto degli altri componenti del consesso, tutto teso a combattere con

la gentilezza e la ragionevolezza le angherie dei persecutori e dei detrattori)

perquisizioni e sequestri; vivevamo nel timore, non proprio ingiustificato, di un

possibile arresto, i nostri telefoni erano da mesi e per mesi sotto controllo. Ma

soprattutto eravamo stati crocifissi dal tradimento del nostro capo che, dopo le prime

furibonde reazioni, ci aveva precipitati in un’attonita indecisione. Il Grande Oriente

D’Italia sembrava disgregarsi, eravamo impotenti di fronte all’ondata degli

assonnamenti. Tutto ciò si riverberava nelle riunioni di Giunta che erano sempre più,

come dire?, dialetticamente animate, tanto che molti di noi dimenticavano i doveri

reciproci di lealtà e di rispetto. In coda ad una di queste riunioni egli prese la parola e,

cosa inconsueta e strana se rapportata alla drammaticità degli avvenimenti che ci

angosciavano, scolpì una lunga Tavola a braccio. Iniziò illustrando le potenzialità della

parola, sublime veicolo di espressione della ragione ma soprattutto dello spirito.

“L’uso della parola non è solo un esercizio estetico: è anche un piacere profondo,

perché grazie ad essa entriamo in contatto con gli altri, stabiliamo un rapporto,

sfuggiamo alla solitudine ed all’isolamento, possiamo ragionare su tutto è con tutti,

formulare concetti compiuti, dare forma a sentimenti profondi. La parola è stata €

sempre sarà, anche nei momenti più oscuri, il veicolo indispensabile per risvegliare

nelle Logge aneliti di fratellanza, tolleranza, solidarietà ed amore. Con amore

sforziamoci a guardare anche il mondo al di fuori delle Logge, perché l’amore è

contagioso e, se costantemente esercitato, tende ad influenzare qualsiasi

comportamento. Parliamo dunque: invece di contraddirci l’un l’altro, usiamo con

proprietà la parola nei confronti dei fratelli, informando, frequentando, e nei confronti

dei detrattori e persecutori, ai quali dobbiamo, senza timore, spiegare e giustificare e

non opporre solo alte grida e sterili lamenti”. Questo intervento ebbe grande effetto e

positiva influenza almeno su quattro di noi. Per quanto mi riguardava direttamente,

stavo vivendo male quel periodo così critico anche sotto un aspetto più personale. La

frequenza dei viaggi a Roma era diventata ormai incalzante ed io mi ammazzavo di

fatica per fare sì che la qualità e la quantità del lavoro profano non ne risentisse. Assai

probabilmente codesto risultato lo ottenni, ma esso m’impose di diradare e sacrificare

rapporti umani, familiari, di amicizia, di fratellanza nei confronti dei componenti della

mia Loggia, ai quali certo non prestai tutta l’attenzione che meritavano. Quel discorso,

pur non stimolandolo direttamente, facilitò in me il ritorno ad una realtà più attenta ad

ogni singolo aspetto di una vita di uomo e di Massone.

Come state constatando, Maestro Venerabile e carissimi Fratelli, questo scritto,

probabilmente, non merita la dignità di Tavola. Accettate, vi prego, questo amarcord

con indulgenza, come l’espressione dell’affollarsi di un coacervo di ricordi nella mente

di un fratello, e ritorniamo pure presto presto a scolpire parole esoteriche.

TAVOLA SCOLITA DAL FR.’.G. P. Pgll,

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