BURATTINO D’ITALIA: L’UNITA’ SECONDO PINOCCHIO

Burattino  d’Italia: l’Unità secondo Pinocchio

Pinocchio è stato uno dei grandi elementi unificanti della nazione italiana nella sua adolescenza. Alla pari di Cuore; alla pari dei romanzi di Salgari. Ma con una proiezione pìù duratura, meno contingente che ha scavalcato tutte le barriere e riunito – con non decisive differenze e nuances – tutte le generazioni. Ora anche Pinocchio è diventato sinonimo dì divisione e quasi di contrapposizione fra un’Italia ideale e ancestrale – violentata dal Risorgimento – e l’Italia come si è costituita nell’Ottocento, nel suo nesso nazionale, figlio di una certa idea della omogeneità culturale linguistica italiana, che non ebbe mai nulla di biologico, di razzistico (la nazione, non la stirpe e tantomeno la razza: come altri risorgimenti nazionali del secolo XIX).

L’interprete più impegnato e anche più tenace di un Pinocchio contrapposto alla morale civile degli italiani e risognante l’Italia prerisorgimentale e preunitaria è, e non da oggi, il cardinale Biffi, l’arcivescovo di Bologna, che a questi studi si è dedicato con costanza e anche con puntiglio. Il suo recente discorso a Bologna, nel centenario della morte dell’autore del burattino immortale, Carlo Lorenzini, ha suscitato polemiche, reazioni e confutazioni anche marginali: ma non è stato contestato nel suo nucleo di fondo, nucleo che è collegato a non vero e proprio equivoco, in radice.

E’ l’equivoco sulle varie forme di opposizione e di critica allo Stato unitario, così come si era realizzato nella versione moderata e monarchica. Secondo il cardinale Biffi è “La crisi ideologica e spirituale del Lorenzini all’origine del suo lavoro”, né “questo prodigio letterario sarebbe mai nato senza la crisi che colpisce la nazione italiana contestualmente al Risorgimento”. Il che può essere anche vero. Ma occorre domandarsi: quale crisi? Da quale parte? E in vista di quali obiettivi? Quell’Italia, nata quasi per miracolo e con l’aiuto, per dirla in termini collodiani, della Fatina dai capelli turchini, fu respinta in blocco dai cattolici intransigenti e contestata duramente dai repubblicani e democratici di sinistra, da cui proveniva appunto il Lorenzíni. Le due opposizioni, come si direbbe: la cattolica e la laica. Una temporalista e reazionaria, sia pure con larghe forme di messianesimo sociale; l’altra progressista e democratica, finalizzata ai grandi motivi della Costituente e della Repubblica (la tesi che prevarrà in questo secolo). Opposizioni, l’una alternativa all’altra. Ogni confusione in materia ci indurrebbe in gravi errori.

Carlo Lorenzini, che si chiamò Collodi in omaggio al paese natale della madre da lui adorata fino al punto di non sposarsi mai, era di origine mazziniana e repubblicana. Il suo Dio era il “Dio e popolo”. Aveva combattuto nel ’48 a Curtatone e Montanara, guidato da un professore rivoluzionario e per i tempi quasi “sovversivo” quale era Giuseppe Montanelli. Aveva diretto, nella Firenze dei tanti e contraddittori tumulti fra ’48 e ’49, un giornale satirico anticlericale e nettamente repubblicano e unitario, quale era Il Lampione. E aveva percorso nel decennio della restaurazione la parabola che fu di tanti patrioti del suo tempo, quella che porterà intere falangi della sinistra ad accettare la “Società nazionale”, l’incontro con la monarchia dei Savoia purché unificatrice. Che sarà poi la bandiera di Garibaldi e dei Mille.

L’Italia, in cui si consumerà l’esperienza centrale di Lorenzini scrittore, e scrittore per l’infanzia, non era l’Italia sognata o sperata nel ’48 o nel ’59. “Oh non per questo… “: aveva cantato Carducci, interprete massimo di quella frustrazione e di quella amarezza. C’era la rivolta contro il fiscalismo eccessivo (Sella sarà uno dei bersagli di Lorenzini). C’era la denuncia dei legami – male antico – fra gruppi politici e gruppi affaristici. C’era la scontentezza dei partiti e della loro frantumazione in gruppi personalìzzati e quasi lottizzati. C’era la sfiducia nelle riforme anche dopo l’avvento della sinistra al potere.

E’ rimasta celebre la lettera aperta di Collodi a Michele Coppino ministro della Pubblica Istruzione: “Date retta a me che sono insegnante: meno chiacchiere e più pane! Il proletario cencioso e affamato, che non ha da portare alla sua famiglia altro nutrimento che pochi tozzi di cavolo raccattati nella spazzatura, cosa volete che se ne faccia della vostra istruzione e dei vostri libri?”. Il tutto sullo sfondo di una toscanità risentita, aspra e in qualche punto vilipesa. Al punto da fargli proporre, a Minghetti, l’abolizione della Toscana e la trasformazione nella regione “Carolina” (quasi un motivo pre-Pinocchio). E da fargli dire dei fiorentini, egli che ne era un interprete schietto e intero, “I morti vanno lesti! Ma io conosco dei vivi che se ne vanno più lesti anche dei morti: e sono i fiorentini”.

Di questi “malanni” il libro Pinocchio è tutto intriso. Libro per grandi, oltre che per bambini, esso offre uno spaccato della società italiana in via di costruzione che parte da una finalità ideale, tipicamente mazziniana, di una società migliore. La morale di Collodi è la morale dei Doveri dell’uomo. Solo il lavoro può difendere l’uomo da tutte le tentazioni e da tutte le perdizioni. Non è Pinocchio un libro di agiografia patriottica. La giustizia esce male, perché male funziona in Italia; il tocco sui carabinieri non è un tocco né affettuoso né incoraggiante. Il paese di Acchiappacitrulli finisce per identificarsi, nella sua fantasia solo apparentemente scanzonata, con una specie di sintesi dei mali italiani. L’impegno di Pinocchio è a redimersi; e la “redenzione” operata dal burattino che diventa uomo è la redenzione “laica” di chi si appoggia alle proprie forze, di chi fa leva sul libero arbitrio, sullo sforzo individuale, sul lavoro. Segno distintivo, appunto, del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo Stato italiano.

La stessa Fatina dai capelli turchini è stata talvolta identificata col simbolo religioso della Madonna, e non solo dal cardinale Biffi. E’ molto più probabile che essa risusciti il mito della madre e lo collochi in una cornice del “miracolo borghese”, di quella fede nella bontà connaturata all’uomo, che toglie ogni margine alla trascendenza, che sostituisce fin dall’infanzia Dio con le fate, il demonio con l’orco.

“Come era possibile che diventasse popolare un’unificazione compiuta senza giovarsi della forza spirituale antica e sempre nuova del cattolicesimo?” L’interrogativo del cardinale Biffi si riallaccia a quelli di “Comunione e liberazione”, si colloca nel quadro di un processo al Risorgimento, che non esita a stabilire parallelismi fra Risorgimento e fascismo, fra Risorgimento e “anomalia comunista” nella vita italiana. Sono gli stessi temi del “federalismo” delle Leghe. Ma chi ricorda in questi giorni che il tentativo federale c’è stato in Italia e si è spezzato nel necessario universalismo del Papato? Chi ricorda il ’48-’49, che nacque neoguelfo e finì repubblicano? Quando il ministero della Pubblica Istruzione ha assegnato a giugno il tema sul neoguelfismo, abbiamo visto alla televisione tanti studenti che dichiaravano di ignorare anche la parola. Con l’attuale scuola non ci meravigliamo di niente. Ma il “neoguelfismo” fu la più impetuosa febbre che abbia colpito l’Ottocento italiano. Si tentò in tutti i modi di realizzare l’indipendenza della penisola d’accordo col Papa, immaginato presidente di quella confederazione, dopo gli entusiasmi collettivi sollevati da Pio IX. Il Pontefice mandò le sue truppe a fianco di quelle di Carlo Alberto nella pianura padana, salvo richiamarle d’improvviso – con l’allocuzione del 29 aprile 1848 – non appena si delineò la scissione dei cattolici tedeschi e austriaci, insofferenti di ogni Vaticano a dimensione nazionale italiana. Chi lo ricorda? L’errore del cardinale Biffi è di confondere il temporalismo col cattolicesimo. Il Risorgimento fu contro il potere temporale e, abbattendolo, liberò la Chiesa dal più grande ostacolo alla sua universalità (come ha riconosciuto Paolo VI). Non fu contro la religione dei padri che Manzoni conciliò perfettamente con la scelta di Roma capitale e che compenetrò tutto il filone cattolico-liberale sopravvissuto a ogni delusione, a ogni amarezza, a ogni smentita.

Tiro fuori dalla mia biblioteca un piccolo libricino postumo di Collodi, stampato circa cinquant’anni fa. Si intitola: Biografie del Risorgimento, Ricasoli, Cavour, Farmi, Daniele Manin. Proporrei a un editore di ristamparlo, e dissipare ogni equivoco, in appendice a una nuova edizione di Pinocchio.

Anche attraverso Pinocchio i valori di patria si conciliano con quelli di umanità. Ha ragione Croce che collocò Pinocchio fra i grandi libri del secolo scorso. “Il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità, ed egli vi si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato: fantoccio, ma tutto spirituale”. E su tutto vince “la forza morale della bontà”. Ricongiunzione, questa volta, fra la morale cristiana delle origini e la morale laica.

14 ottobre 1990 – Giovanni Spadolini

* Tratto da G. Spadolini, Il mondo frantumato, Milano, Longanesi, 1992

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