PINOCCHIO, MIO FRATELLO
Un antico compagno di gioventù
Trascorsi i primi undici anni della mia vita a Pescia, praticamente ad un tiro di schioppo da Collodi, e quindi posso dire di aver respirato l’aria di Pinocchio nel vero senso della parola. Non solo Collodi era la meta di frequenti passeggiate a piedi, tagliando per il colle e riscendendo dalla parte opposta con appena un’ora di cammino, ma “Le avventure di Pinocchio” era allora spesso e volentieri letto nelle scuole elementari, prima che sedicenti poeti o anonimi cinesi vari infestassero i libri di testo e le “bibliotechine” di classe.
Anche la vita quotidiana, e non solo per quel che riguardava la scuola, faceva di questo personaggio un essere ogni e sempre presente: nei rimproveri dei genitori… “studia o ti crescono le orecchie lunghe e pelose”, nei consigli di una mamma premurosa… “…butta giù la medicina sennò vengono i coniglioli neri a portarti via”, o nelle serate fredde e buie d’inverno… “Sta’ attento col caldano che ti bruci i piedi come Pinocchio”.
Poi gli anni passarono: io venni via da Pescia e mi trasferii a Livorno, i termosifoni presero il posto dei caldani di brace, inventarono le medicine al gusto di prugna e ciliegia e se non studiavo l’unica cosa che cresceva erano i due sulla pagella. Ma Pinocchio, il mio vecchio compagno di birichinate, non mi aveva abbandonato del tutto: troppo era stato con me, durante le sassaiole sul greto del fiume, o quando c’era da scaricare qualche vigna, o imbambolati e senza una lira davanti a una giostra, a sognare il Paese dei Balocchi ed alberi ridondanti di zecchini d’oro. Troppo lo avevo assimilato per poterlo dimenticare, e lui me. Purtroppo i fatti della vita ci portarono a un distacco durato decenni fino a quando, qualche tempo fa, capitandomi per caso un brano di Giuseppe Prezzolini lessi “…Pinocchio, il più grande capolavoro della letteratura italiana”. Mi tornò allora presente l’amico burattino e la voglia di rileggerne le avventure. Andai in libreria e comprai un’edizione classica che assomigliava al vecchio libro della mia infanzia. Cominciai a leggerlo quasi con vergogna, nascondendomi alla vista dei miei figli e con l’intima preoccupazione che non sarei riuscito a portare a termine quella lettura, così leggera, futile, sciocca…
Non è andata così; anzi le pagine mi scorrevano via ed ogni tanto mi fermavo a pensare e a rileggere, analizzavo il testo attentamente come se esso ora mi parlasse in una lingua nuova e mi svelasse cose che, quasi cinquant’anni prima, non ero riuscito ad afferrare e comprendere… e quando finalmente, arrivato all’ultimo rigo, ho chiuso il libro, dentro di me ho pensato “Pinocchio, tu sei mio Fratello”.
Una nuova esaltante lettura
Esistono secondo me due chiavi di lettura per “Le avventure di Pinocchio”: la prima chiamiamola “profana”, nella quale il lettore, certamente un bambino, prende coscienza di quelle che io definirei “disavventure”, piuttosto che avventure, del povero burattino di legno. La seconda è una lettura in chiave massonica dove uno spiccato simbolismo si integra, pur senza sostituirla, in quella che è la semplice e lineare narrazione dei fatti. L’appartenenza di Carlo Collodi alla Massoneria, pur non comprovata da alcun documento ufficiale, è universalmente riconosciuta e i riferimenti in tal senso sono numerosissimi. Aldo Mola, non massone ma che comunemente viene definito come lo storico ufficiale della Massoneria italiana, dà per certa l’appartenenza dello scrittore alla Famiglia Massonica. Alcuni fatti biografici inoltre sembrano convalidare questa tesi: la fondazione nel 1848 di un periodico liberale intitolato “Il Lampione”, che come ebbe a dire il Lorenzini stesso doveva “far lume a chi brancolava nelle tenebre”, la partecipazione alle prime due guerre d’indipendenza, con i volontari toscani nel ’48 e come volontario arruolato nell’esercito piemontese nel ’59, e la sua estrema vicinanza ideologica con il Mazzini per la quale egli stesso si definiva “Mazziniano sfegatato”.
Ma qual era allora l’intenzione primaria del Collodi, comporre una storia per bambini o uno scritto massonico?
Difficile rispondere, anche perché se si tiene presente la prima stesura del libro “Storia di un burattino”, che al capitolo XV°, sui 36 dell’opera definitiva, si concludeva con la morte di Pinocchio impiccato alla grande quercia, non possiamo parlare né di storia per bambini, perché essa non è certo divertente né tanto meno didattica nella sua estrema truculenza; né possiamo vedere in essa un alcunché di esoterismo massonico perché ne manca la filosofia di fondo. Allora forse la risposta è in quei 20 centesimi a riga che lo scrittore percepiva dall’editore. Ma nel 1881 il Collodi riprende il suo vecchio scritto, lo cambia e lo amplia portando a termine quell’opera che tutti conosciamo. C’era stato quindi nell’autore un ripensamento: da una storiella sterile, cupa, senza speranza, era nata quella che diventerà nel volgere di pochi anni la storia più famosa del mondo.
Pinocchio tra Libertà, Uguaglianza e Fraternità
Rifacciamoci allora la domanda: Comporre una storia per bambini o uno scritto massonico? Ritengo vera e naturale la prima delle due ipotesi, ma altrettanto vero è che egli abbia voluto descrivere e criticare uno spaccato della società del suo tempo ed è infine naturale il fatto che egli abbia trasferito nella narrazione della storia quegli elementi simbolici ed esoterici propri della cultura dell’Istituzione di cui faceva parte, riuscendo a fondere i due elementi in misura così profonda per cui questi ultimi possono risultare evidenti solamente a chi, come l’autore, sia stato educato ad un certo modo di vedere e interpretare le cose. Nel corso degli anni molti critici hanno dato del romanzo un’interpretazione religiosa in senso cattolico; ultimo della serie il Cardinale Giacomo Biffi: non mi sembra proprio, almeno che per religiosità non si intendano quei concetti e quei valori, quali la bontà, la generosità, il perdono, la famiglia, che sono alla base anche di ogni istituzione civile. Nel romanzo però non appare nessun personaggio legato al mondo della religione, e tutti sappiamo quale importanza non solo spirituale ma anche politica avesse la Chiesa nell’800 e come essa cercasse di influire sulla cultura e sull’educazione nazionale: sarebbe stato quindi normale che in una storia che vede per protagonista un burattino-bambino che vive in un paesino di campagna, si inserisse in qualche modo la figura di un prete, o come minimo si facesse accenno a qualche attività connessa alla religione praticata: al contrario, di preti, chiese, immagini sacre, feste, cerimonie e pratiche religiose, neppure l’ombra, e direi che questo è stato deliberatamente voluto, anche perché il Lorenzini non era certamente all’oscuro di manifestazioni e teorie religiose, avendo studiato presso gli Scolopi per qualche anno.
Analizzando bene tutta la struttura del libro, questa risulta imperniata su tre componenti fondamentali: la LIBERTA’, perché Pinocchio è un essere libero che ama la libertà; l’EGUAGLIANZA sia perché l’unica aspirazione di Pinocchio è di essere simile agli altri sia perché nessun personaggio prevale sull’altro né per importanza, né per rango o ceto sociale; la FRATERNITA’, perché questo è il sentimento principale per cui agiscono i personaggi della storia nelle più disparate situazioni.
Il Tempio di Pinocchio
Che cos’è quindi “Le avventure di Pinocchio”? Apriamo il libro ed entriamo in un Tempio Massonico, un Tempio dove sta per svolgersi la cerimonia più importante della vita massonica, cioè un’Iniziazione, un’iniziazione completa, cioè nei suoi tre gradi. E chi sta per essere iniziato? Pinocchio forse? No! …ma procediamo con ordine.
“C’era una volta…” – “un re….” – “no…, un pezzo di legno!”, o forse sarebbe meglio dire “all’inizio c’è un Maestro”, Mastro Antonio, detto Maestro Ciliegia che potrebbe essere benissimo il Maestro Venerabile di questa ipotetica Loggia. Mastro Antonio è un bravo falegname che si trova tra le mani un pezzo di legno; se fosse stato uno scalpellino avrebbe avuto certamente a che fare con una pietra. Fatto sta che da questa “pietra” il nostro Maestro vuole ricavarne qualcosa di buono, anzi di utile come una zampa di tavolino: e così -dice il Collodi- prese un’ascia arrotata per cominciare a digrossarlo. Ma il bravo Maestro falegname si accorge ben presto che quel pezzo di legno, quasi informe, un semplice pezzo da catasta, non un legno di lusso, ha però in sé nascosta una qualità eccezionale: è vivo; dovrà quindi servire a qualcosa di più importante che non diventare una zampa da tavolino o finire addirittura nel focolare.
“In quel punto fu bussato alla porta” – “Si bussa da profano alla Porta del Tempio”. Ed ecco entrare il nostro bussante, Geppetto.
Geppetto è un vecchietto bizzosissimo, facile a diventare subito una bestia e non c’è più verso di tenerlo, non è che la tolleranza sia il suo forte ma fondamentalmente è un brav’uomo. A chi meglio di lui potrebbe il venerabile maestro Antonio affidare l’incarico di digrossare quel pezzo di legno e farne qualcosa di buono? Ed è così che Geppetto si porta il suo rozzo pezzo di legno, o se vogliamo la sua pietra grezza, nella sua misera casa che guarda caso assomiglia molto ad un , “…una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala, una seggiola cattiva, un tavolino tutto rovinato, un fuoco acceso ma dipinto, come dipinta è la pentola dell’acqua che bolle, come altrettanto dipinto è il fumo che essa manda fuori. Qui Geppetto compila il suo Testamento: fabbricherò un burattino, lo voglio chiamar Pinocchio, il nome gli porterà fortuna; ho conosciuto una famiglia di Pinocchi, tutti se la passavano bene… il più ricco chiedeva l’elemosina. E, trovato il nome al suo burattino, Geppetto comincia a lavorare a buono, armato di semplici arnesi e tanta volontà, in mezzo a tanti dubbi e a tante speranze; passando attraverso varie difficoltà, riesce finalmente a digrossare il pezzo di legno e a farne un burattino, un burattino perfetto nel suo essere burattino, ma pur sempre un burattino. Nasce Pinocchio dunque, un burattino di sani costumi, ma non del tutto formato, e suscettibile quindi di essere spesso traviato dai richiami allettanti della vita profana. Da questo momento in poi Geppetto e la sua creatura vivono quasi in simbiosi, l’artefice si identifica con la sua opera, soffrono l’uno delle sofferenze dell’altro, gioiscono delle reciproche speranze, affrontano le stesse traversie, sia pure in modi e luoghi diversi. Nel capitolo VI°, mentre Geppetto è in prigione, Pinocchio si trova ad affrontare un ventaccio freddo e strapazzone, una catinellata d’acqua ed infine il fuoco che gli brucerà i piedi: aria, acqua, fuoco… può essere tutto questo casuale?
Da Apprendista a Compagno
Sgrossata la pietra grezza, Geppetto è riuscito a passare dal primo al secondo grado: ha fatto indubbiamente progressi ma è ancora lontano dalla perfezione a cui idealmente aspirava; egli comunque non è più il tipo irascibile descritto nei primi capitoli, così come il burattino abbandona progressivamente la sua mentalità di rozzo pezzo di legno per assumere, almeno a sprazzi, larvati comportamenti mentali umani. Con i piedi rifatti, dopo essere passato attraverso la prova del fuoco, Pinocchio comincia a fare dei ragionamenti: “Vi prometto, babbo, che anderò a scuola, studierò e mi farò onore… imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”. Come non cedere a simili prospettive? E così Geppetto pur di vedere la sua opera realizzata, e lui stesso in essa, non esita un attimo a vendere la vecchia casacca per comprare l’abbecedario, e da questo momento in poi tutto il succo della vicenda sarà imperniato sulla scuola, sull’istruzione, sulla maturazione del burattino fino alla completa trasformazione. Ma quante prove ancora, e tutte imperniate sul trinomio aria-acqua-fuoco, dovrà egli affrontare?!?! Rischia di essere bruciato nel barbecue di Mangiafuoco o di essere bruciato dal falò acceso dagli assassini (Il Gatto e la Volpe), ondeggia al vento impetuoso di tramontana impiccato alla Grande Quercia, si libra nell’aria a cavalcioni di un colombo, si getta in mare per raggiungere il babbo, sarà gettato in mare sotto le sembianze di ciuchino per essere affogato, e poiché attraverso queste prove egli passerà dopo una qualche malefatta dovuta alle tentazioni della vita profana, esse assumono una funzione purificatrice ed infatti da ognuna di queste prove egli uscirà progressivamente sempre più rafforzato e migliorato.
Una fatina massonica
E la Fatina dai Capelli Turchini? Possibile che di questo personaggio così importante ci siamo dimenticati fin qui? No assolutamente, perché pur senza mai nominarla direttamente essa è stata sempre presente; essa è l’anima della nostra esposizione: essa è la personificazione della Massoneria, è l’espressione della Ragione: i suoi interventi non sono ispirati né dalla fede, né dalla speranza né tanto meno dalla carità. Essi sono improntati al massimo del Razionalismo, una razionalismo esasperato nella sua semplicità (vedi cap. XXV°). Nella narrazione la Fatina interviene per la prima volta quando, battendo tre colpi, dà il segno per soccorrere Pinocchio appeso per il collo alla Grande Quercia: lo accoglie nella sua casa luminosa e piena di delizie ma prima ha bisogno di tre dottori che le confermino se egli è vivo o morto. Le diagnosi, sia pur positive nel complesso, lasciano tuttavia adito a qualche perplessità per cui il burattino deve prendere coscienza di che cosa vuol dire rimanere a vivere in quella casa: Pinocchio ottiene lo zuccherino ma subito dopo deve ingerire la medicina amara e di lì a poco la Fatina, raffigurata in questa prima apparizione come una bambina, dirà a Pinocchio: “Tu sarai il mio Fratellino…”: è tale la corrispondenza con il rituale di iniziazione che non è pensabile che questo riferimento da parte del Collodi sia inconsapevole e casuale.
La seconda volta che Pinocchio incontra la Fatina, questa non è più bambina ma è diventata donna ed è a lei che Pinocchio esprime per la prima volta il desiderio di divenire un bambino vero, un uomo. La Fata gli premette che dovrà superare alcune prove e dovrà soprattutto e prima di tutto andare a scuola ed imparare; Pinocchio promette, giura e… spergiura. Effettivamente il comportamento del burattino sembra intraprendere la strada giusta, tanto che un bel giorno la Fatina gli annuncia che il giorno dopo egli diventerà un bambino in carne ed ossa: addirittura si prepara la festa e si fanno gli inviti, ma ancora una volta il mondo profano attrae fatalmente Pinocchio trasportandolo nel Paese de’ Balocchi. Dopo questa paurosa esperienza avrà inizio la redenzione e Pinocchio rivedrà solo indirettamente una terza volta la Fata dai Capelli Turchini ma nelle sembianze di una capretta che lo assiste e cerca di aiutarlo mentre sta per essere inghiottito dal pescecane, avviandosi così verso la sua catarsi definitiva.
Da Compagno a Maestro
Entrando nelle fauci del terrificante pesce, Pinocchio inizia il passaggio al terzo grado, la morte e la definitiva rinascita. “Pinocchio -scrive il Collodi- battè un colpo così screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora”. Quando ritorna in sé si trova immerso in un buio così nero e profondo da sembrare entrato in un calamaio pieno d’inchiostro. Immerso in questa oscurità totale, con il terrore di essere “digerito” dal pesce, finalmente Pinocchio vede una specie di chiarore, un lumicino, “forse qualche compagno di sventura che aspetta anche lui di essere digerito…”, “Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?”. E così Pinocchio si mette a percorrere quella strada indicata dal lumicino e, riporto testualmente, “più andava avanti, più il chiarore si faceva rilucente e distinto”. Il burattino arriva finalmente alla fonte di quella luce: è una candela accesa da Geppetto, raffigurato come un vecchiettino tutto bianco in condizioni pietose. L’artefice e la sua opera sono di nuovo insieme, uniti e pronti per vedere finalmente la luce che appare loro sotto forma di un cielo stellato e un bellissimo lume di luna. Geppetto viene preso a cavalluccio da Pinocchio e portato in salvo: l’artista torna alla vita per tramite della sua opera.
Ora il burattino è pronto per diventare uomo; la pietra grezza è stata completamente digrossata; manca solamente l’ultimo passaggio, la levigatura. Pinocchio infatti comincia a studiare e lavorare forte per suo padre e contemporaneamente manda i frutti della sua fatica alla buona Fata che ha bisogno di lui anzi, per aiutarla, rinuncia a comprarsi un vestito nuovo. E il momento è arrivato: una mattina Pinocchio apre gli occhi e si accorge di non essere più un burattino di legno ma un ragazzo; non è più in una capanna dalle pareti di paglia ma vede una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante; è ricco perché i quaranta soldi mandati alla Fatina gli sono ritornati sotto forma di quaranta zecchini d’oro: gli sono stati resi i metalli. Pinocchio corre dal povero babbo nella stanza accanto e si trova davanti un Geppetto sano e arzillo e di buon umore. E così il passaggio al Terzo Grado è compiuto, l’iniziazione si è completata.
La scena si chiude nel Tempio con il buon Geppetto che soddisfatto da una parte contempla Pinocchio divenuto uomo, cioè la pietra ben squadrata e finalmente levigata, dall’altra osserva il vecchio burattino di legno, appoggiato, rigirato, con le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate. In questo sta l’originalità del romanzo: Pinocchio non ha subito una metamorfosi, non si è trasformato in “umano”: è nato invece un nuovo essere ed il burattino è rimasto là quasi a testimoniare un messaggio di continuità. E’ nell’ultima frase del romanzo, che il Collodi fa dire a Pinocchio, che si racchiude e si concentra l’orgoglio di essere iniziato Fratello Libero Muratore: “Com’ero buffo, quando ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…”.
(In “L’Acacia” N° 3 – 2002)