L’ULTIMO ATTO DELLA COMMEDIA UMANA: L’USCITA DI SCENA

Ultimo atto della commedia umana: l’uscita di scena

Paradossalmente nella vita di ciascuno di noi, pur essendo la Morte l’evento che tutti, dopo piuttosto che prima, dovremo comunque ed inesorabilmente sperimentare, è, al contempo, l’unico evento verso il quale non viene dedicata né la giusta attenzione, né tanto meno è apprestata la necessaria preparazione.

Questa riflessione mi coglie frequentemente quando nelle mie funzioni di cerimoniere al Tempio Crematorio colgo commenti espressi da amici e conoscenti del defunto ed a lui riferiti di questo tenore “Così giovane e nel pieno delle forze! La sua agenda era ricca di impegni! I suoi programmi prevedevano grandi cose! Pensa che solo l’altro ieri aveva pianificato le sue vacanze! Ecc. ecc.”

La meraviglia e lo sbigottimento che vengono così espressi, a me, a cui la Morte, sia pure degli altri ma soprattutto di estranei, rappresenta una quotidianità routinaria, provoca un bonario sorriso.

E da questa premessa che avvio le mie considerazioni sulla morte cercando di osservarla evidentemente con un tocco di ironia professionale ma anche con una sana curiosità intellettuale.

Innanzi tutto perché tanta avversione verso questo evento?

La prima domanda banale è: perché le viene attribuito un valore nefasto? Siamo infatti educati a considerare la Vita il Bene massimo e la Morte il massimo dei mali, come l’oscuro e non accettabile termine della Vita.

E proprio questa valutazione esasperatamente assolutistica che mi rende perplesso e molto critico a prendere per buone “tout court” le loro definizioni

In una realtà, quella nostra, dove l’unico principio assoluto è il relativo, io non mi sento di accettare incondizionatamente l’assioma “vita – buona, morte – cattiva” al di fuori di corretti riferimenti.

Un diverso atteggiamento mi fa riandare alla storiella, già raccontata in un intervento anni fa del Fr.’. Fabrizio Clnn, di quel contadino con due figli che un bel giorno perdette un suo cavallo scappato dalla stalla. I vicini lo compiangevano: “sei stato ben sfortunato a perdere un si bel cavallo”. Al che il contadino rispondeva: “sarà una sfortuna o una fortuna ?” I due figli, messisi alla ricerca del cavallo, ne trovarono due forti e belli anche se selvaggi. Saputa la notizia, i vicini si congratularono con il vecchio contadino: “Sei stato fortunato a trovare questi due bei cavalli”. Al che il vecchio rispondeva : “sarà una fortuna o una sfortuna?” Nel domare i due cavalli selvaggi uno dei due figli cadde e si storpiò una gamba. Al che i soliti vicini commentarono: “sei stato sfortunato ad avere un forte e bravo figliolo azzoppato per colpa di quei due cavalli trovati”. Al che il vecchio rispondeva: “sarà una sfortuna o una fortuna?”

Nel frattempo scoppiò la guerra e solo il figliolo sano dovette andarci trovandovi la morte, mentre l’altro menomato sopravvisse. A questo punto la storia potrebbe andare all ‘infinito: “sarà una fortuna o una sfortuna?”

Non sapremo quindi mai cosa è il male in assoluto né tantomeno potremo identificarlo con la morte. Dunque, se tutto è relativo e se il relativo si associa al soggettivo, anche il bene ed il male si dovranno interpretare in chiave soggettiva. Per cui ciò che è un bene per me potrebbe non esserlo altrettanto per un altro.

L’uomo è un essere per lo meno contraddittorio. È divorato da una parte dal desiderio e dalla volontà di conoscere il mondo che lo circonda e d’altro canto non sa applicare i risultati delle sue speculazioni e della sua ricerca scientifica alla realtà che lo riguarda direttamente; è cioè riluttante a derivarne le logiche conseguenze su se stesso, visto quale creatura di questo mondo.

Egli ha scoperto i seguenti principi, vale a dire leggi universali ed eterne, mai contraddette dall’esperienza:

  1. il principio del dualismo che dice che di ogni fenomeno esistono due aspetti antitetici ( freddo-caldo, giorno-notte, bello-brutto, vita-morte);
  2. il principio della ciclicità di ogni fenomeno; esso cioè si ripete periodicamente col rinnovarsi periodico delle condizioni necessarie alla sua produzione;
  3. il principio della conservazione dell’energia: nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma;
  4. il principio della dinamicità: niente è fermo, tutto scorre;

f) il principio della reversibilità: non esistono cioè nella materia fenomeni irreversibili in senso assoluto.

Se l’uomo si considera, e non può essere diversamente, un essere che fa parte della natura, perché non dovrebbe riconoscersi in quelle leggi che egli riconosce appieno per la natura degli altri esseri viventi? Forse perché egli rifiuta irrazionalmente di accettare per se stesso quelle leggi che scopre valide invece per il mondo esterno dell’universo che lo circonda?

L’uomo, unica creatura della natura, rifiuta di assoggettarsi alla natura ed alle sue leggi. Dunque in un mondo dove tutto nasce e muore, l’uomo “presuntuosamente ed orgogliosamente” aspira all’eternità. Da dove gli verrà mai questo assurdo bisogno di eternità quando egli invece constata che tutto è immerso nel divenire, proviene cioè dal nulla per ritornare al nulla?

Proviamo a sondare meglio questo assurdo. Sulla base delle conoscenze biologiche definiamo l’uomo un essere vivente, animale vertebrato, della classe dei mammiferi, dell’ordine dei primati, della famiglia degli ominidi, del genere Homo che, ad un certo punto, si arricchisce di un’ultima straordinaria e rivoluzionaria qualificazione, “sapiens”, che lo rende unico differenziandolo da ogni altra manifestazione di vita.

Che cosa mai vorrà dire se non che l’uomo è l’unica manifestazione vivente in grado di autopensarsi, capace cioè di esistere con consapevolezza.

Qualcuno, (credo Theilard de Chardin), ha detto che la coscienza dorme nei minerali, sogna nei vegetali, si risveglia negli animali ed è finalmente desta nell’uomo.

Ma cosa significherà mai quest’incidente che ha trasformato una macchina costituita da trenta miliardi di cellule controllate e procreate da un sistema genetico che si è evoluto come tutte le altre forme di manifestazioni esistenti in natura lungo due miliardi di anni , capace, unico tra tutte le specie, di pensare?

Che sia proprio questa capacità di autocoscienza a trasformare nell’uomo la tendenza all’autoconservazione, propria di tutti gli esseri viventi, vegetali ed animali, nel bisogno assoluto dell’eternità?

Dopo una lunga riflessione credo di poter tracciare, sull’immenso e spinoso argomento, un’ampia linea di demarcazione tra due distinti atteggiamenti nel percepire la Morte.

Da un canto la Morte, nella sua accezione più nobile, è la coscienza della propria fine, che accompagna l’uomo lungo tutto l’arco della sua vita; verrà meno proprio col cessare della vita. E un sentimento causa di una continua meditazione che, sotto il profilo della speculazione filosofica, investirà l’essere umano ed il suo divenire. Lo stesso sentimento, se filtrato dalla fede ovvero permeato da volontà di ricerca esoterica, apre la speranza ad una vita trascendente.

L’altro modo di intendere la Morte è quello di considerarlo evento, cioè un accadimento più o meno significativo nel corso dell‘incessante divenire della natura; la Morte cioè è percepita come fatto naturale inteso in senso oggettivo, cioè come evento necessario proprio di tutti gli esseri viventi, una sorta di entropia dell’umanità; come tale essa è estranea ed esterna all’osservatore.

Ebbene è esattamente della Morte dell’uomo, quale evento oggettivato, su cui io intendo intrattenervi rimandando ad altra occasione l’esposizione della mia “personale” meditazione sulla rappresentazione filosofica ed escatologica della stessa.

A tal fine riporterò alcuni dei tanti episodi, cui ho presenziato in esecuzione de 11a mia attività professionale, che a me sono parsi particolarmente interessanti.

I O EPISODIO

La vedova e le sue due figlie, al termine del funerale del loro padre, mi riferirono, favorite da un mio approccio di rispettosa partecipazione al loro lutto, le circostanze della morte del congiunto, ritenute da esse degne di essere riferite come ricche di insegnamento.

ln breve, la madre, moglie separata da anni con proprio domicilio, fu invitata dall’ex marito a trascorrere in sua esclusiva compagnia le festività natalizie in una sua casa al mare. Essendo le due figlie, l’una sposata e residente in Spagna e l’altra in giro per proprio conto, l’invito, dopo un momento di stupore, fu accettato. Era l’occasione di condividere momentaneamente, da parte di due solitudini, la circostanza delle feste tradizionali di fine anno.

Al termine di questa breve vacanza, rientrando a casa propria, l’ex marito, chiusa l’auto nel garage, ne consegnava le chiavi alla ex moglie e le rivelava di essere affetto da grave forma tumorale che non gli avrebbe dato scampo e che si sarebbe evoluta rapidissimamente con esito letale entro un paio di mesi.

La previsione risultò esatta e nell’approssimarsi dell’evento la ex moglie, che nel frattempo era tornata a convivere con l’uomo per meglio assisterlo, informò la figlia residente in Spagna dell’urgenza di raggiungerli a Torino per rendere un ultimo saluto al padre morente. Il giorno dopo, di pomeriggio, le condizioni si aggravarono al punto che l’uomo disse alla due donne a lui vicine che era giunto il suo momento e quindi intendeva salutarle per l’ultima volta. Al che queste l’avvertirono che l’altra figlia sarebbe giunta solo il giorno successivo e che quindi si facesse forza ad aspettarla.

Preso atto della richiesta, l’uomo rispose che avrebbe pazientato solo fino al pomeriggio del giorno successivo. Arrivata la figlia, il padre si accomiatò da lei e, con un ultimo saluto alle altre due donne, con puntualità spirò.

20 EPISODIO

Una signora cinquantenne, di modesta condizione culturale, espresse rabbia mista a dolore al momento della presentazione dell’urna contenente le ceneri del marito; mi sorprese la sua veemenza. Solo dopo un attimo di sconcerto capii che la rabbia era stata causata dallo scoprire i risultati della cremazione; i circa tre litri di volume di cenere, contenute nell’urna, non rendevano adeguata giustizia alla magnifica complessione fisica del marito (alto m. 1,90 e del peso di 100 Kg, come la moglie ebbe a precisare), che da vivo le aveva procurato vanto ed orgoglio.

3 0 EPISODIO

Un caso a parte rappresenta il commiato reso al defunto dalla sua amante. Normalmente viene operato con la discrezione necessaria, di cui mi rendo complice, con visita concessa “a latere” della ufficialità.

Eccezionalmente avviene che l’amante donna, che per buon gusto non presenzia mai alla pubblica funzione, sia citata dalla vedova consorte nelle frasi di saluto che essa porge alle spoglie del marito infedele quando l’infedeltà sia notoria; la vedova in realtà è costretta a riconoscere pubblicamente il fatto e la persona, anche se con l’aria di chi comprende e perdona.

4 0 EPISODIO

Un signore settantenne, nell’accompagnare le ceneri della moglie alla celletta dove l’urna sarebbe stata collocata, avendo già provveduto a prenotare quella a fianco per sé, mormorò a fior di labbra: “ti raggiungerò al più presto”. Non tanto la frase, quanto la forte determinazione con cui era stata espressa, mi scosse. Impressionato, intervenni con parole di circostanza che mi parvero subito inascoltate.

Due mesi dopo l’uomo moriva per raggiungere la celletta a fianco della moglie. I figli, cui chiesi notizie circa la malattia del padre, che ricordavo giovanile ed aitante, mi risposero che non era risultata una causa patologica identificata come tale; essi addebitavano la morte ad una lucida scelta del padre dopo la scomparsa della moglie.

5 0 EPISODIO

Una famiglia, di buon livello per censo e cultura, ramificata in più generazioni, era presente compatta alle esequie della propria nonna, più volte promossa al grado di “bis”.

Alcuni giovani nipoti ed un pronipote decenne si alternarono in brevi interventi. Tutti sottolinearono l’aspetto caratteristico di un “certo suo stile di vita”, fatto di moralità non getta, di saggezza antica, di equilibrio rispettoso della propria e dell’altrui libertà e di vivacità intellettiva. Era descritto come la vera eredità lasciata dalla nonna ai propri genitori e che essi si impegnavano, a loro volta, a trasmettere integralmente ai propri discendenti.

60 EPISODIO

Una signora nubile, docente in pensione di grammatica latina alla facoltà di lettere, ultima esponente di una famiglia di antica tradizione cremazionista, la cui parentela risiede già da lungo tempo in un’area della zona storica del Tempio, mi chiese che fossero tolti tutti i vasetti portafiori dalle cellette dei congiunti; ella non poteva più garantirne per il futuro la cura.

Mi spiegò la ragione della sua richiesta: la mancanza di cure nella tenuta dei vasetti, dopo la sua scomparsa, avrebbe reso desolate le cellette ad uso perpetuo; ne sarebbe derivata una immagine di disordine, offensiva per il ricordo della sua famiglia.

Al di fuori di episodi tipici, si ripresenta una vasta gamma di comportamenti ricorrenti. Mi riferisco alle manifestazioni di fede politica che più volte ho dovuto gestire nelle loro rappresentazioni più o meno pittoresche nella Sala del Commiato.

L’improvviso scuotersi all’unisono delle braccia tese con le mani serrate a pugno o rigidamente aperte (unico visivo segno distintivo di opposte ideologie); i comandi urlati in tono militaresco; brani musicali evocanti militanze in opposti schieramenti. Tutto ciò muove i presenti alle forti emozioni della passione politica, che travalica la vita del defunto e la rende eterna.

I bambini piccoli ai funerali sdrammatizzano l’evento al punto di muovere al sorriso molti dei presenti. La loro spontaneità e freschezza toglie alla circostanza il senso della finitezza del luogo e lo sostituisce con una concreta speranza di rinnovamento dell’umanità. Ho idea che nei bambini la morte, di cui conoscono il significato più immediato del distacco, nonostante il diverso parere degli adulti, la debbano interpretare come una sorta di gioco a mosca-cieca, cioè un allontanamento non definitivo del defunto.

Di contro quanto penosa appare la parodia del dolore di certi parenti che con un’aria tutta compunta si schierano ai lati opposti della bara come per prendere posizione di battaglia fra loro. Con una gamma vasta di atteggiamenti intermedi si colgono diffidenze, rancori, ostilità, che scaturiscono dai veri o presunti torti subiti. Visi lacrimanti che si induriscono non appena gli sguardi incrociano, oltre la bara, quelli dei parenti; bocche composte al massimo rispetto che si trasformano improvvisamente in ghigni di sfida. In questi casi ho il mio buon da fare per prevenire improvvisi scoppi d’ira con scambi di insulti.

Ho offerto alle vostre riflessioni queste vicende umane concrete. Potrete derivarne le osservazioni a voi più congeniali; io mi limito a proporvi su di esse le mie succinte impressioni.

La morte-evento, a parer mio, è sostanzialmente rifiutato da tutti: il meccanismo utilizzato è quello della fuga in avanti. Intendo cioè affermare che l’evento morte è immediatamente archiviato nella sfera psicologica dell’uomo moderno. Nel passato infatti, in un mondo non ancora insuperbito dal progresso scientifico e fortemente permeato di partecipazione, la morte era accettata nella sua quotidiana presenza, come l’alternarsi delle stagioni, le malattie, le guerre, le carestie, le intemperie.

Oggi al suo posto appaiono, per bocca di parenti ed amici, vicende del passato ( rievocazioni di fatti significativi nel vissuto del defunto), ovvero osservazioni di valore pratico sulle procedure operative (richieste specifiche di vario tipo, da urgenze o posticipazioni per la tumulazione a richieste di specifici brani musicali da diffondere nella circostanza del saluto alla salma) che rimandano alla normalità degli atti della vita. Si cerca di ottenere appunto l’effetto di “normalizzare” l’evento morte, rimuovendolo dalle coscienze per diluirlo nella più tranquillante quotidianità.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. S. Lppls,

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