OCCULTUM LAPIDEM

La lettura del testamento del Fr.•. Carlo mi ha fatto pensare a come risponderei ora a quelle domande. Pensandoci mi accorgo di avere più difficoltà oggi che una ventina di anni fa quando, come Carlo, ho risposto per la prima volta a queste domande.

Già alla prima domanda, “quali doveri verso il Grande Architetto?” mi fermo per chiedermi se vi siano dei doveri. L’idea di un dovere ha senso se si accetta un Dio che premia o castiga, che definisce regole scritte sulla roccia, che assegna compiti e doveri. Un Giudice Onnipotente capace di resuscitare i morti e di fermare il corso del sole perché il suo Giosuè possa finire la sua battaglia.

Questa è la concezione giudaico cristiana che ci sembra normale ed ovvia per via di una consuetudine di quasi quindici secoli, ma non è Punica possibile. Dio potrebbe anche essere meno coinvolto nelle nostre vicende, potremmo anche essere meno importanti di quello che pensiamo. La morale è un problema umano anche se, forse, è un dono divino per regalarci la possibilità di una convivenza civile. L’osservanza di certe leggi potrebbe riguardare soltanto noi ed essere solo un dovere verso il prossimo.

Così passo alla seconda domanda, ai doveri verso l’Umanità. Questa, forse, è la meno difficile, dalla società riceviamo molto e quindi dobbiamo ricambiare qualcosa. Qui abbiamo sicuramente qualche dovere, “Lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità” mi convince anche se per un buddista non sarebbe così scontato.

Il piano della pratica quotidiana, delle azioni concrete, della coerenza personale è sicuramente la controprova che separa lo spazio delle chiacchiere da quello della realtà. La difficoltà in questo campo è il non limitarsi all’azione concreta perdendo il senso dello spirito. La cultura moderna, sostanzialmente materialista, porta a considerare l’azione concreta come l’unica degna di nota relegando la dimensione spirituale al misero livello della superstizione per i semplici e dei sofismi metafisici per i dotti un po’ bizantini.

Non bisogna però dimenticare di chiedersi quali siano le motivazioni che portano ad agire in un certo modo, forse perché ci piace, perché ci fa sentire soddisfatti, per l’ambizione di essere bravi. Sotto il profilo pratico non importa il motivo per cui si compie qualcosa, contano le azioni e basta.

Per chi si prefigge di conoscersi meglio la questione è invece rilevante. 1.2 nostre azioni sono una conseguenza del nostro modo di essere, i doveri verso il prossimo possono essere anche un alibi per nascondere il peso che l’immagine esteriore ha su di noi.

La vita è un palcoscenico in cui gli attori recitano a soggetto seguendo gli umori del pubblico. Essere ed apparire non sono così distinti come sembra. Essere integerrimi ed altruisti può appagare quanto il successo professionale.

Un sistema di doveri ben definito, garantito a priori, è un buon porto in cui ripararsi e sentirsi in pace. La sicurezza psicologica è un bisogno fondamentale come quello del cibo e del sesso, ma non altrettanto riconoscibile.

La chiave di interpretazione dei doveri che sentiamo di avere o che scegliamo di avere non è legata all’Umanità o a regole superiori, ma alla propria individualità, almeno in parte. L’ordine universale del cielo stellato sopra di noi è certamente opera del Grande Architetto, l’ordine morale dentro di noi, l’imperativo categorico, più semplicemente la coscienza, sono di origine certo più complessa.

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11 lavoro dell ‘Architetto si sovrappone e si confonde con la chimica degli enzimi e degli ormoni che condizionano il nostro cervello e l’interpretazione dei nostri sensi oltre che della percezione dei nostri sensi. Molte volte ci capita di vederci reagire in modi molto diversi a stimoli uguali. La cultura e le circostanze ci plasmano e ci cambiano. Senza alcuna risposta sono già alla terza domanda.

“Conoscersi” credo sia il dovere principale, porsi interrogativi e non solo risposte rassicuranti. Le acque interiori sono torbide, stagnanti in superficie e vorticose un po’ sotto il pelo dell’acqua. Porsi delle domande è come scivolare in un abisso, per continuare la discesa occorre evitare i facili appigli che offrono una sosta rassicurante. La ninfa Calipso offriva ad Ulisse ogni lusinga, persino l’immortalità, pur di convincerlo a fermarsi e ad interrompere il suo viaggio. Guardarsi dentro è come compiere un viaggio nelle viscere della terra.

Gli Inferi sono forse le nostre radici un po’ remote e sepolte. Un viaggio interiore che ci viene proposto all’inizio dell’esperienza iniziatica, nel Gabinetto di riflessione. Un viaggio che non inizia subito, a volte non inizia neppure perché non si trova l’ingresso della caverna. Sovente si arresta, forse si concluderà in un altro Oriente.

Le tre domande sono l’accesso alla caverna da cui si può iniziare la discesa, le risposte banali che ci diamo sono la pietra occulta che nasconde la strada, il tentativo di rispondersi è il cammino. Per le risposte chiedete ad un altro.

TAVOLA DEL FR.’.G. B. Plin,

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