II mio amico
Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,
Il mio amico sta a letto con un pappagallo, intendo quell’affare che serve per pisciare.
Il mio amico sta sdraiato sulla schiena e guarda nel vuoto. Ogni tanto lo girano su un fianco per lavarlo. Qualche ora al giorno lo mettono in carrozzella e lo portano alla sua vecchia scrivania, così può leggere il giornale. Difficile altrimenti, quando si dispone di una mano sola.
Una volta il mio amico era forte. Ha fatto quasi tutti i 4000 della Val d’Aosta. Era anche un dirigente industriale. Un giorno il suo cuore ha fabbricato un trombo arterioso, che è andato a fermarsi nel posto sbagliato. Ha passato tanto tempo in un centro di riabilitazione, con poco miglioramento. Era già vedovo e adesso non ha molta compagnia, ma c’è una buona donna che lo accudisce, contro ragionevole compenso.
Il mio amico non è musulmano, bensì cattolico, e il suo pianto comunque non è un piàlnto mistico di questo tipo. È il pianto disperato di un uomo che pensa quel che è stata la sua vita, quello che è e quello che sarà.
A tratti conversa piacevolmente, ma poi improvvisamente può avere una crisi di pianto. C’era una mistica musulmana, Rabi’a, della quale i biografi dicono che piangeva sempre. Un giorno le fu chiesto perché piangi? Di quale dolore ti lamenti? Rispose: “Ahimè, la mia malattia è tale che nessun medico può guarirla: l’unica medicina è la visione di Dio”.
È il ricordo del mio amico che mi ha ispirato queste riflessioni sull’eutanasia. Se il mio amico mi chiedesse di portargli una pastiglia letale, so che seguirei il mio impulso, e gliela porterei. Ma lui non lo fa, forse perché è cattolico, o forse per qualche altro motivo. Forse la vita gli riserva ancora sufficienti gratificazioni (quali gratificazioni?). Forse la vita è un’abitudine dalla quale non siamo capaci di staccarci.
Non so se il mio atteggiamento sia giusto. Forse no, ma vorrei mi dicessero qualcosa di più convincente della solita banalità che “la vita è sacra” (chi l’ha detto? Non il popolo, che la “dissacra”, diciamo così, da sempre, non i grandi iniziati, non i fondatori delle religioni, non Abramo, né Gilgamesh, né Mosè, né Pitagora, né Platone).
Ma noi siamo degli iniziati, e dovremmo cercare di porci il problema in un’ottica iniziatica. Allora i criteri sono altri, e non possiamo accontentarci della solita formula stereotipa. Dovremmo chiederci cosa è vita, e che cosa è via iniziatica, e che cosa ci aspettiamo al terrnine di questa via. Cosa vale la vita? Ho detto il mio atteggiamento nei confronti dell’amico profano. Ma cambierebbe se fosse un iniziato?
Anni fa, insieme al fratello Silvano, ci eravamo posti un problema solo apparentemente diverso da quello del quale sto parlando, ispirato a entrambi dalla stessa situazione, quella di avere un padre in avanzato rimbecillimento. Una cosa è avere un’idea solamente teorica del rimbecillimento, una cosa è toccarlo, conviverci. Avevamo fatto una tavola a quattro mani ed ecco cosa scrivevo nel mio contributo:
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“Guardando allo spettacolo del decadimento, diciamo pure dello sfacelo fisico e soprattutto mentale indotto dalla vecchiaia, l’iniziato si chiede: ma allora che ne è, che ne sarà delle conquiste spirituali che vado faticosamente cercando, della strada che vado percorrendo, dei miei piccoli passi, del mio sforzo di perfezionamento? È tutto questo registrato in modo effimero, come nella memoria labile di un calcolatore, che si svuota quando stacco la corrente?”
“Che cosa è realizzazione iniziatica? E un cambiamento ontologico? È solo un progresso, magari un salto di qualità, delle nostre facoltà conoscitive?”
“Cosa si deve pensare del vecchio massone che rincoglionisce? Si deve pensare che ha fallito nella sua ricerca? L’Illuminato, lo Svegliato dovrebbe sfuggire alla decadenza. Dovrebbe scegliere, o almeno prevedere il momento della morte. La tradizione ci insegna che questo è successo solo a pochissimi santi ed illuminati”
“O forse invece il rimbecillimento è un dono divino. La molta conoscenza è un fardello, e perderla è necessario. In termini alchemici, anche essa deve putrefare”.
Eccetera eccetera.
La morte, quella morte, la morte del mio amico per intenderci, sarebbe solo l’ultimo atto del decadimento. Ecco allora il nesso tra l’eutanasia e il mio problema di anni fa. È tutto registrato in modo effimero, come nella memoria labile di un calcolatore? mi chiedevo quella volta. Molto dipende dalla risposta che diamo a questa domanda. Se la risposta è positiva, non ho dubbi: fornirò la pastiglia all’amico che me la chiede. Sono sicuro di non rubargli niente. Ma forse invece gli rubo quel dono divino, quel passaggio alchemico del quale parlavo.
Ciascuno può scegliere la sua risposta, e farne discendere una certa valutazione morale e, quando il caso si ponesse, una scelta di comportamento. Importante è che l’iniziato si ponga il problema, e cerchi di inquadrarlo correttamente.
A proposito, il problema si può porre in termini di carità e si può porre in termini di conoscenza, ma non, io direi, in termine di morale. A un certo punto in questa tavola la parola “morale” è comparsa. Non so se abbia fatto a voi la stessa impressione che ha fatto a me. Un’impressione di “fuori luogo”. Ma questo aprirebbe un altro discorso, e questa sera desidero non andare oltre.
R. scch, 3 Marzo 1994 e . ..v..• (1 0 Grado)
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