DIABOLOGIA DANTESCA
Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,
ho voluto titolare questa mia tavola usando, di proposito, il termine diabologia e non quello di demonologia, per qualificare il più rigorosamente possibile la natura dell’indagine, per collocarla in un certo senso in posizione antinomica con la teologia.
La demonologia, infatti, rivolge di preferenza la sua attenzione alle arti magiche, alla stregoneria ed anche ai mostri (nell’inferno dantesco sono demoni Carontc e Minosse). La diabologia, invece, e specificatamente quella dantesca, si prefigge di scandagliare la natura e l’essenza del terribile protagonista che Dio ha fatto precipitare dal cielo sulla terra, di individuare la causa e quindi anche la colpa della sua caduta, di scoprire la sua attuale condizione.
Recensendo il diavolo di Papini e raffrontandolo con le più ragguardevoli diavolerie del Novecento, dall’Histoire du diable di Turmel a Satana del cattolicissimo De Libero fino alle meditazioni esistenzialistiche di Sarte su le diable e le bon Dieu, Raimondo Folengo vi ha indicato alcuni interessanti elementi di calcolo storico sul Diavolo:
“la questione è antichissima e ciononostante è tuttora insoluta. Nel Satana ebraico-cristiano si condensano precedenti concezioni pagane, dal Set egiziano che, nemico degli dei della luce Ra e Horus, uccise cainamente suo fratello Osiride, al Tifone greco, figlio di Gea e del Tartaro; dal persiano Amramainyu, all’indiano Metya o Mara che tentò Buddha mentre meditava sotto il fico”.
“La sua più pregnante accezione è, comunque, quella di essere principe di questo mondo come chiaramente Io rivelò Gesù che ne aveva patito le tentazioni, quando nel deserto lo aveva accettato come suo solo compagno”.
“Si comprende pertanto come, dalle fumose elucubrazioni medioevali in cui il demonio si dava al mago e lo stregone al demonio, si è passati progressivamente ad una sorta di apologetica del Diavolo della quale, secondo alcuni furono sintomi ragguardevoli persino il principe di Macchiavelli, l’Anticristo di Nietzsche e persino l’uomo-verme di Kafka”.
Come si può notare, di Dante e della sua versione diabologica nessun cenno. Mi pare quindi opportuno tentare di ovviare a questa lacuna con un’indagine che ci permetta di rilevarne l’importanza e l’originalità.
La parola Diavolo, nel significato di Satana, Re dell’Inferno, non compare nella Divina Commedia, compie una fugace apparizione nel De Monarchia dove è indicato come il pater Diabolus.
Dante preferisce usare il termine Lucifero, o quello di Dite o anche di Belzebù, deformazione dispregiativa di origine ebraica di ba ‘alzebùl, nome di una divinità venerata come signora del mondo infernale.
Inoltre ciò che importa rilevare è la somma di attribuzioni significanti con cui il Diavolo viene raffigurato. Già la parola Lucifero (= lucem fero) lo qualifica come l’essere luminoso per eccellenza o, come dice Dante, con una perifrasi
“la creatura ch’ebbe ‘l bel sembiante ” (Inf XXXIV, 18)
A questa qualità luminosa il poeta aggiunge un’altra attribuzione non meno significativa:
. colui che fu nobil creato più ch’altra creatura … ” (Pur. XII, 25-26)
E che cosa si debba intendere per nobiltà è detto chiaramente nel Convivio: “dico adunque che, se volemo riguardo avere alla comune consuetudine di parlare, per questo vocabolo nobiltà s’intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa. Onde non pur dell’uomo è predicata, ma eziandio di tutte le cose; ché l’uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone, qualunque in sua natura si vede essere perfetto. E però dice Salomone nell’Ecclesiaste: Beata la terra lo cui re è nobile, che non è altro a dire se non lo cui re è perfetto, secondo la perfezione dell’anima e del corpo; e così manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: Guai a te, terra, lo cui re è pargolo, cioè non perfetto uomo; e non è pargolo uomo pur per etade, ma per costumi disordinati e per difetto di vita, siccome ammaestra il Filosofo nel primo dell’Etica” (IV, 16).
Luce e perfezione: ecco dunque le essenziali e qualificanti attribuzioni con cui
Dante indica l’originaria natura de “l ‘imperador del doloroso regno
Con la caduta dal cielo della luce egli però viene ad assumere dei tratti mostruosi: “S ‘el fu sì bel com’elli è ora brutto” (Inf. XXXIV, 34).
Mi viene qui in mente una frase collocata sotto un quadro di Goya:
“Quando all’uomo viene meno la luce della ragione, allora nascono i mostri ‘
Il capo di Lucifero, uno e trino, diviene il rovescio, l’antitesi simbolica della trinità di Dio ed anche la diversa colorazione delle tre facce (una rossa, l’altra livida, la terza nera) è chiaramente allusiva di alcune tipiche componenti negative, quali l’odio e l’ignoranza, che la privazione della luce provoca nell’animo dei dannati.
In corrispondenza di ciascuna faccia fuoriescono due ali e perciò Lucifero ha sei ali, come i quattro animali che stanno intorno al trono di Dio secondo l’Apocalisse.
E un’immagine piuttosto frammentaria di Satana, una raffigurazione fatta con particolari simbolici più validi per effetto d’antitesi che per significazione propria. Dice il De Sanctis: “La poesia qui è quasi naufragata nei particolari simbolici entro i quali si perde l’attenzione. Domina l’allegoria. Il lettore non distratto da alcuna impressione estetica, è tutto dietro a cercare il senso di ciascun particolare; sicché i giganti e Lucifero sono piuttosto segni di idee che proprie e vive realtà. Perché Lucifero ha tre facce? Perché ciascuna faccia ha un colore proprio? E che significano quei colori? Pullulano infiniti perché, lasciati alle dispute dei commentatori e rimasti il solo interesse in queste rappresentazioni inestetiche”.
Improvvisamente però questa figurazione, immobile nella sua grandiosa mostruosità, si anima:
“con sei occhi piangea e per tre menti
gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava ” (Inf. XXXIV, 53 – 54).
L’elemento umano sembra ricostruire, d’un tratto, l’immagine di un Diavolo che rinnova eternamente, con il pianto, il dramma della sua colpa. Quale essa sia Dante lo ha già chiaramente espresso:
“e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia ” (Inf. XXXIV, 35).
Ma fu soltanto un “non serviam” la causa della sua caduta?
Dante ci fornisce a questo punto una teoria sua, originale:
. Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto
non poté suo valor sì fare impresso in tutto I ‘universo, che ‘l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che ‘l primo superbo che fu la somma d’ogne creatura per non aspettar lume cadde acerbo ” (Par. XIX, 40 – 48)
Alcune immagini rientrano nell’ambito di quella tradizione di origine cattolica cui Dante ha mostrato di volersi attenere: l’espressione il primo superbo che ripropone quella dell’orgoglio di Lucifero, e la sua condizione di somma d’ogni creatura con quella precedentemente indicata di nobil creato.
Che però egli sia caduto anzi tempo (acerbo), per un atto di impazienza, per non aver voluto o saputo attendere la luce (per non aspettar lume) è una visione che non compare nella diabologia tradizionale.
Qualcuno è giunto ad ipotizzare che Dante intendesse dire che Lucifero si ribellò … “prima chefosse compiuto il periodo assegnato come prova agli Angeli”.
Un Dio che impone a delle creatura perfette come gli angeli un periodo di apprendistato prima di concedere un supplemento di luce mi pare una grottesca trasposizione di elementi terreni, stavo per dire massonici, nella sfera del divino. E l’immagine del sesto (compasso), di cui Dio si serve per definire gli estremi confini del mondo, potrebbe avvalorare tale ipotesi!
Per questo uno scrittore cattolico si domanda preoccupato: “È mai possibile che l’angelo più perfetto avesse bisogno di una successiva illuminazione per meglio comprendere l’unicità e l’onnipotenza del Creatore? È possibile che Dio non abbia dato alle creature angeliche, fin dal primo momento, tutta quella luce della quale voleva illuminarle? [1]E Dio, nel caso contrario accennato dal poeta, avrà fatto sapere ai suoi angeli che solo in futuro, dopo un certo tempo, avrebbe concesso loro quel tanto di lume che ancora mancava alla loro perfezione? E nel caso che gli angeli non siano stati avvertiti di questo supplemento di grazia che dovevano attendere con pazienza, si può accusare Lucifero di non aver voluto aspettare e di essere, perciò, acerbo?”
Sono interrogativi a cui e teologi non sanno rispondere, a maggior ragione non voglio caricare io il discorso di eccessiva responsabilità … diabologica.
Quello che tuttavia mi pare di poter sostenere è che la più grave colpa di Lucifero, per Dante beninteso, non è tanto l’orgoglio quanto l’impazienza, dalla quale solo in seguito e come logica e inevitabile conseguenza, è maturato il peccato di superbia.
Un’ultima e non meno sconcertante e demistificante immagine di Satana è quella raffigurata nel Canto XXVII del Paradiso e che Dante pone sulla bocca di Pietro:
“Quelli c ‘usurpa in terra il luogo mio il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio
fatt ‘ha del cimiterio mio cloaca del sangue e de la puzza; onde il perverso che cadde di qua sù, là giù si placa ‘
È l’immagine di un perverso soddisfatto, beato, assaporante con un ghigno beffardo l’amara soddisfazione di vedere un pontefice a lui somigliante (Bonifacio VIII da Jacopone da Todi definito Lucifero novello) che fa del Vaticano la fogna entro cui si versano tutte le lordure e le immondizie della curia.
TAVOLA
DEL FR.’. G. Bltt