EMILIO SALGARI
E LA MASSONERIA
Curando un’edizione annotata dell’unico romanzo autobiografico di Salgari, In Bohème Italiana (1909) un romanzo particolarissimo, privo d’avventure esotiche, nel quale non pochi personaggi reali, in particolare quelli della cerchia d’amici dello scrittore, sono nascosti con nomi fasulli, anagrammi e con altre maschere (lo stesso Salgari vi si sdoppia nei personaggi d’un pittore e del “letterato Roberto”), mi colpì la seguente frase:
Tipo alla buona del resto. buon compagnone, e soprattutto vero bohèmien di istinti
Frase innocua, riferita a sé stesso, però avevo da poco appreso che:
…non poco del simbolismo che si riscontra nelle due maggiori società segrete di questi ultimi tempi, quali la Massoneria e la Carboneria. rimonta all’antico Compagnonaggio del dovere e che la voce italiana “compagnone”, riferita a gente allegra e burlona, può nascondere appunto il significato di appartenente al Compagnonnage, società di compagnoni.
In più quel termine, “compagnone”, non mi risulta usato altrove dal Salgari. Nulla di più, comunque, d’una pulce nell’orecchio, dovuta allo sforzo che stavo compiendo di togliere il velo ai numerosi messaggi, alle allusioni ed agli ammiccamenti che Salgari ha disseminato nel libro.
Non feci cenno alla circostanza nella Postfazione al volume, nemmeno dopo aver notato che quasi tutti i personaggi citati correttamente nel romanzo, furono massoni: Guido Baccelli, Oreste Baratieri, Augusto Franzoj, Giuseppe Giacosa, Tommaso Villa…
Scrissi invece, sulla scorta di altri riscontri, di come Salgari si muovesse “con discrezione o addirittura senza consapevolezza”, nell’ambito politico dei repubblicani; di come fosse agevole rintracciare nei suoi romanzi inni al Risorgimento e di come il discusso anticolonialismo salgariano potesse derivare dalle teorie di Carlo Cattaneo Che “propugnò idee di amichevole collaborazione in contrasto con i comportamenti espansionistici
Dopo qualche tempo, occupandomi di un altro romanzo salgariano, I Drammi della schiavitù (1896), dove, ovviamente, Salgari ha tracciato pagine degne di Sir Samuel White Baker. autore d’una famosa spedizione nell’ Africa Centrale per l’abolizione della tratta dei negri, notai come nella prima edizione di quell’opera egli si fosse dichiarato apertamente “seguace convinto” del naturalista francese Jean Baptiste Pierre Antoine de Monet de Lamarck, il quale divulgò per primo la teoria dell’evoluzione, o meglio seguace di Darwin Avrei presto appurato, a questo proposito, che:
La vulgata dell’evoluzionismo divenne presto uno dei punti d’incontro di certi massoni che, anche senza averc una precisa cognizione dei contenuti scientifici del darwinismo e delle sue possibili implicanze socio-politiche. dalla strenua lotta sostenuta dalla Chiesa di Roma contro la sua diffusione e per la sua stessa provenienza dalla terra di Desaguliers e Anderson deducevano ch’esso fosse comunque un buon compagno di strada, se non verso la Vera Luce almeno per dissipare le tenebre più fitte…
Nelle stesse pagine di Aldo A. Mola, appresi che anche l’affare Dreyfuss, se non coralmente, aveva annoverato i massoni tra gli innocenti. ricordavo perfettamente come Salgari, nel racconto L’Isola del diavolo, avesse espresso analogo atteggiamento, discostandosi clamorosamente, ad esempio, da uno dei suoi “maestri”: Jules Verne. Una presa di posizione ben precisa, dunque, se si pensa alla quantità di nozioni e di idee che sono pacificamente rifluite dalle pagine dell’autore francese a quelle salgariane.
La pulce nell’orecchio si stava annidando con maggior risolutezza. D’altro canto, poiché le tematiche di Salgari riflettono valori universali che, proprio in quanto tali, valgono per tutte le bandiere, anche d’opposto colore, non poteva essere rivelatore il fatto che riflettessero puntualmente i massonici ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza.
Per puro spirito ermeneutico, per così dire, notai poi come Salgari si sia schierato contro la superstizione”; e come abbia idealizzato i Cavalieri di ancora in ottemperanza allo spirito massonico.
Troppo poco, comunque, per trarre conclusioni. Occorreva qualche segnale più forte, pur nella consapevolezza che ogni segnale, alla stregua del termine “compagnone”, potesse prestarsi ad una doppia lettura, lasciando perciò inalterata la situazione. D’ altra parte gl’indizi sono spesso, se in gran numero, sintomi di prova non facilmente oppugnabile.
Salgari nacque a Verona nel 1862 e vi rimase sino al 1893; si trasferì poi in Piemonte e a Torino visse gran parte del resto della sua vita, terminata tragicamente nel 1911.
Quando, eventualmente, avvenne la sua affiliazione alla Massoneria? E c’è, nella sua vita, qualche segnale che indichi uno di quei salti di qualità che si sogliono pensare caratteristici dei “fratelli”?
Nel 1883, giovanissimo e per di più dopo studi scolastici che possiamo definire catastrofici (ma era bravissimo in lingua italiana!), quasi improvvisamente, diventò redattore del giornale “La Nuova Arena”. Ne era direttore (e fondatore) Ruggero Giannelli, di simpatie monarchiche, futuro segretario di gabinetto del Ministro dei Lavori Pubblici on. Dari, nonché proveniente dalla direzione de “L’Arena”, facente capo a una società controllata dall’ala conservatrice del partito liberale veronese Nel febbraio 1885, il massone Augusto Franzoj, reduce dal suo glorioso viaggio africano, si recò a Verona per tenervi una conferenza, dopo quelle già tenute a Vercelli, Milano e Bologna e come primo atto ufficiale si recò a visitare la redazione de “La Nuova Arena”, incontrandovi Salgari: il fatto è piuttosto strano se si considerano i movimentati trascorsi repubblicani di Franzoj, tanto più che a Verona, in contrapposizione al foglio monarchico di Giannelli, militava il giornale “L’ Adige”, di gran lunga più vicino alle simpatie politiche dell ‘esploratore
Altro avvenimento importante per Salgari: nel 1897. forse in seguito all’abitudine d’inviare copia dei suoi romanzi al componenti la Casa Reale, fu nominato Cavaliere per iniziativa del re Umberto I, che, come scrive Aldo A. Mola, fu “punto d’approdo e garante per i Fratelli ininterrottamente alternatisi nelle alte cariche dello stato…”. Nello stesso anno il giornale “La Gazzetta del Popolo della Domenica” gli riservava autorevoli e lusinghiere prefazioni, ad onta del fatto che l’opera salgariana, com’è noto, sia stata caratterizzata. finché visse lo scrittore, dalla più assoluta indifferenza da parte della critica letteraria e del mondo accademico.
A questo punto delle mie considerazioni potevo presumere d’aver evidenziato, ai fini che mi proponevo, una circostanza rilevante. Tanto più che l’ambito giornalistico torinese suddetto fu notoriamente abitato da personaggi quali Felice Govean e Luigi Pietracqua che furono tra i primi affiliati alla Loggia massonica “Ausonia”, fondata a Torino l’ 8 ottobre 1859. Loggia massonica che partecipò pubblicamente dopo la morte di Salgari, alla sottoscrizione a favore dei suoi figli con la donazione della somma di 50 lire.
Ancor più rilevante mi sembrò dopo aver rintracciato sulle pagine dello stesso giornale la precisa e inconfutabile fonte da cui Salgari trasse le notizie e le particolarità riferite a quel “Fiore di Risurrezione” che, gabellato per vegetale reale, è descritto nei romanzi Le Figlie dei Faraoni (1906) e Le Meraviglie del Duemi1a (1907).
La fonte è un articolo firmato con lo pseudonimo ”Ramfis” apparso appunto su “La Gazzetta del Popolo della Domenica” con data 26 aprile 1891, e riguarda chiaramente il simbolismo della scienza sacra e quello massonico, con accenni ai Cavalieri di Malta-Crociati-Santo Graal-Risorgimento-anno 1848.Fu appunto scrivendo di questa scoperta che azzardai per la prima volta l’ipotesi dell’appartenenza di Salgari alla Massoneria, citando altri indizi di cui ero intanto venuto a conoscenza nel rileggere il citato Le Meraviglie del Duemila: una certa visione antisocialista, un probabile omaggio al massone F. A. Meslner. un eloquente omaggio a Guglielmo Marconi e a Garibaldi, il sia pur mal riuscito tentativo d’esaltare il principio dell’evoluzione sociale generale. E scrissi anche:
Il protagonista del romanzo Cartagine in fiamme. che si chiama Hiram come il sacerdote di Tebc dei riti massonici nel tragico finale riceve da Fulvia l’estremo saluto: “Addio fratello”. Altro caso, così impensabile perché sotto gli occhi di tutti, come la lettera rubata di Poe . riguarda l’appellativo con cui si apostrofano continuamente Sandokan e Yanez. (“fratellino” Ina anche “fratello”). personaggi che si è voluto accostare a Garibaldi e Bixio, entrambi massoni,
Circostanza altrettanto interessante ho poi rilevato nel sunnominato romanzo Le Pantere d’Algeri, il cui protagonista è un giovane Cavaliere di Malta impegnato contro i pirati algerini nell’anno 1630.
Nel capitolo XI, in suolo nemico, un Normanno fregatario, da anni impegnato nella liberazione degli schiavi cristiani, accompagna il Cavaliere a stabilire un contatto con un anziano maltese, ex templare, inserito nella società alaerina nelle vesti di “mirab”, specie di santone:
Quando il mirab, che guardava a destra ed a sinistra, giunse a pochi passi dal fregatario, fissò su questi. per un momento, i suoi occhietti grigi cd un rapido trasalimento contrasse il suo viso rugoso ed incartapecorito.
Il Normanno, con una mossa che pareva naturalissima, si era portata una [nano sulla fronte. tenendo tese tre dita e piegando le altre due. Il mirab aveva subito risposto a quel segno convenzionale accarezzandosi due volte la lunga e candida barba. poi aveva continuato ad inoltrarsi fra la folla, scomparendo per una porticina che s’ apriva nell’estremità della moschea’ Da me interpellato in proposito, il Prof. Aldo A. Mola ha riconosciuto nel “segno convenzionale” salgariano il “signe de detresse” previsto dai massoni in caso di pericolo, che peraltro il romanziere potrebbe agevolmente aver appreso da una delle tante traduzioni delle opere di Léo Taxil che all’epoca circolavano in
Resta il fatto, mi pare, che la scelta d’un segnale del genere, in un romanzo d’avventure, possa considerarsi eloquente, tanto più se aggiunta agli indizi sinora elencati.
Nel medesimo romanzo, d’ altra parte, è possibile — a chi conosce il contorto modo di Salgari di veicolare messaggi particolari — rintracciare un ulteriore. possibile ammiccamento.
Il barone Carlo di Sant’Elmo. protagonista del romanzo, non può certo considerarsi un autoritratto del romanziere, il quale peraltro ha ceduto in moltissime occasioni alla tentazione di mettere un po’ di se stesso nei propri personaggi. E anzi. nella descrizione fisica, esattamente l’opposto di Salgari né più diverso potrebbe essere. Però un particolare recondito, sintomo d’immedesimazione, volendo c’è ed è nascosto . nella fidanzata del barone, che si chiama Ida di Santafiora, indubbiamente un romantico omaggio di Salgari alla moglie Ida Peruzzi.
A questo punto, se ci fosse qualcos’altro? Notiamo allora che Salgari, del barone, precisa:
creato cavaliere di Malta appena ventenne Supponendo che si tratti — ma non possiamo assolutamente esserne certi — di un riferimento autobiografico, ovvero dell’indicazione della propria affiliazione alla massoneria. potremmo dedurne che essa avvenne nel 1882, a Verona: l’anno prima dell’ingresì0 nella redazione de “La Nuova Arena”.
Ma sono soltanto supposizioni, s’ intende, non prive di forzature e fantasticherie dettate dal desiderio di sapere. Felice Pozzo