I MUSCOLI DELLO SPIRITO
IN VIAGGIO CON MARCO AURELIO
di Manlio Maredei
La metafora del viaggio, tanto cara ai Liberi Muratori, ricorre spesso nel pensiero di Marco Aurelio Antonino, l’imperatore-filosofo raramente ricordato nei nostri templi. Troppo raramente. Se vado indietro con la memoria, trovo una sola tornata a lui dedicata. Per la precisione, meditammo su una parte del paragrafo 3 del libro III. Ti eri imbarcato, hai navigato, ora sei giunto in porto: scendi dunque dalla nave.
Marco prendeva nota dei suoi pensieri negli accampamenti danubiani, fra il 172 e il 180 dopo Cristo. Aveva dunque superato la cinquantina e — per la sua epoca — era già avviato verso la vecchiaia. L’addio al viaggio della vita, la discesa all’ultimo porto, sono allora espressione della malinconia d’un anziano? Tutt’altro: il suo brogliaccio di pensieri (che noi usiamo intitolare Ricordi) era una vitalissima palestra morale, un esercizio per mantenere in forma eccellente i muscoli dello spirito.
Il libro di Marco aveva per titolo Cose per se stesso; s’indirizzava ad un unico lettore (se stesso, appunto) e probabilmente sarebbe stato distrutto se la morte non avesse colto l’autore all ‘improvviso. Anche da ragazzo, infatti, Marco scriveva molto e poi distruggeva: poesie, arringhe di cause immaginarie, orazioni. Tutto materiale da esercitazione. Lo sappiamo dalle lettere che mandava al suo maestro di retorica (il quale invece conservava ogni scritto del giovane patrizio). Quando dalla retorica passò alla filosofia degli stoici, Marco era già esperto di esercizi: che non furono più intellettuali ma divennero esercizi spirituali.
Dalla sua palestra morale, Marco si attendeva la forza per essere atleta della più grande delle lotte, quella di non lasciarsi abbattere da nessuna passione, imbevuto di giustizia sino in fondo, disposto ad accogliere tutto ciò che venga assegnato dal destino. Ci riuscì’? La sua biografia sembra confermarlo.
Non ricchissimo, Marco era cresciuto a
Roma, nella bella casa del Celio, fra boschi di querce. Non ebbe modo di annoiarsi; a sette anni cominciò il suo tirocinio al servizio dello Stato: entrò nel gruppo dei Salii, i sacerdoti di Marte, e prese molto sul serio i suoi compiti. S ‘impratichì delle danze e dei salti sacri, imparò a memoria le formule da recitare nell’ormai incomprensibile latino arcaico (gli altri dovevano leggerle, tanto erano ostiche). Raggiunta l’età adulta, seppe evitare mirabilmente l’avidità e la rapacità del potente. Non si lasciò mai prendere dalla spirale del lusso e del danaro. Anzi, rinunciò a vistose fette di eredità in favore di parenti. E quando, ormai imperatore, i reduci dalla guerra d’oriente portarono la peste, Marco non esitò ad aprire le casse dello Stato, e le sue proprie, per elargire sovvenzioni alla gente colpita dalla carestia e dai lutti. Intere legioni vennero inghiottite dalla terribile epidemia. Proprio al[ora i barbari del nord si ribellarono, attraversarono le Alpi, occuparono Aquileia.
Ancora una volta Marco Aurelio mantenne una stoica calma e armò un esercito a pagamento, fatto di schiavi,’ di gladiatori, di altri mercenari. E lo affidò agli impareggiabili istruttori delle legioni. Ma intanto occorreva danaro. L’imperatore mise all’asta il palazzo imperiale: statue, ori, scrigni, ornamenti, persino le vesti dorate dell ‘imperatrice. Venne fuori anche il tesoro segreto di Adriano (nonno adottivo di Marco) costituito dalle più belle gemme che si potessero raccogliere in Asia. Due mesi durò l’asta. Infine Marco, il mite filosofo, lo studioso che passava le notti a leggere e scrivere, partì per le pianure danubiane. Andò a combattere e a vincere.
Sotto la tenda scriveva, continuava ad allenare lo spirito, si esortava, si ammoniva. C’è un bruciante promemoria Bada a non incesarirti che è stupendo, detto da un Cesare (V1,30). Ci sono certe luminose elevazioni al di sopra del contingente, della sua qualifica imperiale, del
suo rango; Come Antonino ho per patria Roma, come uomo ho per patria il cosmo (VI,44). I Ricordi indugiano spesso sulla morte, sulla caducità della vita. Pensieri d’apparenza asettica che celano lo strazio di un padre che aveva visto morire otto dei suoi quattordici figli, tenere foglioline cadute dal grande albero della vita. Sono note tracciate con pudore dei sentimenti, con l’intento di superare il dolore (o almeno di controllarlo). Il libro a se stesso punta dunque all’accettazione, e può apparire un po’ triste se non teniamo presente l’intento energetico di quelle pagine, il loro valore di quotidiano esercizio atletico.
Ma dobbiamo resistere alla tentazione di addentrarci nella struttura del libro. Teniamoci fermi alla metafora del viaggio, leggendo il passo IV,3 che sicuramente troverà e chi attualissime in molti massoni. Scrive l’imperatore: Vanno alcuni alla ricerca di luoghi in cui ritirarsi, chi nei campi, chi lungo la riva del mare, chi sui monti. E tu stesso hai l’ abitudine di desiderare tutto ciò. Ma è cosa stoltissima, dal momento che tu puoi, sempre che voglia, ritirarti in te stesso. Poiché l’ uomo, in qualunque luogo si rifugi, non ne troverà mai uno più quieto e Più libero da brighe di quello che può offrirgli l’anima sua; specialmente se porta dentro di sé tali principi che, col solo affacciarsi a contemplargli, acquista immediatamente un’ intima tranquillità, un ordine perfetto.
I piaceri che Marco si rimproverava erano semplici: cavalcate, vendemmie, visite all ‘antica e misteriosa Anagni, pacifiche giornate campestri passate in compagnia di libri. Forse Marco li ricorda per scacciare la nostalgia, sentimento pericoloso che distrae dal dovere presente, dall’azione militare.
Perché Marco era sì stoico, ma romano e imperatore. Ogni convinzione, ogni azione è illuminata da un eroico senso del dovere. Non nella passività, ma nell’attività consiste il bene (e il male) dell’ essere ragionevole e socievole (IX, 16). Passando dalla vita sociale alla vita personale e morale, il tono non cambia: Non è più tempo di discutere intorno a ciò che deve es-
sere l’ uomo dabbene, ma di cominciare ad esserlo coi fatti.
L’azione e l’adempimento del dovere sono per Marco Aurelio il necessario corollario della filosofia che, altrimenti, resta vago sentimentalismo e diventa comodo alibi per l’egoista. La costruttività massonica può trovare molte conferme in tale atteggiamento; molti spunti di riflessione.
Così cominciamo ad inquadrare meglio l’invito a rifugiarsi in se stessi. Non è il pigro adagiarsi sulla personalità esistente (inizialmente rozza, squilibrata).
Sarebbe di scarsa utilità affacciarsi sulla propria interiorità e scoprirvi un panorama di insicurezza, rancori, ansietà, amarezze. Marco suggerisce di attrezzare il rifugio interiore con princìpi tali da comunicare immediatamente un ordine perfetto. I princìpi (Marco lo dimostra continuamente) non sono formule astratte, sono un rallentamento di vita, sono un costante atteggiamento spirituale. Tutto il libro dei Ricordi è un manuale per trasformare il rifugio interiore in luminoso — e vivente — santuario della filosofia. Solo allora esso avrà la funzione rasserenante e ritemprante che Marco promette.
Il ripiegarsi su di sé, come un gatto acciambellato, allude a un viaggio della vita, ad andamento circolare. Si parte dall’io, ancora opaco e inconsapevole, si viaggia nella conoscenza, si torna colmi di ricchezza interiori. Sulle quali, per dirla con Marco, ci si può affacciare felicemente. Tutto ciò è già un viaggio magnifico. Ma esiste un viaggio ulteriore, quello ad andamento lineare, ascendente e dritto come una freccia scagliata contro il cielo. E i] viaggio della suprema iniziazione, che abbandona per sempre il punto di partenza. Potremo dire che l’io si sposta sul Sé e che questo punta a Dio.
Mi piace immaginare che questo sia stato il percorso di Marco Aurelio: egli aveva ricevuto I ‘iniziazione a Eleusi e non era uomo da contentarsi d’una semplice cerimonia, una specie di laurea ad honorem. Colui che da bambino fu sacerdote di Marte, certamente divenne un iniziato perfettamente consapevole dei Misteri.
Quando lasciò i gelidi accampamenti per salire all ‘Oriente eterno, forse Marco mormorava ancora: Tutte le cose sono collegate le une con le altre, e sacro è il filo che le avvince. Uno è il mondo e uno il Dio che tutto pervade (VII,9).
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