d
giovanni Robbia
Se per tutti gli uomini ogni determinazione esistenziale costituisce un dramma di comprensione e di autentica motivazione positiva, quanto più imperscrutabile deve risultare il tentativo di percorrere i momenti del cammino iniziatico di un artista; il dissidio sempre sensibilmente acuto tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte in chi è stato scelto e si è scelto per la ricerca della Vera Luce costituisce il più problematico dei sottintesi: e quando l’eco di qualche passo iniziatico sembra offrirsi all’ assetata volontà di intuizione, solo la poesia raccoglie il grande segreto della parola perduta, si fa vita che affiora insieme all’ infinito caos delle percezioni, che gioca l’ apocalittico mistero dei simboli c delle imrnagini.
Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il poeta trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono incasellati nella . scienza]del dolore…” che mette “verità e lame’ . un conto/di numeri bassi che tornava esatto,/concentrico, un bilancio di vita futura”.
di Gianni Rabbia
L’ artista della parola è ferito, persino per una sorta di suprema vendetta olimpica contro un Prometeo. dal destino del nomen-otnen plautino.
Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del protagonista di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di Victor Hugo pubblicato nel 1831.
In Hugo l’ affronto della bruttezza repellente fa scatenare l’ odio contro l’uanità “normale” mentre il deforme è fatto per disperatamente ed intensamente.
Non dissimile, pur nella banalità di questo accostamento, la concezione essenziale: la vita è una continua purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli proviene da una sorta di ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da quello della Milano del 1943 sicuramente non si esce indenni, anche se superstiti. Ma prima ancora. negli anni della scuola all’Istituto Tecnico “Jaci” di Messina, la vita è un impetuoso correre verso un futuro, magari anche manieristico, di impaziente apprentissage letterario. Così ricorda Salvatore Pugliatti il sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si parlava di letteratura, di poesia, di politica.
Leggevamo Dante, Platone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da Rotterdarn, gli scrittori russi (specialmente Dostojcvskij; ma ci incantava anche Andrejev… c Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”). Leggevamo Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero i nostri numi. Intorno quegli anni —
dal 1917 al 1920 c dopo —a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano e scrivevano di codesti poeti, dei “simbolisti” si diceva genericamente e impropriamente… Serpeggiava tra codesti “simbolisti” messinei una vena di misticismo e di esoterismo. che riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e lontano, caratteri del simbolismo russo”.
Quindi “misticismo ed esoterismo”: sono le vie iniziatiche su cui costruiranno la loro opera Giorgio La Pira e Salvatore Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia degli anni post-bellici e prefascisti al soffocamento del provincialismi è possibile opporre la tensione di un giovanile slancio intellettuale, slancio poi di tutta una esistenza. Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni eccentriche: progetto di poesia la vicenda quasimodiana. un progetto di santità la vicenda lapiriana. Il Poeta e il Santo: due vite parallele nella più piena accezione plutarchiana. Quasimodo il “greco”, l’intellettuale mediterraneo che trasfigura la propria sicilianità a contatto con i miti e con r humus della civiltà classica; La Pira il “romano”, che recupera tradizione e magistero della chiesa cattolica attraverso la lezione del tomismo e del misticismo medievale».
Quasimodo giura sulla sua coscienza di uomo nato libero e di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il grembiale nella officina Arnaldo da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano era stato libero muratore.
Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo, i Vittorini (Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una collocazione professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata con le vie ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo verso nuove mete sociali, economiche. culturali. Mentre il “progresso” batte alle porte di una regione disastrata dagli uomini e spesso anche dalla natura, l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel panorama variegato del decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 — sebbene per pochi anni — aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura latina ed anche dalle cose di Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale misticismo oggettivistico e non è certo difficile trovare nel Pascoli, anche lui Figlio della Vedova, intensi segni di affratellante e sofferto evangelisrno sociale se alcuni passi sono connotabili sotto la dimensione delle iniziazioni politiche, pur con ovvie differenze tra un giovanissimo La Pira
quasi filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.
Per Quasimodo massone, anche nella difficile lezione del suo pensiero di “ermetico”, il concetto di popolo si modifica nel simbolismo talvolta esasperato, alla ricerca di un legame di solidarietà critica con il mondo per mezzo della “intelligenza laica”. ln La Pira la solidarietà si farà celebre con il suo farsi apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con alle spalle i classici greci e latini oppure i classici della teocrazia medioevale. Ma Quasimodo, segnato nei sotterranei della coscienza massonica con minore traccia di umori religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un dcsiderio infinito d’eterna presenza”, sceglie nel 1930 con Acque e terre e nel 1932 con Oboe sommerso la durezza di una diversa valenza spirituale: la parola. Quella che in Oboe sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe mi scarno”. La parola è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che divenga cubica.
Scrive Quasimodo il 19 marzo 1923 a La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro, bestiale ed inutile, confortato soltanto dal tormento dell’anima. Da te aspetto soltanto un po’ di speranza e la parola dello spirito. Salute e fraternità”. E La Pira a Quasimodo l ‘8 dicembre . la potenza della parola. Essa ti serva, soprattutto. per imprigionare l’infinito nei tuoi versi. Sii ladro delle gemme che splendono nella vita eterna; sia che tu le rubi alla natura o al mondo morale. questo furto non dispiacerà la giustizia di Dio. Il verso, io credo. quando è perfetto…. è un brano, ma compiuto. dell’eternità… È per questo che la poesia — l’arte in genere — non perisce; ma sta, malgrado le vicende umane… Penso che tu potresti col tuo verso felice che ti permette di aprire le mistiche cose dell’anima racchiudere brani notevoli di mistero…
E Quasimodo risponde: Si china il giorno Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno, serrato ad ogni luce.
Di te privo spauro, perduta strada d’amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.
T’ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore di carne!
E ancora:
Spazio
Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’ angeli morti sonde.
Mi rompe. Ed è amore alla terra ch’è buona se pure vi rombano abissi di acque, di stelle, di luce; se pure aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.
Per poi gridare: “il Tuo dono tremendo/di parole, Signore/sconto assiduamente».
Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia equalitaria
‘pietra” = parola» = “seme”. La pietra:
Naufrago: e in ogni sillaba m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me stesso brucato dal patire che m’ asserena, profondità d’ amore.
Il seme:
Alberi d’ombre, isole naufragano in vasti acquari, inferma notte. sulla terra che nasce:
un suono d’ali di nuvola che s’apre sul mio cuore: nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli
che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che dorme.
La parola è allora I’ ignis sapientialis, il segno geroglifico e sacrale che può stare tra la “gnosis” e la “pistis” del simbolo e dell’allegoria. Non fu Gi0″anni Scoto Eriugena a coordinarle gerarchicamente, assegnando al simbolo i valori dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento meno certo della storia, della fede e della morale?
Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, in attesa del comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in “Commiato” da Il porto sepolto:
Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso.
Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia con 1a prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione iniziatica. Così per Thomas Mann in LA montagna incantata: “La parola, anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che isola” Quasimodo scopre in sé la vastità di un orizzonte da esplorare:
Le parole ci stancano, risalgono da un’acqua lapidata; forse il cuore ci resta. torse il cuore…
Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido della poesia quasimodiana: E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.
Ancora la dolcezza della voce. anche tragica, dopo il silenzio:
lo pure udivo un urlo talvolta rompere e farsi carne; e batterc di mani ed una voce dolcezze spalancarmi ignote.
Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente interpretata nel suo etimo come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamentc alla concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale c del cosmo: la coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della luce è l’ Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle parole di Lao Tzc, proprio il “silenzio”.
Magistralmente scrive il di Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare o studiare i simboli esteriormente, freddamente… Il simbolo è cammino, appoggio, scala a un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto, esterno a tradursi in simboli. ma il mondo interiore che li porta in superficie. Alla meditazione applicata, agli elementi di un simbolismo iniziatico si connette la filosofia del Silenzio’ .
E quanto per la filosofia del silenzio la massoneria si allinei autorevolmente con la storia delle grandi società iniziatiche ce lo spiega almeno la lunga scuola che viene dal Vêdânta indù e dal taoismo cinese. dallo zen nipponico, dai riti tribali degli aborigeni australiani, dal totemismo degli indiani d • America, dallo sciamanismo delle comunità africane e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di Occidente. La necessità del simbolismo ermetico di Quasimodo, ermetico perché massonico e massonico perché ermetico. aderisce perfettamente ai modi di una poesia che è dell’intimismo e dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo che reclama una vacua e tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi destini. L’ermetismo, nel complesso problema critico sull’ermetismo di Quasimodo, è la ricerca di una via per il linguaggio come canto individuale. Ma l’ermetismo, quando è, non si appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo vale parecchio la cautela di leggerlo “problematicamente”. Non quindi e solo alla insegna di un gusto, per analogie, metafore, sincstesismi, aristocraticanœnte elaborato. alla Rimbaud per intenderci, teso verso l’indefinibile assoluto.
In Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si indaga sulla “poetica della parola”, alla ricerca di un metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un po’ arida della filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della traduzione. alla scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece apprendere da Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle radici e al di sopra del l’ ermetismo: l ‘ acuta sofferenza per uno stato di crisi derivata dalla amara constatazione dell incapacità dell’uomo a raggiungere e a conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine in un universo ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e liberticida, l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo. la sconsolata aspirazione a qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana esplorazione dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli strati più profondi, oscuri e magari irrazionali, l’unificazione soggetto-oggetto, la esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di rivolta nei confronti di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza. ragione di vita e soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono solamente scalpellate nei parametri dell ‘ontologia.
Poetica della parola, e non nominalismo. Ancora Macrì scrive: “La parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale, il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta I ‘interna corrente della ispirazione e del “pathos”.
Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il ridere della gazza, nera sugli aranci, “forse è un segno vero della vita”, bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel “forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà “La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:
Poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento.
Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia come . la ricerca di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca impetuosa dell’uomo”.
Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia è via alla verità, colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In una parola: il grande Sapiente.
Ma proprio quando il sentimento della solitudine sembra scavare nel profondo della vocalità, si assiste con Quasimodo ad una evoluzione che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia non stravolge il percorso intellettuale, morale, artistico del poeta, che ha ben viva la lezione massonica.
La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una violenza estrema… La poesia della nuova generazione. che chiameremo sociale, aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni” Montale, in Satura, canterà:
Le parole preferiscono il sonno nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute, imbalsamate, ibernate, le parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari perché c’è sempre il marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più rari.
Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La pietà”.
Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per cadere in servitù di parole?
Amore, ansia religiosa, nostalgia per il mito di una Sicilia dell’infanzia non sono più i temi chc da soli bastino a cantare la condizione csistenziale. Si apre la poesia. massonicamente nutrita, verso una dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di impegno per tutti.
La poesia ha quindi una possibilità in più. quella rigenerativa come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino. cammino appunto iniziatico, della redcnzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.
Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa in mezzo a un cataclisma come la — alla narrazione: si è ispessito l’impegno di Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.
Ma neppure con questa nuova spinta ideale il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasimodo crede di poter contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema autenticamente antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal linguaggio alla comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica delle realtà sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano è sottolineato non solo con i caratteri di una trasformazione stilistica o con un approfondimento tematico: il poeta è il politico. ma con l’avvertenza che nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E allora la traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente massonico, tanto che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai bombarda
menti — lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi nell’uomo: non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi esalta la necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma comc filtro interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vitlima di uno scontro con la famigerata banda Corridoni e vive dopo l ‘ 8 settembre in una Milano babilonica, tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è dei poeti nei momenti tragici: mentre si ITIuore ed anch’ egli lotta per sopravvivere, traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella geenna milanese non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire la poesia:
Le spie non possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con gli amici, né dire parole al cuore di nessuno.
La guerra e le traduzioni fanno ben capire come non vi possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino dal punto di vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più profondo del verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento. un ricordo: il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di esule. Così egli è tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in nome di una umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono nell’epico. Con in più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco letterario, rimanendo legato al mondo classico.
“Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”. Così scrive nel 1946, a pochi mesi dalla sua iscrizione al partito comunista italiano, con una evidente coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed il politico. in un clima in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano le più attente ed attrezzate nel perseguire una politica culturale.
Il dibattito fu — come è ben noto — intenso; la formazione solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in rotta di collisione con le teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano soprattutto su Rinascita. Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che portò alla chiusura de Il Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di cultura che non intende suonare il piffero della rivoluzione. trova oià disimpegnato Quasimodo da questa sua militanza politica. Avere “esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell ‘ uomo da scorgcrc nell’ uomo”, essere “proprio dello scrittore saper scorgere, forsc accanto alle esigenze che pone alla politica quell’in più delle esigenze che pone la politica”. sono le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto Quasimodo massone, un individualista come solo un poeta può esserlo, che finisce amarxista per esserc più profondamente un “liberal”, un democratico che vede nel socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione etica. ma da cui esige di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità di gesti e di espressioni, i molti distinguo.
La ripresa post-bellica dci lavori nellc officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore. Collabora a MilanoSera, Rinascita. L’ Unità, ma firma con prontezza una petizione in favore dello scrittore ungherese Tibor Déry imprigionato nell’ Ungheria del 1956 invasa e calpestata dai carri armati russi, lo stesso scrittore che aveva patito nel 1919 il carcere per aver partecipato al tentativo rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene l’alta testimonianza di una solidarietà, per questo come per noolti altri casi. che trova il suo coronamento nel discorso da lui pronunciato per il
premio Nobel, dal titolo appunto “Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe ozioso, davanti a questo consesso, tentare di sottolineare la valenza massonica di un premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.
Il Nobel al massone Carducci ( 1 906), al massonc Marconi ( 1 909), quello di Pirandello (1934). con la parentesi della Deledda (1926) (non a caso assegnato ad una donna proprio nei momenti in cui il regime fascista iniziava a battere la grancassa della guerresca vitalità virilistica) sono una lontana ipoteca ad un riconoscimento da offrire ad un italiano e massone. a distanza di un quarto di secolo.
Una esplorazione. disorganica e mutila come questa, non può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui. costanti momenti di massonismo echeggianti nella c dalla poesia di Quasimodo; questa irrinunciabile ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario ha dimostrato nel modo più alto. con l’ansia della ricerca e la lotta del dubbio, che la poesia ha un futuro, anche al di sopra della storia, proprio come la massoneria. Come la massoneria, la sua poesia soffre sc viene applicata c derivata dai singoli momenti della cronaca. In entrambe circola il respiro del bisogno dell’amore come irriducibile resistenza della vita contro la morte, con la densità energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra il contingente c l’eterno, l ‘ io e il tutto. che impediscono la generosa consapevolezza del colloquio tra gli uomini.
Come dice il poeta:
La vita è senza fine. Ogni giorno è nostro…
E l’uomo che in silenzio s’ avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di geranio.
Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo, poeta: la personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno dei nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce, dell’esistenza vissuta in una luce d’amore.
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