VOLTAIRE

du Amarilli

  • Nella valutazione complessiva di tutta la lunga vita di Voltaire nonché della sua articolata e ponderosa opera, si può osservare un aspetto di esse poco considerato anche se non precisamente marginale, e cioè il rapporto che ebbe con il potere suo proprio o di altri nei suoi confronti, considerato come influenza prepotente sul comportamento di altre persone o sul modo di pensare di esse.

In realtà Voltaire, come vedremo, ebbe un lunghissimo tirocinio durato molti anni, nel quale educò la facoltà principale con la quale poté infine esercitare un suo personale potere e cioè il suo formidabile intelletto, mentre per tutta la vita ebbe in odio l’abuso del potere meramente materiale.

Già a 18 anni dopo la rappresentazione dell’«Œdipe il cui successo gli valse l’ingresso nell’alta società, ebbe a sperimentarlo grazie al Cavaliere di Rohan che, infastidito dai suoi sarcasmi, lo fece bastonare dai suoi servi. Come risarcimento Voltaire, che aveva osato sfidarlo a duello, fu rinchiuso per sei mesi alla Bastiglia. Irritato contro un paese dove il privilegio poneva tanta diversità tra gli uomini (e dopo lo scarso successo della «Henriade») emigrò in Inghilterra dove i suoi talenti letterari trovarono un largo riconoscimento e gli procacciarono appoggi finanziari da parte del Re Giorgio I e della Principessa del Galles.

Dopo il suo esilio dalla Francia la vita di Voltaire si può dividere all’ incirca in quattro periodi: il suo soggiorno in Inghilterra, decisivo per la sua formazione intellettuale, il suo soggiorno presso M.me du Châtelet; la sua permanenza presso il Re di Prussia e la sua apoteosi finale di grande apostolo della tolleranza e di formatore di tutto il pensiero illuminato occidentale dell’epoca. Il soggiorno ingl+e determinò la sua carriera di filosofo e di polemista: egli penetra, vivamente ricercato per il suo spirito libero, nel circolo di Lord Bolingbroke qui frequentando Pope e Swift e studiando a fondo Newton. Tornato sul continente si stabilisce in Lorena presso la Marchesa du Châtelet e con essa, dama d’ingegno e spirito appassionato di certezze scentifische, approfondisce la matematica, la geometria, la meccanica e la fisica e qui scrive «Les elements de la philosophie de Newton» e le «Lettres sur les Anglais». E questo il periodo decisivo della sua formazione mentale: cessa di essere un talento puramente artistico e letterario e diviene un polemista formidabile cominciando la sua battaglia teista contro i teologi e storici ortodossi.

Nel 1740, intraprende un viaggio alla corte di Federico Il, ove tenta di stabilire contatti diplomatici d’alleanza tra Francia e Prussia contro l’Austria. Quindi, grazie a M.me de Pompadour, entra tra gli Immortali dell’Accademia di Francia, poi, nel 1750, alla morte di M.me du Châtelet, si trasferisce a Berlino presso Federico II il re che attirava presso di sé i più brillanti ingegni scentifici d’Europa e qui, provvisto di una congrua pensione, occupa l’appartamento accanto al Re e riceve un’accoglienza straordinaria.

Durante questo periodo Voltaire è quanto mai vicino all’esercizio più assoluto del potere e crede di poterne influenzare le scelte attraverso il dominio della ragione. Bruscamente però scoppia la rottura: gelosia e pettegolezzi intorbidano i rapporti tra il Re e il filosofo che sollecita ed ottiene il suo congedo.

Tornato in Francia attraverso varie peripezie, e dopo essere stato arrestato a Francoforte, non vi trova tutta la libertà di cui ha bisogno e, anche se adulato da grandi e da ministri, nel 1759 va a stabilirsi a Ferney assieme a sua nipote, M.me Denis.

In quel tempo non era permesso a nessun cattolico stabilirsi a Ginevra né nei Cantoni protestanti svizzeri ma, con un atteggiamento sintomatico nei confronti del potere costituito, egli volle « acquistare terra nei soli paesi della terra ove non è permesso averne».

Arricchito ormai da lauti guadagni, pensioni e provvigioni pagategli da vari principi d’Europa, egli poté installarvisi da gran signore, tenere una propria corte e divertire gli ospiti con ingegnose e riuscite rappresentazioni teatrali. La sua fama è arrivata al colmo, i sovrani e l’alta nobiltà gareggiano nel corteggiarlo ed il suo intervento nei processi Calas («Traité sur la tolerance») e La Barre ha per conseguenza di ottenere la revisione di ingiuste sentenze. L’opera capitale di questo periodo è il «Dictionnaire philosophique», i} testamento intellettuale di Voltaire, la sua battaglia di mezzo secolo contro l’intolleranza, il fanatismo, l’autorità, i dogmi, il miracolo, le falsificazioni delle leggende e delle tradizioni.

Nel frattempo la cacciata dei Gesuiti dalla Francia e dalla Spagna ha privato l’ortodossia del suo più valido baluardo: Voltaire non parla più da sbandato oppositore, ma da capopartito e da membro della società dei teisti e dei’ Liberi Muratori, anche se la sua iniziazione alla Massoneria avverrà solo alla vigilia della sua morte.

Da Ferney egli regna. Negli ultimi venti anni della sua vita Voltaire diventa il riconosciuto pontefice dei lumi della tolleranza e della filantropia.

Dal suo comodo castello, irraggiungibile alle persecuzioni dei governi, corrispondente ricercato di monarchi, principi e primi ministri, egli instaura nel mondo la sovranità tutta nuova dell’opinione e dell’intelletto. Da Ferney egli dirige la battaglia sempre più accanita contro i Gesuiti e a favore delle libertà giurisdizionali, incoraggia e stimola gli enciclopedisti di Parigi e cementa la compattezza della dilagante organizzazione dei Liberi Muratori. Inoltre moltiplica le esortazioni e gli incitamenti ai ministri delle corti di Francia, di Spagna, di Prussia e d’Austria dirette a «écraser l’infame», corrisponde fittamente con il Re Cristiano di Danimarca, con il Conte di Aranda, con i Duchi di Choiseul e di Richelieu, con Federico il Grande, ritornato suo amico e ardente estimatore.

La lotta in favore della tolleranza e dei lumi si fa sempre più intensa e serrata: egli che aveva dedicato «Mahomet» al Papa Benedetto XIV, ora lancia strali polemici sempre più affilati contro il Cristianesimo, esercita il suo impero filosofico su mezza Europa; Federico II e Caterina di Prussia s’inchinano (per lettera) al sovrano signore della opinione; il Re Cristiano, la Duchessa di Sassonia Gotha, la Margravia d’Assia, il Duca di Richelieu, sollecitano la sua approvazione e il suo consenso alle loro riforme legislative: un suo epigramma o una sua lettera colmano di gioia i circoli aristocratici illuminati delle capitali europee. Il «morente» di Ferney sembra inesauribile di brio, d’invenzione, d’eloquenza seria e di grazia frivola.

Infine cedendo alle pressioni degli amici, nel marzo del 1778 si reca ad assistere a Parigi alla rappresentazione dell’«lrène»: un delirio immenso circonda la sua persona: la sua fibra soccombe sotto il peso degli allori e a Parigi egli muore il 30 maggio 1778.

Roma e il Rinascimento – Parte Seconda di Amarilli

Il primo atto del Pontefice dopo il suo ritorno a Roma fu la promulgazione — 18 luglio 1511 — della Bolla Sacrosantae, con la quale convocava un concilio generale nella Basilica del Laterano, e colpiva con anatemi tutti coloro che avrebbero partecipato alla riunione scismatica di Pisa. Era come gettare lo scompiglio fra i dissidenti e privarli di ogni pretesto di agitazione. Da quel giorno, infatti, il concilio di Pisa — il «conciliabolo» come lo si volle definire — perdette ogni ragione d’essere, canonica o logica, ed ebbe un’esistenza fittizia e faziosa. Composto quasi esclusivamente da francesi, ripudiato dalla maggior parte del mondo cattolico, malvisto dalle popolazioni delle città dove avrebbero tentato di riunirsi, passerà successivamente da Pisa a Milano, da Milano ad Asti, da Asti a Lione, e finirà di scomparire fra le nebbie del Rodano. Si sarebbe potuto credere che dopo la catastrofe di Bologna Gian Giacomo Trivulzio avrebbe colto un’occasione così favorevole per marciare direttamente su Roma, ma si fu ben presto rassicurati. Lontano dal voler spingere la sua vittoria fino all’estremo limite, Luigi XII richiamò il suo maresciallo a Milano ed inviò un parente prossimo del Papa, un Orsini, con proposte di pace per il Vaticano, proposte stranamente moderate. E che, malgrado il sinodo di Tours, gli scrupoli di Chaumont erano condivisi da molti. E pure, troppo vincendo e troppo estendendosi in Italia, il re cristianissimo rischiava di risvegliare la gelosia e la coscienza di altri principi cattolici. Già l’anno precedente, a Blois, ove si trovava in missione presso la corte di Francia, Machiavelli, non certo sospetto di tenerezza verso il papato, aveva fatto la maliziosa osservazione «che non c’era un pretesto più honesto da usare contro un principe che dichiarare di voler difendere contro di lui la Santa Chiesa e che il re, in questa guerra, potrebbe tirarsi addosso tutto il mondo».

Giulio II colse sollecitamente l’apertura francese, ma solo per guadagnare tempo, ricomporre la sua armata, confermare il patto con gli svizzeri e negoziare con tutti gli Stati ostili alla Francia, specialmente con la Spagna e l’Inghilterra.

* Per la prima parte v. Delta 35, p. 37 sgg.

I negoziati furono condotti con una velocità sorprendente per l’epoca. Al termine di sei settimane, verso la metà di agosto, gli articoli principali della Santa Lega erano già fissati ed attendevano soltanto la ratifica solenne.

Per il resto nulla di cambiato nella vita del Papa durante queste sei settimane critiche, angosciose. I suoi pasti sono sempre molto abbondanti, copiosamente innaffiati da un certo vino forte e spesso; va a caccia, prende fresco nelle ville dei dintorni. «E una cosa terribile como manza Sua Santità», scrive il 12 luglio 1511 un certo Grossino a Isabella Gonzaga marchesa di Mantova. (Grossino era domestico di suo figlio Federico, che viveva allora a Roma ed era alloggiato al Belvedere) (Ludovico Domenichi, Facetie, motti e burle, Venezia 1584). In una delle camere decorate per lui da Raffaello, il Papa si è fatto rappresentare da un lato mentre assiste alla messa in ginocchio, e dall’altro al ritorno dal Belvedere, portato dai palafrenieri. Questo secondo ritratto era molto più colorito del primo, e per questa diversità molti criticarono l’opera di Raffaello. Ma Marcantonio Colonna rispose che si sbagliavano tutti e che Raffaello «aveva servato bene il decoro essendo il papa sobrio alla messa e colorito al ritorno dal Belvedere, dopo aver bevuto in compagnia del signor Federico, Sua Santità era pieno di allegria ogni volta che abbatteva un grosso fagiano; lo mostrava allora a tutti, parlando e ridendo molto…» «Oggi 25 luglio il papa è andato alla vigna di messer Agostino Chigi (La Farnesina) e lì è rimasto tutto il giorno, vi ha dormito e pranzato. E un bel palazzotto ma non è ancora finito, molto ricco di ornamenti vari, soprattutto di marmi magnifici e di diversi colori. Il signor Federico ha mangiato con il papa ed ha recitato per lui una egloga latina Era già la seconda visita che il papa faceva in quel mese al fortunato proprietario del palazzotto e si pensa che queste visite non fossero del tutto disinteressate. A quell’epoca il papa ha avuto dal potente banchiere senese un prestito di quarantamila ducati, lasciandogli in pegno la celebre corona pontificia di Paolo II, IL REGNO, come la si chiamava per eccellenza. Ora è precisamente nell’intervallo fra queste due visite che Grossino scrive alla marchesa di Mantova, senza nulla sapere della transazione finanziaria: «Sua Santità prova gran piacere a contemplare i gioielli: ieri si è fatto portare da Castel Sant’Angelo i due REGNI, uno del valore di duecentomila ducati e l’altro di centomila. Credo che non vedrò mai più gioielli così belli, con tante perle e pietre preziose…

L’anno seguente, dicembre 1512, Giulio II, vittorioso e trionfante, esigerà la restituzione del suo REGNO, semplicemente incaricando il bargello d’impossessarsi del pegno e, in mancanza di ciò, della persona stessa che lo deteneva. Messer Agostino Chigi dovette constatare in quel giorno che i prestiti di Stato, anche se su pegno, non costituiscono il più sicuro degli investimenti.

Al suo rientro a Roma Giulio Il pensa spesso alle sue collezioni. Si occupa della sistemazione delle sue anticaglie nello splendido cortile costruito dal Bramante. «Il Papa, — dice una lettera di Grossino del 12 luglio — ha fatto mettere al Belvedere un Apollo che è giudicato bello come il Laocoonte». Più tardi fa trasportare «Il Tevere» (oggi al Louvre) e la « Cleopatra». Durante questo stesso mese di luglio posa per il suo ritratto nell’affresco dei «DECRETALI», il 16 agosto Grossino parla già incidentalmente della «camera dove Sua Santità è dipinto da Raffaello al naturale con la barba»; va a vedere i lavori di Michelangelo alla Sistina e ottiene dall’artista che con l’avvicinarsi della grande festa della Vergine la cappella sia temporaneamente liberata dalle impalcature e resa al culto.

Il 17 agosto, dopo una caccia a Ostia, il Papa viene colpito da febbre perniciosa. Lo si crede perduto. La notizia della sua morte si spande nella città, ed allora si verifica un fatto strano, fantastico. Gli eredi dei grandi nomi feudali — Colonna, Orsini, Cesarini, Savelli ecc. — salgono in Campidoglio ed invitano il popolo romano a riprendersi le sue antiche libertà. In una arringa appassionata e caratteristica dello spirito che animava questa ipocrita rivendicazione dei diritti del popolo, il giovane Pompeo Colonna, vescovo di Rieti, abate di Subiaco e di Grottaferrata, (è lo stesso Pompeo Colonna che più tardi, come cardinale, prelude con l’imboscata del 20 settembre 1526 al grande sacco di Roma) — rintraccia il vergognoso regime èotto il quale è caduta la gloriosa repubblica che un tempo ha dominato il mondo. Già i due conservatori di Roma, Altieri e Stefaneschi, propongono il ripristino della Repubblica, il riarmo del popolo e l’occupazione di Castel S. Angelo, quando improvvisamente arriva dal Vaticano la notizia che la supposta agonia del Papa non era che una sincope e che il rabbi (il medico ebreo di Sua Santità) dà ancora delle speranze. Subito la piazza si svuota, i nobili tribuni si disperdono in tutte le direzioni. Pompeo Colonna cerca rifugio a Subiaco, Orsini fugge in Francia.

Si era cercato di nascondere al Papa la folle giornata del Campidoglio, tuttavia ne venne a conoscenza; seppe anche che molti cardinali (Grossino ne conta sino a 15) facevano parte del complotto dei baroni. Eppure, questi baroni romani li aveva liberati dalla sanguinosa tirannia dei Borgia e più d’uno di questi Colonna e Orsini gli erano vicini per legami familiari. E che dire di quei membri del Sacro Collegio di cui alcuni prendevano apertamente parte al «conciliabolo» di Pisa e di cui altri ammutinavano la città contro il Sovrano Pontefice! Egli si vedeva tradito da coloro che più gli dovevano gratitudine e affetto. Il suo più prossimo parente, il duca di Urbino, lo aveva dovuto scomunicare e sottoporre a giudizio per un crimine spaventoso. Sentendosi prossimo alla fine lo aveva assolto e riammesso al suo capezzale, senza tuttavia cessare di diffidare di lui sino alla fine.

Dei volti che circondavano il suo letto di dolore uno solo non gli fu sospetto: quel giovane Federico, il cui nome è stato spesso pronunciato, ma del quale rimane ancora da spiegare la presenza al Belvedere. Francesco Gonzaga, marchese di Mantova e uno dei capi della Lega di Cambrai, era stato fatto prigioniero dai veneziani nella battaglia di Legnano nell’agosto 1509. Sua moglie, la celebre Isabella d’Este Gonzaga, dopo essersi rivolta a tutti i potenti della terra — all’imperatore, al re di Francia, fino al Gran Turco — finì per comprendere che solo Giulio II godeva sufficiente credito presso la Signoria di S. Marco per ottenere la liberazione del temuto capitano. L’ottenne infatti, nel luglio 1510. Ma Isabella aveva prima dovuto consentire che suo figlio Federico, di 10 anni, dimorasse presso il Papa come ostaggio, garante della futura condotta del marchese. Non c’è da indignarsi della mancanza di generosità del Papa! Il «cavalleresco» Massimiliano e Luigi XII Padre del Popolo avevano fatto alla povera madre la stessa richiesta impietosa, come traspare dalle sue desolate lettere. Questi uomini del Rinascimento prendevano le loro precauzioni.

Nell’estate del 1510 il piccolo Federico venne dunque a Roma con molti domestici (Grossino vi faceva parte); alloggiò al Belvedere presso il Papa, e nulla venne risparmiato onde ricevesse la più brillante educazione, secondo le idee del tempo. Educazione ben singolare, tuttavia, come risulta da una lettera di Stazio Gadio al marchese di Gonzaga (11 gennaio 15 13) in merito ad una cena presieduta dalla signora Albina, cortigiana romana, alla quale assisteva Federico, allora di appena dodici anni.

Il Della Rovere nutrì grande affetto per il fanciullo. Lo fece venire a Bologna per qualche mese, durante la campagna della Mirandola. Bibbiena e Molza furono i suoi precettori. A Roma lo conducevano alle loro caccie, nelle loro villeggiature, gli facevano recitare versi durante i pasti, giocavano con lui al tric-trac a volte fino alle quattro del mattino. Al Papa dispiaceva di non avere una nipote per fargliela sposare più tardi. «Sua Santità ha detto che vuole che Raffaello faccia il ritratto del signor Federico nella camera in cui è rappresentato in grandezza naturale con la barba» — scrive Grossino il 16 agosto, vigilia del giorno in cui il Papa fu colto dal suo pericoloso accesso di febbre. Giulio II non è mai stato un malato rassegnato e docile: lo fu meno che mai durante questa crisi del mese di agosto 1511, che l’aveva colpito a seguito di tante scosse. Si dimenava, bestemmiava, minacciava di scaraventare i medici e le medicine dalla finestra: «Ebrei marrani e miscredenti». Rifiutava ostinatamente ogni cibo, e si dibatteva con una violenza che era la disperazione di chi gli stava intorno. Solo il piccolo Federico riusciva a calmarlo, a farlo ragionare, a fargli ingerire un brodino, per amor suo e della Madonna di Loreto «Sunt lacrimae rerum». E il pensiero si ferma emozionato di fronte a questo pontefice terribile che, nella sua estrema disperazione, non si arrende che alle preghiere di un fanciullo di undici anni, suo prigioniero, suo ostaggio.

A Roma si dice ad alta voce che se il Papa la scampa lo deve al Signor Federico (Julian Klaczro, Roma e il Rinascimento).

Egli la scampa. Il 30 e il 31 agosto si faceva già musiëa nella sua stanza ed egli la gustava come non mai. Si ristabilì poco a poco ed allora molti cardinali incominciarono a tremare. Lo si deduce dall’estratto di una incredibile lettera inviata il 7 settembre 1511 alla marchesa di Mantova da Ludovico Canossa, vescovo di Tricarico: «La morte di Perottino (un piccolo cane che aveva regalato alla marchesa) mi ha causato un grande dolore: avevo tuttavia sperato di potermene consolare con la morte di un altro cane, molto meno utile al mondo». «Essi morivano man mano ch’egli ritornava in vita», scrive il protonotaro Lippomano.

Tuttavia, né allora né dopo il papa cercò gli autori della farsa capitolina né pensò di vendicarsi. Non pensa che alla sua grande impresa contro Luigi XII. E il 5 ottobre può finalmente celebrare una messa solenne a S, Maria del Popolo e annunciare la formazione della Santa Lega. La Lega si dichiarava contro il concilio di Pisa e si impegnava a restituire immediatamente alla Santa Sede «tutti i luoghi che le appartenevano». Il trattato aveva ricevuto la firma del re cattolico e della Repubblica di S. Marco, l’adesione del re d’Inghilterra era assicurata, e come ultimo tratto stucchevole, la facoltà di entrare nella nuova alleanza era espressamente riservata all’imperatore, l’impagabile Massimiliano, che in quel momento sognava di cingere la tiara! Giulio II conosceva bene il suo uomo: «E semplice come un bambino appena nato», aveva detto di lui già nel 1509, all’ambasciatore di Venezia.

La Francia invasa a sud dagli spagnoli, a nord dagli inglesi, e le sue forze militari in Italia schiacciate sotto l’attacco simultaneo degli svizzeri, dei veneziani, dei soldati del papa e di quelli del viceré (spagnolo) di Napoli: questo il seducente quadro che si presentava al Della Rovere in questo mese di ottobre 1511.

Gli inizi della Lega, tuttavia, furono ben lontani dal rispondere a queste speranze. Gli svizzeri tradirono, proprio come l’anno precedente, malgrado le promesse fatte e gli acconti ricevuti. Discesi dal San Gottardo a metà novembre in numero di ventimila, erano avanzati senza ostacoli fino alle porte di Milano. Ma, attratti dal denaro francese, col pretesto che mancavano i cannoni, del ritardo del soldo, delle condizioni disastrose delle strade e del rigore della stagione, riattraversarono le Alpi da Bellinzona (27 dicembre). I veneziani; dal canto loro, invece di raggiungere celermente gli svizzeri al loro arrivo in Lombardia, persero del tempo prezioso a disputare agli imperiali qualche piazza insignificante nel veronese. Enrico VIII d’Inghilterra ripudiava, è vero, il Concilio di Pisa, e dichiarava di avere in orrore quello che da vicino e da lontano assomigliava ad uno scisma (era lo stesso Enrico VIII che dopo…): voleva tuttavia ricevere un ultimo acconto della pensione annuale che la Francia gli doveva in virtù del trattato di Etaples. Infine, Ferdinando il Cattolico nulla fece sui Pirenei e il suo luogotenente a Napoli, Cardona, si rimise in marcia troppo tardi per andare ad assediare i Bentivoglio a Bologna in accordo con le truppe della Santa Sede. L’orizzonte per Giulio II si incupiva sempre più, ed i romani prevedevano una rivincita francese in primavera.

In effetti, Luigi XII aveva tenuto un atteggiamento di attesa durante i primi mesi della Santa Lega, e nel dicembre 1511 aveva preferito servirsi più dell’oro che del ferro per portare gli svizzeri a Bellinzona. Ma non intendeva per questo sottomettersi alle esigenze di una coalizione che si dimostrava così lenta ad agire. Continuò l’opera del «conciliabolo», fece stampare una medaglia con la scritta «Perdam Babylonis nomen! » e influì sull’opinione pubblica a mezzo di scrittori da lui prezzolati. Durante il carnevale del 1512, quando l’armata francese in Italia riprendeva l’offensiva contro i papali, «Les Enfants sans Souci» rallegrarono il pubblico parigino con una rappresentazione che aveva per titolo «L’uomo ostinato», e per autore Pierre Gringoire, panfletista ordinario di Sua Maestà Cristianissima. L’uomo ostinato era Giulio II, che compariva sulla scena affiancato da Simonia e Ipocrisia, mentre la Punizione teneva la folgore sospesa sulla sua testa. Sul teatro della guerra il ruolo di Punizione toccÒ ad un giovane ventitreenne, che si rivelò improvvisamente un eroe. Secondo la magnifica definizione del Guicciardini «fu grande capitano prima ancora di essere soldato». Gaston de Foix non attese la bella stagione per sbloccare Bologna (15 febbraio 1512), trionfare e morire nell’epica giornata di Ravenna (11 aprile). A due leghe dall’antica capitale di Teodorico e di Galla Placidia, un piccolo monumento indica il luogo di questa battaglia memorabile, la più sanguinosa che l’Italia avesse conosciuto dalla caduta dell’impero. Un terzo dell’armata vittoriosa e due terzi dell’armata vinta perirono nella domenica di Pasqua del 1512. Si dice che ad un certo momento di questa terribile mischia la formidabile artiglieria del duca di Ferrara avrebbe fatto carneficina senza distinzione di francesi e spagnoli, amici e nemici e che, ad una osservazione rivoltagli a questo riguardo il prezioso alleato di Luigi XII avrebbe risposto: «Lasciate fare, il nemico si trova sia da questa parte che dall’altra». Ariosto avrebbe visitato i luoghi il giorno successivo alla carneficina:

Io venni dove le campagne rosse eran del sangue barbaro e latino che fier a stella dianzi a furor mosse; e vidi un morto all’altro sì vicino che, senza premer lor, quasi il terreno a molte miglia non dava il cammino,

Il fiore della cavalleria francese fu falcidiato. Il re aveva vinto ma la nobiltà francese aveva perso. Dalla parte della Santa Lega quasi tutti i capitani della nobiltà furono fatti prigionieri: Fabrizio Colonna, Pedro Navarro, Juan Cardona, Pignatelli, Bitonto ed il marchese di Pescara, lo sposo così tenacemente amato (e mediocremente simpatico) da Vittoria Colonna, e futuro vincitore di Francesco I a Pavia. Fra i prigionieri si trovava anche il nuovo Legato per la Romagna (succeduto ad Alidosi) e il cardinale Giovanni De Medici. Entro un anno sarà Leone X. Ha assistito all’azione in groppa ad un cavallo bianco, in abito sacerdotale. E su questo stesso cavallo che vorrà fare il suo famoso giro di possesso nel 1513. E stato dipinto da Raffaello nell’affresco di Attila.

A Roma il terrore fu indicibile ed i cardinali si recarono in gruppo dal pontefice per implorarlo in ginocchio di accettare le condizioni della Francia. «Sua Santità ha fatto molto per l’esaltazione della Chiesa e la libertà d’Italia, e la sua gloria sarà imperitura. Ma in questa impresa la volontà divina gli è stata contraria e si è manifestata con dei segni che non si possono misconoscere. Perseverare più a lungo contro la sua volontà sarebbe portare la chiesa alla totale rovina…

I membri del Sacro Collegio, prosegue il Guicciardini, insisterono anche sui gravi pericoli all’interno, sulla crescente turbolerrza dei baroni ed il malumore delle folle.

Da metà marzo, in effetti, il papa aveva ritenuto prudente andare ad abitare a Castel S. Angelo. Dovette promettere di iniziare i negoziati con il re cristianissimo: ma prevenne subito gli inviati di Spagna e della Repubblica di S. Marco che egli non cercava che a guadagnare tempo e che restava indissolubilmente attaccato alla Lega. Eppure, poche settimane dopo la grande contestazione dei cardinali, Luigi XII non possedeva più un solo villaggio nella penisola e Giulio II prendeva il titolo di liberatore d’Italia. La trattativa dell’«Uomo Ostinato», così mal riuscita nell’autunno 1511, fece meraviglie nella primavera del 1512. Ventimila svizzeri discesero nuovamente dalle loro montagne, ma nel veronese questa volta, lontani dal denaro tentatore dei francesi e nel mezzo dei veneziani che avevano fretta di lanciarsi contro il nemico (maggio 1512). Per non essere privato della sua base al nord l’armata di Gaston de Foix, comandata ora da La Palice, dovette evacuare in tutta fretta la Romagna e riguadagnare la Lombardia. Ben presto abbandonava anche questa provincia per correre, sperduta, decimata, in difesa del suolo francese invaso nella Navarra dagli spagnofi, e in Normandia dagli inglesi.

L’annientamento così improvviso e totale della potenza francese in Italia, all’indomani della straordinaria vittoria a Ravenna aveva del prodigioso. La cronaca personale del maestro delle cerimonie alla corte vaticana è una testimonianza preziosa, più probante di qualsiasi cronaca o panegirico del tempo. Questo scrivano del protocollo e dell’inventario cambia improvvisamente stile quando inizia il capitolo «De Gallis expulsis». Si esalta, esulta, deborda; lancia grida di gioia selvaggia ad ogni rovescio di questi Galli «barbari, profanatori del tempio, vero flagello della cristianità». Sotto i colpi di un tale disastro la Francia perde tutti i suoi partigiani nella penisola: Bologna caccia ancora una volta i Bentivoglio; Milano acclama nuovamente il nome degli Sforza, già così aborrito, Genova quello dei Fregoso. «E la natura di questo popolo d’Italia di così compiacere ai più forti» aveva detto Commynes, il grande conoscitore d’uomini e di nazioni, morto l’anno precedente. Anche il duca di Ferrara non elude questa regola: munito di un salvacondotto si reca il 23 giugno a chiedere l’assoluzione a Roma. La presenza nella città eterna dello scomunicato nel 1510 non mancò di produrre viva impressione, Si sapeva che Alfonso d’Este era uno dei capitani più coraggiosi dell’epoca. Si giungeva persino ad attribuirgli la gloria della giornata di Ravenna, ma si sapeva anche che nessuno più di lui aveva fatto tanto per attirarsi l’odio del Papa. Era il genero di Alessandro VI, il cliente di Luigi XII, e nel corso di due anni aveva avuto una larga parte in tutte le sconfitte ed umiliazioni del Papa. Si raccontava che aveva fatto fondere la statua di Giulio II a Bologna, opera di Michelangelo, trasformandola in un pezzo di artiglieria. L’aveva battezzata Giulia e collocata nel suo castello a Ferrara. Così i romani si ripromettevano uno spettacolo straordinario il giorno dell’assoluzione del duca: avrebbe ricevuto le vergate alla porta della basilica, in ginocchio, la corda al collo e in camicia da penitente, Ma la folla, che sin dal mattino aveva gremito l’immensa piazza San Pietro venne crudelmente delusa: la cerimonia avvenne all’interno del Vaticano, nella forma meno crudele possibile.

La questione politica era ben più difficile poiché Giulio II manteneva sempre il diritto della Santa Sede sui territori ferraresi. «Ho dato al Duca un salvacondotto per i suoi Stati» dice all’inviato veneziano Foscari. Fu delegata una commissione di sei cardinali per trattare questo punto delicato con Alfonso d’Este. Nell’attesa costui riempiva il suo tempo esaminando le bellezze della città, fra cui «le camere di Papa Alessandro che sono tutte molto belle », e che dovevano avere un interesse particolare per il marito di Lucrezia Borgia. «Andò un giorno, con il permesso del Papa», (è sempre Grossino che scrive) «a visitare la Cappella Sistina e il Duca si intrattenne a lungo con Michelangelo a guardare queste figure, non potendo saziare i suoi oc-

Al termine di quindici giorni improvvisamente si impaurì e fuggì da Roma, protetto dai Colonna. Sosteneva che il Papa minacciava la sua libertà, ciò che Giulio II ha sempre negato. Ma dopo un simile evento, reso più grave dall’intervento dei Colonna, il pontefice non ebbe più il minimo riguardo verso l’uomo di cui aveva imparato a conoscere il cuore atroce, implacabile. Non si sa cosa esattamente abbia fatto il fuggiasco durante i tre mesi che seguirono la, sua evasione, né per quale via sia rientrato nel suo ducato. Una lettera del]: Ariosto, suo compagno di viaggio, ci dice solamente che il 1 0 di ottobre era nascosto da qualche parte nei dintorni di Firenze.

Il cantore delle dame, dei cavalieri, delle          e degli amori ha decisamente avuto sfortuna con il grande papa ligure. Aveva compiuto presso di lui diverse missioni: nel 1509-1510, nell’interesse del duca Alfonso e di suo fratello, il cardinale Ippolito, ma né le persone né le cause da lui perorate erano di tale natura da guadagnargli il favore del papa: gli venne addirittura intimato un giorno di lasciare immediatamente la città, sotto pena di essere gettato nel Tevere. Ritornato due anni più tardi sui bordi inospitali di questo fiume con il suo principe invocante l’assoluzione, dovette seguirlo nella sua precipitosa fuga di cui parla in una lettera del 1 0 ottobre 1512 diretta al principe Luigi Gonzaga: «Sono uscito da cespugli e tane di animali, ed eccomi in un ambiente umano. Dei pericoli corsi non posso ancora parlare. Non mi ha ancora lasciato la paura, essendo ancora inseguito e braccato da segugi dai quali Dio preservi! Ho trascorso la notte in un rifugio vicino a Firenze col nobile mascherato, l’orecchio in ascolto e il cuore in tumulto». Il duca aveva ancora il suo travestimento al suo arrivo a Ferrara (14 ottobre). Seppe che le truppe della Santa Sede si erano nel frattempo impadronite della maggior parte dei suoi possessi. Non gli restava che la capitale con Comacchio e Argenta.

Più fortunato del duca di Ferrara l’imperatore Massimiliano, alleato di Luigi XII, era facilmente riuscito a riappacificarsi con Giulio II. Dal 17 maggio faceva già virtualmente parte della Santa Lega ed era avversario più o meno dichiarato del re cristianissimo.

Il Papa ebbe per lui tutte le indulgenze. Non esitò ad accontentarlo a spese dei suoi amici veneziani e ad aggiudicargli diversi territori della terra ferma. Egli sapeva quale fascino esercitasse il nome dell’imperatore sugli spiriti, come questo nome fosse soprattutto indispensabile per la riuscita del suo Concilio Lateranense! Poiché il Papa aveva fedelmente mantenuto la promessa fatta al mondo cristiano l’anno precedente e la battaglia di Ravenna non aveva ritardato che di quindici giorni la solenne apertura della grande assemblea ecumenica, promessa con la bolla Sacrosanctae per la primavera del 1512. Riunita tuttavia in un clima di tormenta politica generale, senza la partecipazione della Francia e dell’Inghilterra, l’augusta assemblea del Laterano non era composta che di prelati italiani e difficilmente poteva pretendere di rappresentare la chiesa universale. La situazione cambiò radicalmente quando l’imperatore Massimiliano dichiarò di voler accedere alla Santa Lega. Quello stesso giorno — 17 maggio — il Concilio, che era soltanto alla seconda seduta, venne prorogato fino al mese di novembre, onde dare il tempo ai nuovi membri di arrivare.

Con l’avvicinarsi dell’autunno il sinodo di Giulio II era già riconosciuto da tutti i paesi cattolici ad eccezione della Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia, Polonia, Ungheria, Norvegia, Danimarca ecc. avevano successivamente fatto atto di adesione e di obbedienza. Matthias Lang, vescovo di Gurk, il 4 novembre venne a compiere lo stesso atto per conto della Germania e dell’Imperatore Massimiliano. Il vescovo di Gurk, il Gurcense come lo si chiamava in Italia, fu la grande curiosità di Roma in questo mese di Novembre, come lo era stato nel mese di luglio il duca Alfonso d’Este. Ministro e principale negoziatore dell’Imperatore Massimiliano per gli affari in Italia, Matthias Lang si era fatto conoscere da questa parte delle Alpi per la sua alterigia ed insolenza. L’anno precedente, a Bologna, aveva dichiarato essere al disotto della sua dignità incontrarsi con una commissione di cardinali: egli, rappresentante del sovrano più augusto del mondo, non poteva che trattare con il vicario di Gesù Cristo in persona, davanti al quale intendeva stare seduto e con il capo coperto. Veniva ora a Roma per fare, a nome dell’Imperatore, onorevole ammenda per le molte bravate trascorse. Giulio II trovò stucchevole colmare l’ambasciatore, così infatuato della sua importanza, di onori «principeschi». Lo ricevette assiso sul trono in pieno concistoro; lo creò cardinale; gli permise la strana fantasia di indossare il costume di cavaliere antico durante le solennità più importanti, con grande costernazione del maestro delle cerimonie e di molti dignitari della Chiesa.

Molti pensavano che il Papa andasse troppo oltre con queste manifestazioni di benevolenza verso «il barbaro, figlio di un borghese di Amburgo, ma non si tardò a comprenderne la ragione. Era il 3 dicembre, giorno in cui il Concilio riprendeva nella basilica di S. Giovanni i lavori interrotti nel mese di maggio. Il Papa, i cardinali, i vescovi, i generali degli ordini ed i rappresentanti dei potenti erano tutti presenti. Apparve Fedra Inghirami e diede lettura di una lettera secondo la quale l’imperatore dichiarava la sua completa adesione al Concilio Laterano e la sua condanna formale dei «conciliaboli» sostenuti dalla Francia a Tours ed a Pisa. Il buon Massimiliano recitava il suo «mea Culpa». L’effetto fu immenso, trascinante. Tutta l’assemblea intonò il Te Deum. Era in effetti la vittoria più straordinaria che il papato avesse ottenuto dal tempo di Innocenzo III. Le stanze del Vaticano ci presentano tre ritratti del papa ligure, tutti eseguiti negli ultimi mesi del suo regno.

Nell’affresco dei «Decretali» Raffaello ha dipinto Giulio II subito dopo il suo ritorno a Roma nel luglio 1511, e l’espressione triste ed abbattuta dell’«uomo col mantello» ci dice che siamo all’indomani della catastrofe di Bologna e dell’oltraggiosa sfida di Pisa. La «Messa di Bolsena» ci mostra il capo della Santa Lega ancora grave e pensieroso, ma già fuori dalle avversità e fiducioso nel suo diritto, che assiste in ginocchio al grande miracolo. E non è a caso che l’artista ha collocato dietro il pontefice le guardie svizzere, che sono state i veri salvatori della Santa Sede dopo la battaglia di Ravenna. Infine, l’affresco di «Eliodoro» ci mostra un Rovere nel pieno della forza e della potenza, lo sguardo dominatore ed il gesto imperioso. Lo si direbbe portato in trionfo sulla sua sedia gestatoria per il Te Deum alla Basilica di S. Giovanni. Ha schiacciato lo scisma di Pisa e fatto riconoscere il suo Concilio; ha liberato l’Italia e ricacciato i «barbari» al di là delle Alpi, ha ricuperato il patrimonio di S. Pietro; ha punito dapprima e poi salvato in seguito la Repubblica di S. Marco, ha ristabilito i Medici a Firenze e gli Sforza a Milano. E il signore e padrone del «gioco di questo mondo».

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