Una dimensione umana
Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,
questa mia tavola non vuole essere altro che una breve relazione dell ‘itinerario da me percorso sino ad oggi, nella mia qualità di Apprendista, a partire dal giorno non molto lontano in cui ho bussato a questa porta chiedendo la luce.
Non presumo che questo mio lavoro possa essere illuminante per la Loggia; penso piuttosto che possa servire essenzialmente a me, e forse a qualche altro Fratello Apprendista, per verificare quanto ho capito in tutto questo tempo, ammesso che abbia capito qualcosa
Venendo ora alla relazione su quello che potrei definire “il viaggio spirituale di un Apprendista”, vorrei ricordare che, come ebbi occasione di dire in un mio breve intervento, la prima sensazione che ho avvertito dopo la mia ammissione in questa Loggia è stata quella di un caldo spirito di fratellanza, e la sensazione è tanto bella ed inconsueta – se paragonata a quella che è la nostra vita nel mondo profano – da indurre quasi a “lasciarsi andare”, a vivere felici e contenti e a non cercare niente di più. Si ha quasi l’impressione (parlo sempre a titolo personale) di essere finalmente riusciti ad approdare all’ultimo lido sereno, dove il tempo si è fermato, e ci sarà dato di vivere in pace i nostri “giomi dell ‘alcione”.
Ma questo non può durare a lungo. I Fratelli Maestri, con il loro lavoro più impegnato; la cultura massonica che gradatamente andiamo acquisendo; il nostro stesso senso critico, ci fanno comprendere che questo stato di cose non può essere fine a se stesso. Non basta scaldarsi al sole della fratellanza, bisogna alzarsi e riprendere il cammino.
Così, ad un certo punto mi sono fatto questo discorso: Bene, la fratellanza è acquisita (anche se dovrà ancora e sempre essere coltivata). Adesso devo fare qualcosa. Ma prima di intraprendere qualsiasi iniziativa, devo fermarmi un momento e pormi alcune domande: quale è la mia posizione in questa Loggia? Che cosa le ho dato? Che cosa la Loggia ha dato a me?
La mia risposta globale a questi interrogativi è stata la seguente: la Loggia (o, se vogliamo, la Massoneria, poiché la Loggia non è altro se non la forma in cui la Massoneria si è manifestata a me) ci riconduce tutti ad una DWIENSIONE UMANA.
Chiarirò meglio il mio pensiero. Nella Loggia noi ci chiamiamo fra noi con l’appellativo di “Fratello”, ci diamo del tu, indossiamo un grembiule che simboleggia in pari tempo la dignità del lavoro e l’umiltà dell ‘operaio.
Detto così, sembra niente, eppure è molto. Perché, comportandoci in questo modo, noi torniamo finalmente ad essere noi stessi. Non siamo più delle etichette, dei titoli accademici, non ci identifichiamo più con la nostra professione, con il nostro rango, con il giro delle nostre conoscenze. Noi deponiamo gli ori, o gli orpelli, di cui volenti o nolenti ci adomiamo nella vita profana. Noi torniamo finalmente allo stato di esseri umani.
“Torniamo” oppure “arriviamo” a questo stato? Si tratta di un regresso ad una condizione elementare, oppure al conseguimento di’ un livello più elevato?
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Da un punto di vista profano ciò potrebbe apparire come una diminuzione, proprio perché accantoniamo tutte quelle cose con le quali ci siamo a lungo identificati, e che hanno costituito il simbolo del nostro stato.
Nella nostra ottica particolare è senz’altro un conseguimento. L’uomo nella sua dimensione umana, nella sua dignità umana, è certamente qualcosa di più del “dottore”, del “cavaliere”, dell ‘industriale, e cosi via.
Quanto meno la realizzazione della dimensione umana costituisce disponibilità per altre realizzazioni interiori, sempre in chiave umana, che ci avvicineranno gradatamente, o per improvvisa folgorazione, al sovrumano.
Io personalmente non credo molto nella folgorazioni. Sono più propenso a riporre la mia fede nell ‘opera quotidiana di coltivazione e potatura di noi stessi, se mi è concesso di usare questi termini modesti che sanno di campagna. Sono propenso a credere, con un certo filosofo americano di cui non ricordo il nome, che la genialità la vivacità dello spirito, la potenza della mente costituiscono i montati di una scala, ma non si può salire una scala se mancano i pioli, e questi sono rappresentati dalla costanza, dalla tenacia, dalla pazienza del modesto, grigio sforzo quotidiano.
Per concludere, direi che, per quanto mi conceme, la conquista, o la riscoperta, di questa dimensione umana costituisce una realizzazione, anch’essa non fine a se stessa, ma propedeutica ad altre realizzazioni.
Penso che ritrovare la propria dimensione umana sia un po’ come chinarci un attimo su noi stessi per riascoltare la voce più vera della nostra coscienza; raccoglierci come atleti sui blocchi di partenza per poi distenderci nello scatto; toccare la terra, come il gigante della favola, per attingerne la forza vitale.
Fase apparentemente statica, quindi, ma intrinsecamente viva nella dinamica generale di un’azione tesa al conseguimento di nuove più elevate realizzazioni, e
P. Spnll,
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