Utopia
Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,
Quello sull’utopia non è un discorso massonico in senso stretto. Però ha delle connessioni massoniche: altrimenti non mi sarei permesso di portarlo alla vostra attenzione. Il mio scopo, questa sera, è di contribuire a inquadrare storicamente la visione massonica del mondo e la collocazione del Massone nel mondo.
Diamo per scontato che la Massoneria non è una via contemplativa, e che quindi il Massone dcvc immergersi nel mondo. Anche se qualche volta può essere tentato di pensare che “chi si immerge nella folla ne torna crivellato di ferite”, come insegnava un Santo paleocristiano che cito spesso. A questo punto mi è parso interessante cercare di inserire la Massoneria ai suoi albori nel contesto sociale e intellettuale maturato nei due secoli precedenti, quale si manifesta attraverso l’utopia.
Perché proprio l’utopia? Nell’utopia, anche meglio che nella realtà economica e sociale, si manifestano le aspirazioni ed i modelli della società. Nelle strutture sociali, queste aspirazioni e questi modelli possono trovarsi inespressi.
Il periodo preso in considerazione va dalla “Utopia” di Tommaso Moro (1517) alla ‘Nuova Antartide” di Francesco Bacone (1622): cento anni tormentatissimi nei quali la intolleranza religiosa raggiunse il suo massimo, che poi durò per il resto del XVII secolo. Il quale, per contrasto, è anche il secolo nel quale in Inghilterra operarono dei protomassoni quali Elias Ashmole e fu fondata la Royal Society, indiziata di legami con la nascente Massoneria. E gli albori del 600 sono anche il tempo nel quale venne a giomo il misterioso movimento dei Rosa+Croce.
L’intolleranza la troviamo riflessa nelle utopie dell’epoca, e certamente contribuì a caratterizzare in senso opposto la Massoneria con la sua vocazione e quasi ossessione della Tolleranza.
Riforma e Controriforma sono i due grandi eventi storici dei quali recano impronta queste utopie, impregnate, come sono a volte, di papismo o di anti-papismo.
In alcuni casi, la discendenza dalla “Repubblica” di Platone è evidente.
Gli autori sono quasi tutti dei Religiosi, e questo non deve stupire: erano pressoché gli unici a sapere scrivere. Ciò non toglie che si trovino spazi importanti di libertà intellettuale, a volte pagati a caro prezzo, come nel caso del Campanella. Nel clero di trova di tutto: prevalentemente forcaioli, ma anche idealisti contestatori, come Campanella; forse perfino dei Massoni.
Le opere delle quali vi parlerò, invariabilmente ci appaiono bigotte, con una unica eccezione, il Gargantua di Rabelais, che per questa ragione lascerò per ultimo. Vediamo brevemente questi utopisti, in ordine cronologico, cominciando dal primo e più importante: TOMMASO MORO.
Solo poche parole per ricordare la biografia di Tommaso Moro, che è notissima. Non fu mai sacerdote, malgrado una sua giovanile esperienza conventuale. Umanista e giurista, amico di Erasmo da Rotterdam, fece quasi suo malgrado una rapida carriera politica, arrivando al cancellierato. Si dimise quando Enrico VIII pretese di essere riconosciuto dal clero come capo della Chiesa inglese. Per questa sua mai abiurata fedeltà alla chiesa di Roma fu accusato di tradimento e giustiziato nel 1535.
La sua vita fu importante quanto il suo pensiero, testimoniando il grande carattere, la grande coerenza, la dimensione straordinaria di un uomo che si può considerare antesignano di certe sceltc ideali che sono proprie della nostra Istituzione.
“Utopia”, ovvero il celebre libro che ci ha lasciato, tratteggia una società che, se pure conserva aspetti inaccettabili per un uomo del nostro tempo, certo è in grande anticipo sul suo tempo c sulla sua società, della quale condanna le aberrazioni. La società che Moro “utopizza” è perfettamente comunistica, ben strutturata e felice, esplicitamente contrapposta ad una Inghilterra sede delle più grandi ingiustizie sociali, nelle quali la nascente industria tessile spopolava ed affamava le campagne. L’ideale di “Utopia” è quello di una società fraterna, pacifica, austera.
Interessante il confronto con l’utopia platonica. La ‘Repubblica” di Platone è aristocratica, verticistica, militannente forte e militarista. Platone esalta la funzione dei guerrieri-custodi, e traccia un disegno di educazione dei filosofi ai quali è destinato il govemo della città, governo chc si esercita sugli altri cittadini con il loro consenso, ma senza la loro partecipazione.
Ak contrario, Moro disegna una comunità su base elettiva, in cui non manca una partecipazione popolare, come diremmo noi, anche se le funzioni supreme sono riservate ai sapienti.
Che cosa, allora, ci riesce ostico o inaccettabile in questa costruzione ideale? Direi, essenzialmente il moralismo. Nella città di Utopia non ci sono “né taveme, né birrerie, né bordelli, né nascondigli, né incontri segreti”. Praticamente tutto si svolge sotto gli occhi di tutti. E possibile realizzare una simile società senza un apparato repressivo? Il suicidio è raccomandato, anche sc non imposto, a chi è diventato un peso per sé stesso e per gli altri. La fornicazione fuori del matrimonio è punita severamente. Per l’adulterio si arriva ai [avori forzati e alla pena di morte. Stravagante, dal nostro punto di vista, anche la teorizzazione della guerra condotta con l’uso dei mercenari stranieri: una feccia che si manda a combattere con l’auspicio che pochissimi tomino vivi a incassare il salario. Eppurc la giustificazione è perfettamente ragionevole: quel mercenari selvaggi sono uomini cattivi, quindi, meglio muoiano loro piuttosto che i buoni (e ricchi) utopiani.
E tuttavia l’opera di Tommaso Moro esprime alcuni ideali che sono fondamentali nella nostra Istituzione. Per esempio, la Libertà. Gli utopiani vivono una vita rigorosamente comunitaria, ma per libera scelta, anche se il problema di far convivere questi due aspetti resta irrisolto. Poi il Rifiuto del Dogmatismo: gli utopiani hanno una religiosità basata sulla ragione. Infine la Tolleranza in fatto di professione rcligiosa. Solo all’ateo si mettono dei vincoli: egli può esporre le sue convinzioni ai dotti, ma non al popolo, perché ciò potrebbe esserc dannoso. Tommaso Moro è un personaggio affascinante. Si apprezza di più la sua grandezza quando ci si avvicina agli altri utopisti del suo tempo.
Il primo che troviamo, in ordine cronologico, è GASPARE STIBLINO, tcdcsco del Baden, il quale visse durante il Concilio di Trento che, come si sa, durò parecchi decenni. La sua città ideale, Eudemone, nel paese di Macaria, assomiglia a una idealizzazione dello Stato Pontificio, come già rilevò qualcuno. In cima a tutto sta la “schietta religione” (ovviamente cristiana). La giustizia è dura. Al patibolo i ladri, al
patibolo i congiurati, supplizi orrendi per i delitti commessi contro la Cosa Pubblica; ai bestemmiatori si strappa la lingua.
Proibito viaggiare e introdurre novità. Tutti sono tenuti a una vita sana, operosa, spartana. I ricchi sono considerati come usurai. Il Senato è eletto dagli Ottimati, in quanto il popolo “non ha discernimento”.
Del 1553, quasi contemporanea di quella di Stiblino, è l’utopia dell’istriano FRANCESCO PATRIZI. Altrettanto bigotta, è caratterizzata da un forte classicismo. Nella Città Felice ci sono tre categorie che decidono e contano (sacerdoti, magistrati e mercanti). I contadini sono disprezzati alla stregua di schiavi, cosa inconsueta per una visione cristiana. E opportuno che essi siano robusti, timidi e di vile animo e senza vincoli di parentela tra loro: così infatti è meno probabile che si accordino per ribellarsi. Si è felici se si è virtuosi: quindi non bisogna guastare i bambini mostrando loro pitture lascive e commedie. Vi segnalo questa perla: “Comandi per legge il legislatore alle gravide che spesso visitino le chiese; che è un esercizio nel quale non cadono troppi piegamenti di corpo che nuocere possono al concetto fanciullo, e il quale fa accrescere la religione e la divozione verso Dio”.
La “Repubblica Immaginaria” del pesarese LUDOVICO AGOSTINI è ancora più scialba di Eudemone. L’assolutismo monarchico è condannato, ma da un punto di vista neoguelfo, nel senso che ci deve essere il Vescovo accanto al Principe. Nella Repubblica di Agostini non ci sono osterie, non banchetti, non danze. A letto si va solo la notte. Divieto di vagarc pcr la città nelle ore del cibo o del riposo. Tutti a messa, e digiuno settimanale. Vi è una annonaria e un regime di prezzi controllati. No al cosmopolitismo, e invece una giusta dose di antisemitismo. Non si deve sentire “puzza di giudeo di scismatico di infedele”. Curiosamente, c’è anche una specie di anticipazione del cooperativismo cattolico, ma questo mi porterebbe troppo lontano.
Sempre verso la metà del 500, un’opera bizzarra “11 mondo savio e pazzo”, è dovuta al fiorentino ANTON FRANCESCO DONI, monaco vagabondo, editore fallito, amico di un altro bizzarro, quale Pietro Aretino. L’utopia del Doni denuncia la lettura di Platone e di Tommaso Moro. Ci presenta un regime comunistico, nel quale assoluta è I ‘uguaglianza, assoluta la comunanza dei beni e delle donne. Questa comunanza assicura grandi vantaggi: sparisce il furto (perché non si saprebbe cosa rubare) e anche il lutto (perché non si conoscono né figli, né moglie, l’accoppiamento essendo casuale e libero). Spariscono litigi, testamenti, sofferenze amorose e delitti di onore. Gli anormali e gli incurabili vengono soppressi(come nella Repubblica di Platone). Il morto si butta sottoterra “come un pezzo di carnaccia”.
L’utopia del Doni è sempre stata presa sul serio, ma personalmente sospetto che sia tutta in chiave ironica, il che ne farebbe un qualcosa di unico nel suo tempo. L’opera è in forma di dialogo tra un presunto savio e un presunto pazzo, e a un certo punto si ha uno scambio di battute che a me pare un indizio e un messaggio lasciato dall’autore, del tipo “caso mai non ve ne foste accorti, guardate che vi sto prendendo in giro”. Infatti, dice il pazzo: “quell’aver le donne in comune non mi piace”. E il savio: “Anzi, per esser cosa da pazzi, ti arebbe a piacere”,
Arriviamo ai primi anni del 600 e alla “Cristianopoli” di VALENTINO ANDREAE, un enigmatico personaggio che forse fu uno dei padri del movimento rosacruciano. La città di Cristianopoli è piccola e ubicata in un’isola dell’Antartide. Gli abitanti sono morigerati e puliti. Nessuna tecnica agricolë: vicini a Dio come ai tempi dei Patriarchi. Anchc qui, perfetta comunanza dei beni. Tre volte al giorno, per tutti preghiera e Vangelo. Lavorano tutti; non esistono denaro né schiavi. Proibito peccare: temono la nudità, e la lussuria è condannata anche nel matrimonio. Non mancano aspetti moderni, soprattutto per quel che riguarda l’istruzione e, noi diremmo, la sanità pubblica, aspctti che non devono stupire se veramente Andreae era un rosacruciano. Il libro, lungo e noioso, contiene qualche raro spunto iniziatico, sul quale non mi soffermo.
Col che arriviamo al domenicàno calabrese TOMMASO CAMPANELLA, spirito ribelle, uomo del quale voglio ricordare le spaventose persecuzioni inflittegli dal Santo Uffizio. La “Città del Sole” in effetti fu scritto in prigione, tra un supplizio e l’altro, ed opera nella quale le affinità iniziatiche certo non mancano. I “Solari” seguono una religione naturalc, ancora ignara della rivelazione. La concezione politica è fondata su una visione etico-religiosa e cosmico-magica, con singolare intreccio di nuovo e di antico. La città è governata da un Principe Sacerdote detto il Sole o il Metafisico, assistito da altri tre principi che simbolizzano la Potenza, la Sapienza e I ‘Amore.
Chiaramente, nella Città del Sole si incontrano molti elementi di derivazione platonica, in particolare la codificazione delle classi sociali, con artigiani e commercianti che provvedono alle necessità materiali, e i guerrieri che provvedono alla sicurezza e alle conquiste territoriali, quando necessario. Campanella era tutto tranne che pacifista, come dimostrano anche alcune vicende della sua vita. Tra i Solari, anche le donne “ben san sparar l’archibugio”. E forse proprio di derivazione platonica sono quegli aspetti che ci riescono più ostici. In particolare la comunanza di tutti i beni e delle donne, e soprattutto l’eugenetica. E ancora da una estrema preoccupazione eugenetica discende chiaramente quell ‘esasperato moralismo che gli fa decretare la pena di morte per l’uso di belletti e per il peccato di sodomia. La procreazione è rigidamente gestita dai governanti, i quali, su basc eugcnctica e astrologica, decidono chi si accoppia e con chi, e a che età, e quando, e a che ora, e dove, e dopo quale nutrimento. Del resto, l’autore è lo stesso al quale dobbiamo uno scritto intitolato “Magia della Generazione”.
Campanella è l’ultimo utopista del ‘500, anche se la sua opera è apparsa agli albori del ‘600. La “Nuova Atlantide” di FRANCESCO BACONE è di pochi anni successiva alla “Città del Sole”, ma tra le due opere il tempo psicologico è lunghissimo. Campanella è Domenicano e uomo del rinascimento; Bacone è un moderno filosofo della scienza. Va detto a questo proposito che, per gli scienziati della generazione di Newton e di Bacone, la scienza non aveva affatto quei connotati materialistici che assunse in seguito. Bacone amava usare un’immagine biblica secondo la quale “la conoscenza dell’uomo è come l’acqua che ci arriva sia di sopra, sia di sotto”, sia dal cielo che dalle sorgenti. Il suo personaggio prediletto è il sapientissimo Salomone, secondo il quale “è gloria di Dio nascondere le cose, ed è gloria del Re scoprirle”. E lo scienziato è colui che accetta questo gioco.
Con queste premesse, è naturale che la Città Ideale di Bacone, ovvero l’isola di Bensalem, sia una specie di paradiso della scienza incentrato su un collegio ideale, la Casa di Salomone. L’isola è come un grande laboratorio nella quale gli abitanti, a seconda delle loro attitudini ed in base alle direttive che ricevono, cercano di studiare tutte le forze nascoste della natura “per estendere i confini dell’impero umano a ogni cosa possibile”. I numi tutelari sono i grandi inventori e scopritori, ai quali si dedicano statue; le reliquie, raccolte in un museo, sono gli esemplari di tutte le più rare invenzioni. Di moralismo, nella Nuova Atlantide non c’è traccia, a parte una blanda censura del libertinaggio, contrapposta alla apologia del matrimonio e della famiglia.
Per chiudere questa succintissima rassegna di utopisti, è necessario tornare indietro di qualche decennio, fin verso la metà del ‘500, per dedicare due parole a un’altra città ideale, l’Abbazia di %elème, creata dalla fantasia di François Rabelais nel primo libro del “Gargantua”. Nell’insieme, la lettura delle opere sulle quali ci siano soffermati è, in diversa misura, angosciante, Di quelle città ideali, non ce ne è una nella quale accetterei di vivere.
Ciò non vale per la Abbazia di Thelème, perché quello di Rabelais è un altro mondo. A Thelème “la regola consiste in questo solo articolo – Fa quello che vuoi perché persone libere, bennate, ben instruite, che frequentano oneste compagnie, sentono per natura un istinto c inclinazione che sempre le spinge a atti virtuosi e le tiene lontane dal vizio”. E per dire il clima della utopia rabelaisiana serve riportare la prima strofa della iscrizione situata sulla porta maggiore della Abbazia:
Qui non entrate, ipocriti bigotti, ginocchia fruste, sepolcri imbiancati, barbari c bruti, peggio che Ostrogoti capaci di giocar di bussolotti con l’anime, cialtroni scoglionati!
Colli torti, sarete qui scomati.
Cenere e fumo altrove andate a vendere, qui non avete nulla da pretendere.
Eccetera eccetera. Tradizionalmente si ritiene che Rabelais fosse un iniziato, e del resto ce ne sono molti indizi nel quinto libro del Gargantua. Il Gargantua si presta a una doppia lettura, come l’autore stesso lascia intendere. Bisogna solo superare la sorpresa indotta dalla straordinaria scurrilità del linguaggio, volutamente inaccettabile per le convinzioni profane. La libertà proclamata da Rabelais è la libertà dell ‘iniziato, e la sete insaziabile di Gargantua può essere vista come sete di conoscenza. Quello di Rabelais è un paradossale messaggio di tolleranza e di laicità (non irreligiosa!), lanciato da un Massone ante littcram.
E tempo di trarre delle conclusioni. Scopo di questo lavoro era quello di fare un confronto tra due visioni della società: da una parte quella della Massoneria, dall’altra quella che l’Europa esprimeva, tramite le varie utopie che abbiamo ricordato, nei due secoli che precedettero la nascita della Massoneria storica. Per mezzo di questo confronto, riconoscere quanto la Massoneria portò di originale e di innovativo.
Un opera che si possa definire la “Utopia massonica” non esiste. Al tempo degli operativi non avrebbe avuto nessuna ragione di esistere: una corporazione di mestiere doveva solo inserirsi armoniosamente nel contesto sociale, senza pensare a carnbiarlo. Furono gli Speculativi che, disancorati dal mestiere, spostarono il loro interesse sul Sociale. Frutto di questo interesse fu, verso la metà del ‘700, il fiorire di una certa letteratura, poco nota, con utopie di ispirazione massonica, segnalatemi da un dotto e appassionato cultore di cosc massoniche, il Fr:. M. Z. della R:. L:. Risorgimento. Ma c’è un altro modo per capire quale tipo di società i Massoni vagheggiavano, ed è guardarc come operavano, e quale società cercarono di edificare, e quali principi propugnarono.
Prima però è opportuno dare ancora un breve sguardo a quelli che erano i fermenti intellettuali in Europa nel tardo seicento. L’interesse dei massimi pensatori, da Cartesio in poi, era soprattutto gnoseologico. Tra l’altro, era la scelta più tranquilla e sicura, per non finire come Bruno o Campanella.
E tuttavia alcune voci cominciavano a esprimerc posizioni che noi Massoni sentiamo vicine. Penso soprattutto a Spinoza c a Locke. Nel pensiero di Spinoza troviamo l’idea della natura divina dell’uomo, che era stata già di Meister Eckart (all’indice tutti e due). Idea che è implicita nel concetto iniziatico di realizzazione. Locke scrisse una Epistola sulla Tolleranza che ne fa uno dei padri dell’Illuminismo, e precorre Voltaire. Cartcsio stesso, il suo pensiero partiva dal dubbio, e quindi da una posizione antidogmatica.
Se torniamo ai Massoni, alla fine del ‘700 troviamo in Fichte uno dei pochi che cercarono di teorizzare l’azionc della Massoneria nel mondo. E la sua teorizzazione effettivamente conticnc molti spunti ispiratori della modema Massoneria. Esempio, la LAICITÀ: il potere deve essere ai Massoni e non ai Preti, perché questi ultimi non possono superare la loro “unilateralità”, ovvero ristrcttczza intellettuale e dogmatismo. Poi l’idea di ISTRUZIONE, contrapposta all’oscurantismo cattolico: uno dei pilastri della azione massonica. Poi la educazione alla ETICITÀ, ovvero al perseguimcnto del dovere per se stesso, senza attesa di premio. Infine l’aspetto più utopistico: l’idea dell’Umanità che supera le divisioni per formare un’unica, grande comunità. Non fu casuale che la sfortunata “Società delle Nazioni” nascesse, nel 1919, per opera soprattutto di Massoni.
Un ‘altra costante dell’azione massonica è sempre stata l’umanitarismo, e qui è giusto aprire una parentesi per chiedersi l’origine di tale costante: carità o dovere di immagine? Struttura o sovrastruttura? Un problema che porterebbc lontano. Vi sono Massoni per i quali l’umanitarismo è l’essenza della dottrina. Vi sono altri per i quali è semplicemente una parte, e non essenziale, del modello; un caratterc del personaggio assegnatogli dal teatrino della vita. I Fratelli che hanno tale visione, sono molto più numerosi di quelli disposti ad ammetterlo. Messi alle strette, si richiamano all’apologo di Marta e Maria,
I principi ispiratori della azione massonica, nel mondo, comunque, trovano dei precursori: ad esempio, Giovanni Locke e, per certi versi, addirittura Tommaso Moro. E tali principi non mancano di aspetti utopistici. Cosa c’è di più utopistico che voler coniugare la Libertà con l’Uguaglianza? Quando nessuno c’è mai riuscito!
C’è da chiedersi se questa utopia massonica, quando si tenta di realizzarla nel sistema sociale, sia meglio delle altre. Certamente, la visione massonica è in grande contrasto con il bigottismo e la tolleranza che trasudano da quasi tutte le utopie che abbiamo ricordato.
Ma arriviamo sempre a concludere che la originalità della visione massonica non è nel suo aspetto “sociale”, bensì in quello iniziatico, e quindi aristocratico. Infatti, ogni modello di città ideale ha il limite di essere figlio del suo tempo. Un dato contratto sociale, così comc il sistema che ne deriva, non possono essere idealizzati: hanno bisogno di continui aggiustamenti in relazione alla realtà storica. La madre stessa di tutte le utopie, quella platonica, oggi ha aspetti ripugnanti, c configura una società dove quasi nessuno di noi vorrebbe vivere. E il nostro sistema attuale, che oggi ci pare “il migliore dei modi possibile”, tra vent’anni potrebbe rivelarsi inadeguato a fronteggiare la violenza che nasce dal suo interno. Chissà che non si finisca per approdare alla repubblica di Agostini: ladri sul patibolo, digiuno settimanale, e la sera tutti a letto.
R. Scch,