LA POLEMICA

 

 

Daniele Tempera  Giornalista

Perché ci interessiamo al sottomarino dei miliardari e non ai migranti

una corsa contro il tempo, con aggiornamenti in diretta. Il dramma del Titan, il sottomarino della OceanGate imploso a quattromila metri di profondità, ha tenuto il mondo con il fiato sospeso per più di tre giorni. Per cercare di salvare i cinque sfortunati componenti dell’equipaggio sono state avviate operazioni di salvataggio con tecnologie all’avanguardia e la copertura del dramma, da parte dei media, è stata senza precedenti.

In molti, prima e dopo l’epilogo, hanno notato un’asimmetria tra la vicenda del sommergibile e il dramma quotidiano dei migranti sulle rotte del Mediterraneo. Pochi giorni prima si era infatti verificato l’ennesimo naufragio nelle acque del “Mare nostrum”, questa volta vicino alle coste greche. Drammatico il bilancio: 78 morti ufficiali e centinaia di dispersi per quella che, secondo la Ue, è una delle più grandi tragedie del Mediterraneo. Parliamo di uomini, donne e bambini che si erano imbarcati dalla Libia con il sogno di una vita dignitosa. Meglio: di una vita che valesse la pena di essere vissuta.

E allora perché la nostra attenzione di fronte alle due diverse tragedie del mare è stata diversa? Perché il dramma di centinaia di persone che scappavano da guerra e fame non ha avuto la stessa rilevanza di quello di cinque ricchi milionari intenti a visitare, a proprio rischio e pericolo, un relitto a 4mila metri di profondità?

La tentazione di cedere al moralismo è forte, ma non credo ci porti molto lontano. Se i due fenomeni sono stati seguiti (indubbiamente) con un’attenzione mediatica diversa, dipende da meccanismi che hanno sicuramente a che fare con il concetto di “notiziabilità”: ma che derivano solo in parte dall’agenda che i media ci dettano quotidianamente.

L’effetto assuefazione

La prima osservazione, banale ma non troppo, è che non possiamo ignorare i meccanismi cognitivi che regolano la nostra attenzione. Da tempo gli psicologi parlano di un fenomeno chiamato “information overloading”. Possiamo tradurlo in italiano con “sovraccarico cognitivo”. Siamo quotidianamente sommersi da informazioni che non riusciamo a elaborare, una dinamica innescata soprattutto dalla digitalizzazione e dall’avvento dei social. Il risultato è che facciamo sempre più fatica a focalizzare la nostra attenzione. La nostra fruizione delle notizie segue questo postulato. Assistiamo da quasi trent’anni a stragi nel mezzo del Mediterraneo e spesso ci sentiamo impotenti davanti a un fenomeno che sappiamo di non poter gestire, né controllare.

Non si sono accorti che stavano morendo – di Antonio Piccirilli

Dall’altro lato ci troviamo davanti a una storia insolita con cinque persone bloccate sul fondo dell’oceano a bordo di un sottomarino di cui ignoravamo l’esistenza. L’effetto novità è evidente, e sono le novità che guidano la nostra attenzione, non gli eventi che si ripetono costanti.

Il salvataggio di un gruppo di migranti da parte dell’Ong Open Arms al nord della Libia

Questa dinamica non ha nulla a che fare con l’importanza degli eventi, né con l’etica o la morale. Ha a che fare, invece, con il funzionamento della nostra mente e il modo in cui si sta probabilmente evolvendo in quella che viene chiamata l’era della “distrazione di massa”.

Per la nostra attenzione è più rilevante un “padrone che morde il cane” piuttosto che un “cane che morde il padrone”. Eppure il primo è un fatto di cronaca mentre, analizzando le tante rilevanze statistiche del secondo fatto, potremmo imparare molte cose del nostro rapporto con questi animali. Con le dovute (e rispettose) differenze, la nostra reazione cognitiva nel caso del Titan e del dramma dei migranti è molto simile. Siamo sicuri che se ci fosse un sottomarino disperso a 4mila metri di profondità al mese, il nostro interesse sarebbe lo stesso?

L’identificazione con le vittime

L’altra considerazione è che, anche se molto lontani dai nostri stili di vita (e dalle nostre possibilità economiche) molti hanno visto la vicenda dei cinque dispersi nel Titan molto più vicina di quelle delle vittime del Mediterraneo. La ragione? Innanzitutto perché ci risulta più facile identificarci con dei turisti occidentali (anche se ricchissimi), piuttosto che con dei profughi che scappano da guerre e fame e che provengono da aree del mondo che consideriamo distanti. Anche se spesso sono dall’altra parte dello stesso mare in cui andiamo in vacanza. Non è certo un meccanismo edificante, ma è una modalità che le scienze sociali conoscono bene.

Chi erano i 5 passeggeri morti nel Titan

Nel saggio “Stranieri alle porte”, il sociologo Zygmunt Bauman afferma che l’avversione, o il disinteresse, nei confronti della sorte dei migranti deriva anche da una specie di “proiezione” che molti consapevolmente o meno fanno. Sfuggiamo le storie tragiche dei migranti perché proiettiamo in loro le nostre paure, quelle di una società e di forze che sentiamo di non riuscire più a controllare e che un giorno potrebbero chiedere il conto anche a noi. La paura inconscia è quella del “contagio” con la povertà, il lutto e la miseria.

Una storia da narrare

Nel caso dei cinque del Titan questa paura non esiste. Esiste invece una dinamica molto simile al rilascio di adrenalina. Per cinque giorni ci siamo trovati nella stessa situazione di quando assistiamo in diretta a un’incidente: vogliamo sapere come va a finire e se le persone in pericolo saranno salvate. Abbiamo immaginato come potessero vivere i cinque all’interno del piccolo sottomarino con l’ossigeno che stava per finire. È questo il vero gancio che ci tiene incollati davanti agli schermi delle tv e di Internet. Ancora una volta è una dinamica cognitiva molto frequente: la stessa che possiamo osservare, in scala ridotta, nelle challege social più estreme diffuse su TikTok o Youtube.

In Italia ne abbiamo avuto un drammatico esempio nel 1981, nel corso del tragico incidente di Vermicino che costò la vita al piccolo Alfredo Rampi. Non esisteva il web e nemmeno i canali all news, ma la copertura del dramma fu pervasiva: tutta l’Italia rimase col fiato sospeso per tre giorni, per capire se il piccolo Alfredino poteva essere salvato.

L’altro elemento da non sottovalutare è quello della narrazione. Le nostre menti si nutrono di narrazioni, grazie alle storie possiamo dare un senso al passato e al futuro e orientare lo scorrimento del tempo. Le tragedie del Mediterraneo sono spesso composte di numeri. Sappiamo che dietro quei numeri ci sono i cadaveri di donne, uomini e bambini, ma non conosciamo le loro storie. E senza storie, provare coinvolgimento emotivo è molto difficile. Dei cinque membri dell’equipaggio del Titan conoscevamo invece molte cose: ad esempio la storia del ragazzo di 19anni terrorizzato dall’esperienza e partito solo per compiacere al padre.

Le richieste di aiuto che la Ue non ha ascoltato

Infine c’è il fascino della “maledizione del Titanic”. È qualcosa di molto simile alle “storie maledette” che abbiamo assorbito fin da bambini. Ed è stato proprio il regista James Cameron, autore dell’omonimo kolossal, a rievocare l’inabissamento del transatlantico e di come la sua lezione abbia insegnato pochissimo. La vicenda del piccolo sommergibile ha richiamato anche il fascino dell’esplorazione dell’ignoto e della fantascienza da primo ‘900. Nel dramma dei cinque in molti hanno ritrovato echi delle pagine di quel capolavoro che è “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne, ad esempio, un libro che ha forgiato il nostro immaginario. Parliamo insomma di più piani narrativi che si fondono per dare salienza alla storia.

Il murales del piccolo Alan Kurdi sulle rive del fiume Meno a FrancoforMa siamo sicuri che non sia lo stesso anche per il dramma dei migranti? Tra i fotogrammi che nessuno potrà mai scordare, c’è quello del cadavere di un bambino che giace inerme a pochi passi dalle onde. Si chiamava Alan Kurdi, era siriano e aveva appena tre anni. Venne ritrovato senza vita su una spiaggia turca il 2 settembre del 2015 e la sua storia mise il mondo di fronte alla tragedia immane dei migranti e del conflitto siriano. La cancelliera Angela Merkel aveva appena aperto le porte a un milione di siriani e quella foto fugò ogni polemica.

Alan smosse le nostre coscienze perché aveva una storia, un volto, un corpo. Poteva essere nostro figlio, aveva solo avuto la sfortuna di nascere dall’altra parte del Mediterraneo nel mezzo di una guerra. Non era un numero, né uno dei tanti Alan invisibili che muoiono da anni nel Mediterraneo nella nostra indifferenza. Perché, ci piaccia o meno, la nostra mente si nutre di storie più che di dati disorganizzati. Ed è quello che, al momento, ci differenzia dalle macchine, anche dalle intelligenze artificiali che stanno facendo progressi da gigante. E se non vogliamo trovarci a combattere contro i mulini a vento, come Don Chisciotte, è meglio non dimenticarlo.te-2Ma siamo sicuri che non sia lo stesso anche per il dramma dei migranti? Tra i fotogrammi che nessuno potrà mai scordare, c’è quello del cadavere di un bambino che giace inerme a pochi passi dalle onde. Si chiamava Alan Kurdi, era siriano e aveva appena tre anni. Venne ritrovato senza vita su una spiaggia turca il 2 settembre del 2015 e la sua storia mise il mondo di fronte alla tragedia immane dei migranti e del conflitto siriano. La cancelliera Angela Merkel aveva appena aperto le porte a un milione di siriani e quella foto fugò ogni polemica.

Alan smosse le nostre coscienze perché aveva una storia, un volto, un corpo. Poteva essere nostro figlio, aveva solo avuto la sfortuna di nascere dall’altra parte del Mediterraneo nel mezzo di una guerra. Non era un numero, né uno dei tanti Alan invisibili che muoiono da anni nel Mediterraneo nella nostra indifferenza. Perché, ci piaccia o meno, la nostra mente si nutre di storie più che di dati disorganizzati. Ed è quello che, al momento, ci differenzia dalle macchine, anche dalle intelligenze artificiali che stanno facendo progressi da gigante. E se non vogliamo trovarci a combattere contro i mulini a vento, come Don Chisciotte, è meglio non dimenticarlo.

ARTICOLO DEGNALATO DAL FR.’. A F .
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