I TEMPI E LA RESPONSABILITA’ DELLA SCIENZA…

Francesco Coniglione

I tempi e la responsabilità della scienza e quelli della politica nell’età della pandemia

utto lascia pensare che la fase più acuta della pandemia dovuta al Covid sia in fase di regressione. È pertanto venuto il momento, con gli animi più sereni e meno agitati dalle opposte opzioni politiche e culturali, operare una riflessione sui diversi piani in cui si è presentato questo importante momento della vita nazionale (e non solo). ln particolare, si è dimostrato particolarmente rilevante e critico l’aspetto che ha visto l’intersezione tra i tempi e le procedure della scienza e quelli che invece sono i tempi e le decisioni che devono essere assunte dalla politica, ovvero da chi ha la responsabilità della salute

pubblica e ne risponde all’opinione dei cittadini. Se nel primo caso, la ricerca scientifica e la scienza già consolidata hanno tempi e modalità di svolgimento che rispondono solo alle esigenze interne della ricerca e che possono essere compresse e dilatate solo fino a un certo punto, in base all’interesse collettivo di promuovere più o meno certi filoni di indagine, nel secondo caso si richiedono tempi di decisione più rapidi, specie quando è in campo la salute pubblica e si è di fronte a un’emergenza sanitaria, Inoltre, se nella ricerca scientifica entrano (o dovrebbero) entrare in gioco solo valutazioni inerenti alla efficacia o validità delle soluzioni proposte, testate e controllate empiricamente dalla comunità degli studiosi, invece nel secondo caso le decisioni politiche obbediscono anche a motivazioni dettate dalla opportunità e suggerite dal complesso della situazione politico•economiche in cui si trova il paese interessato.

Procediamo pertanto con ordine nell’analisi di questi due diversi piani.

1 . I tempi e le responsabilità della scienza

Mai come in questo caso l’opinione pubblica è stata interessata al mondo della scienza (anche se in un suo ambito assai delimitato e peculiare, come quello medico-farmaceutico). Sono cos) saliti alla ribalta mediatica gli “esperti”, invocati da tutti – e in particolar modo dal ceto politico – nell’attesa di avere da foro la parola risolutiva o l’indicazione di “parametri scientifici, oggettivi” che permettano di assumere le decisioni corrette. La diffidenza a volte nutrita in passato verso gli spesso tacciati col titolo dispregiativo di ‘professoroni” – si è tramutata nell’attesa fiduciosa della parola salvifica; e la diffidenza nei loro confronti nutrita alle prime avvisaglie della epidemia, come fossero dei menagrami eccessivamente versati al protagonismo mediatico, si è via via mutata in una disperata consultazione di chi dava l’impressione di saperne di più su un argomento sino allora tenuto ai margini persino della scienza medica, nell’illusione che fosse scomparsa l’età delle grandi malattie infettive.

Senonché a tale affidamento fideistico non ha fatto riscontro una univoca posizione scientifica: i virologi e gli esperti in malattie infettive hanno manifestati una notevole variabilità di posizioni, da chi pensava che il Covid fosse poco più di una normale influenza a chi invece paventava scenari più drammatici e consiglia di conseguenza più drastiche misure. E l’iniziale impazienza dei politici nell’avere risposte univoche ha tradito un accentuato difetto di consapevolezza in merito alla natura e ai poteri della conoscenza scientifica, che viene ulteriormente aggravato dal tentativo di sovrapporle calcoli di convenienza politica, sfruttandone i margini di incertezza.

Se un effetto positivo di questa vicenda è da prendersi in considerazione, allora questo è stato il superamento, almeno in gran parte dell’opinione pubblica e nello stesso ceto dei politici, di una visione ingenua e dogmatica della scienza, come anche di un pregiudiziale atteggiamento di sua delegittimazione, entrambi moneta corrente in molti politici incolti. Il primo caso è stato (ed è ancora) tipico di chi coltiva l’idea puerile che sia possibile richiedere alla scienza soluzioni “certe” e “univoche”, quasi si trattasse di trovare la soluzione di un’equazione di secondo grado. Questo modello matematico di conoscenza scientifica è stato inculcato nella maggior parte delle persone sin dalla scuola primaria, in ossequio all’antico adagio, sempre ripetuto, che con la matematica non si scherza, che essa non fa “filosofia”: basta calcolare. È in fondo una illusione antica, tipica dei tempi “eroici” della scienza, nutrita da molti filosofi, specie dopo la rivoluzione scientifica: Io pensava, ad es., Leibniz, che voleva ridurre il sapere, e soprattutto la filosofia, a un “calculemus”; e con lui una miriade di filosofi e scienziati che hanno fatto la storia del pensiero sino all’epoca odierna e che hanno coltivato il mito di una ‘filosofia scientifica”. Che le cose non stiano propriamente cosi, che la matematica non possa essere il modello di ogni conoscenza, che ad essa si dovrebbe conformare cercandone la medesima obiettività e certezza, lo sanno più che i profani, i grandi matematici come, per fare un nome, Gian Carlo Rota, che in un suo celebre articolo ha messo in luce tutti i malintesi e le illusioni di quei filosofi che ad essa si sono ispirati nel tentativo di dare “rigore” alla filosofia l Ma lo si può anche constatareper portare un altro esempio – in un recente articolo di K. Houston-Edwards, in cui si spiega come anche la matematica non sia quella scienza esatta che ci si immagina, ma un luogo pieno di incertezze, nel quale «se chiediamo a 100 matematici da dove deriva la verità di un’affermazione matematica, otterremo 100 risposte diverse».

Il problema sta appunto nel fatto che una cosa è fornire risposte e soluzioni a questioni ben delimitate, ormai facenti parte di un sistema di conoscenze consolidato, come può essere appunto la soluzione di un’equazione o il calcolo di un limite; tutt’altra cosa è invece affrontare problemi che ne stanno a fondamento (come il concetto di numero o quello di “verità matematica”) o che sono ai confini della conoscenza, cioè hanno a che fare con fenomeni nuovi. È proprio questo il caso dell’epidemia da coronavirus: noi azzardiamo, ovvero pensiamo che quanto è risultato valido in passato possa risultare altrettanto valido anche in futuro per un fenomeno che ha analogie con quelli sinora trattati. Terapie e metodologie di cura che in passato sono state utilizzate con efficacia, vengono esportate e applicate a nuove varietà virali, nella speranza che anche in questi casi esse risultino efficaci. Ma, come sa ogni serio scienziato, si tratta di un azzardo che si spera possa riuscire. Non è affatto l’indicazione “oggettiva e inequivoca” di una soluzione: è una speranza ragionata, ma nulla esclude che le cose possano andar male, come abbiamo in effetti visto è accaduto nella fase iniziale del coronavirus, quando le terapie messe in atto si sono dimostrate insufficienti se non errate. Per cui attendersi in tali situazioni indicazioni esatte vuol dire caricare gli esperti di un compito eccedente le loro possibilità e conoscenze e forzarli a dare soluzioni pseudooggettive che possono indurre in errore e portare a successive recriminazioni. Tale attesa di soluzioni irrealistiche è un atteggiamento puerile non solo di molti politici, ma anche di persone dotate di media cultura, che hanno avuto una formazione scientifica di tipo dogmatico e astorico e che quindi non riescono a rendersi conto della complessità del sapere scientifico.

Infine, ancor più difficile diventa il compito quando la scienza scende dalle sue astratte costruzioni e dai modelli formali (propri di logica e matematica) per essere applicata alla concretezza dell’esperienza; a questo punto essa deve confrontarsi con una realtà nella quale sono presenti moltissimi parametri, per cui i suoi modelli teorici astratti,

validi in condizioni idealtipiche, devono essere interpretati e applicati con approssimazioni che cambiano a seconda di quali fattori e circostanze si ritengono più importanti. Le soluzioni “facili, oggettive, inequivoche H sono possibili solo in sistemi ideali nei quali abbiamo a che fare con pochi parametri. Aumentando gli stessi entriamo sempre più nel mondo della complessità, quel mondo che negli ultimi decenni è stato via via scoperto dagli scienziati, a partire dai fenomeni atmosferici per arrivare a quelli ancor più complessi delle interrelazioni umane. II classico “effetto farfalla”, sempre citato e spesso a sproposito, serve a darci un’idea della questione. Senza poi contare la ripercussione sociale del contagio: calcolarne diffusione, impatto, nonché prevedere le politiche da seguire con la popolazione, fa entrare in gioco una molteplicità di fattori derivanti dal comportamento di soggetti reali che agiscono in molteplici e differenti situazioni concrete, non di individui in una situazione controllata di laboratorio. il rischio derivante dal non avere contezza di tali caratteristiche della scienza è quello di procedere a una delegittimazione tout-couft del sapere scientifico, magari optando per linee di terapia o per saperi alternativi, non accettati dalla comunità degli scienziati ed estranei alla scienza consolidata. È la via percorsa da una galassia di negatori della scienza ufficiale (novax, creazionisti, terrapiattisti e vari altri fenomeni del genere). ln questo caso è facile una diagnosi che punti sull’ignoranza e la scarsa preparazione scientifica; ma, a parte che non sempre questo avviene, questa sarebbe una spiegazione parziale, perché in posizioni simili di contestazione della scienza “ufficiale” entrano in gioco molti altri fattori che non possono essere sottovalutati: la diffidenza per una scienza sempre più dominata dal grande capitale e dall’interesse privato (specie in campo medico e farmaceutico – il “big pharma”), spesso rinchiusa in brevetti inaccessibili e così via. Sono tutti motivi validi per un sano scetticismo verso ciò che qualche volta è stato diffuso come una sorta di panacea e che in passato si è mostrato dannoso per la salute e gravemente influenzato da interessi economici (la letteratura è ormai ricca di casi del

Inoltre c’è un aspetto che non bisogna trascurare: la diffidenza e il sospetto verso la scienza “istituzionalizzata”, nonché la

Nelle pagine successive: Illustrazione della “Peste a Firenze descritta dal Boccaccio’,’ Wellcome Collection gallery CC-BY•4.0

contestazione delle sue principali idee e consolidate soluzioni, è il lievito che permette la possibilità di nuove idee creative. Il finanziare da parte della società solo le indagini di scienziati con una fama consolidata o quelle linee di ricerca maggiormente in voga (il cosiddetto mainstream), trascurando ogni altra possibile linea alternativa, può portare all’inaridimento della crescita scientifica, consolidamento di quella “scienza normale” che consiste solo nel risolvere piccoli problemi di applicazione ed estensione delle teorie consolidate, ma che non apre il proprio sguardo su nuovi orizzonti. È sempre utile che una società riservi una sia pur piccola quota dei propri finanziamenti alla ricerca originale, agli scienziati “fuori dal coro”, nella consapevolezza che l’impresa scientifica è sempre una scommessa e che non è possibile avere un ritorno di ogni investimento: sono molte le vie cieche che si percorrono, ma a volte nel percorrerle ci si imbatte in nuove scoperte o è possibile che qualcuna di esse abbia buon esito. La ricerca scientifica ha bisogno di tutto ciò, non essendo un investimento in buoni del tesoro che deve dare sempre un rendimento.

La scienza, quindi, dispone di un patrimonio di conoscenze che possono essere fruite al momento opportuno; essa ha anche la missione di portare avanti la ricerca anche in campi e settori prima non affrontati o trascurati. Nel primo caso deve poter mettere a frutto quanto già consolidato, pur con tutte le incertezze e le approssimazioni indicate, senza false e irrealistiche illusioni; nel secondo, invece, deve essere aperta alle nuove idee e direzioni di ricerca, ma certamente non può ritenere conoscenza consolidata ciò che è ancora una ipotesi non sufficientemente testata e consolidata. la medicina ayurvedica, ad es., può aprire nuove prospettive di ricerca e condurre a nuove scoperte scientifiche, ma non può essere ritenute allo stato attuale una alternativa altrettanto valida di terapie già consolidate e sperimentate. Che però ciò sia possibile è attestato dal fatto che l’agopuntura è passata dallo stadio di pratica pseudo-medica a disciplina insegnata persino nelle università e adottata nelle più serie istituzioni di cura.  ln tutto ciò resta a carico dello scienziato la responsabilità dell’esatta informazione come dell’onesta e chiara diagnosi del problema affrontato, almeno nei limiti delle sue conoscenze e senza escludere l’umana possibilità dell’errore. Il che non è affatto facile se si considera l’enorme investimento economico che comportano certe linee di ricerca, il consolidarsi di veri e propri monopoli e la spesso conflittuale dipendenza dei ricercatori dai finanziamenti di quelle stesse case farmaceutiche private i cui prodotti in teoria dovrebbero da loro essere testati e valutati. E da questo non se ne esce se non assicurando ai ricercatori che vogliano mantenere la propria indipendenza di giudizio un intervento pubblico che ne possa garantire la carriera e alimenti nel modo dovuto le loro ricerche.

2. I tempi e le responsabilità della politica

Di fronte a una situazione quale quella descritta, quale dovrebbe essere il comportamento più razionale e prudente per il decisore politico? ln base a quali criteri di giudizio dovrebbe esso prendere le proprie risoluzioni? Quali sono gli strumenti di conoscenza di cui dispone?

Sono qui in gioco due aspetti: la conoscenza scientifica disponibile in un dato momento e il modo in cui essa può venire fruita dal decisore politico; la valutazione che viene da esso fatta della situazione complessiva, che comporta motivazioni politiche, questioni sociali e valori etici.

Per quanto riguarda il primo versante del suo intervento, il politico si è trovato (e continua a trovarsi) nella necessità di discriminare tra diverse opzioni terapeutiche e preventive sut coronavirus, avanzate dagli esperti i cui pareri non sono sempre univoci per i motivi prima accennati. Esso deve decidere quale di esse sia la migliore e di conseguenza essere in grado di giustificare di fronte alla pubblica opinione le scelte che assumerà, Diversamente stanno le cose per il secondo aspetto delle sue decisioni: qui entrano in gioco fattori che concernono la scala di valori (politici, sociali, etici) che si decide di adottare per assumere le diverse deliberazioni, valori che non sono suscettibili di una discriminazione di tipo scientifico, ma rispondono a complessive visioni del mondo (come ad es. il peso da assegnare alla libertà rispetto a quello della salute o il concetto di vita degna).

 

Per quanto riguarda il primo aspetto il decisore politico, di fronte a una situazione nella quale gli esperti non hanno una univoca opinione, non può certo assumere una decisione meramente politica, magari andando a scegliersi quell’esperto o scienziato che possa sostenere con la propria autorevolezza i pregiudizi o le convinzioni autonomamente nutriti in base alle proprie opzioni ideologiche di fondo (così come accade a coloro che, per negare il rapporto dello Intergovernmental Panel on Climate Change redatto da migliaia di scienziati, finiscono per privilegiare le poche decine di esperti di diverso avviso che fanno loro comodo). Il “decisore politico” che non vuole assumere decisioni irresponsabili (o farle giudicare per tali) e inoltre abbia l’urgenza di decidere in tempi ristretti, senza aspettare i tempi lunghi della ricerca scientifica, avrà una sola opzione: cercare le persone che nel campo interessato abbiano dimostrato e in qualche modo “certificato” di avere la maggiore competenza. E per far ciò di certo non è possibile bandire un concorso nazionale per trovare i “migliori”: non c’è il tempo (siamo in fase di emergenza) e il problema si riproporrebbe: chi sceglie i commissari che dovrebbero scegliere gli “eccellenti”?

L’unica soluzione ragionevole è allora vedere chi siano le persone che già occupano posti di responsabilità in primari enti di ricerca o di terapia che trattano simili problematiche e che siano possibilmente di natura pubblica, per evitare conflitti di interessi. Ciò sarà fatto anche tenendo conto ovviamente della tara derivante dalla circostanza, non improbabile, che qualcuno occupi quel posto per motivi estranei alla sua qualificazione (ad es., per essere di una certa parte politica): si affida, in sostanza, ai meccanismi selettivi “meritocratici” che hanno portato certe persone ad occupare determinati posti, specie nelle istituzioni scientifiche ed accademiche. Inoltre, consapevole della variabilità di opinione tra gli esperti, cercherà almeno di averne un numero adeguato in modo da evitare e/o limitare il caso del singolo incompetente “esperto per caso M e così seguire [‘opinione della maggioranza di loro, nella speranza che laddove c’è u n parere maggiormente condiviso ci sia una più elevata probabilità che si sia nel giusto, così come di solito si fa con i consulti medici: è questa la ratio che sta dietro la formazione degli spesso a sproposito criticati  Comitati Tecnico-Scientifici (o CTS). Ovviamente nulla garantisce che la maggioranza abbia ragione, ma di fronte alla necessità di una scelta che può comportare gravi conseguenze, il politico prudente cosa dovrebbe fare? Sarebbe da irresponsabili e politicamente ingiustificabile seguire l’idea di singoli ricercatori o di una loro sparuta minoranza: non siamo qui nella fase della ricerca scientifica, quando è giusto assicurare anche alle idee divergenti la possibilità di portare avanti le proprie concezioni, perché potrebbero alla lunga dimostrarsi giuste. Qui non c’è questo “alla lunga”: come diceva Keynes, “in the long run we are all dead”.

A quanto è suggerito dal suddetto CTS quale condotta più efficace per combattere il Covid – da cui il decisore politico non può prescindere e del cui avviso è vincolato a tener conto – si aggiunge e sovrappone il secondo aspetto prima evocato, cioè quel più vastoambito in cui si esercita la sua responsabilità e prudenza e che ne modifica le decisioni in base alle diverse scale di valori di volta in volta assunte, alle diverse visioni del mondo e persino alle sensibilità politiche che ne stanno alla base; a tutto ciò si associano anche i problemi, in effetti sollevati, sulla legittimità costituzionale e giuridica del comportamento messo in atto dai governi che hanno gestito la pandemia. Non a caso l’attuale presidente del Consiglio Mario Draghi ha parlato, in occasione della decisione di procedere tempo fa a delle limitate aperture rispetto alla più rigida disciplina sino ad allora adottata, di “rischio ragionato”. Questa espressione è stata fraintesa, ma alla luce di quanto detto essa deve essere interpretata intendendo la dimensione del “rischio” come ciò che è sempre presente nella valutazione scientifica che fa il CTS; il “ragionato” come ciò che fa riferimento ala politica e alle valutazioni di vario tipo ad essa intrinsecamente legate. Quindi non che si “calcoli” il rischio (cioè se ne dia una valutazione certa e quantificabile) ma che si è consapevoli dell’incognita e dell’azzardo e si decide di correrlo al fine di garantirelassicurare altri beni la cui realizzazione si ritiene – con una stima che non è possibile tradurre in algoritmi o di fondare in modo “scientifico”, seppure in modo approssimativo – di fondamentale importanza. Insomma, se “il gioco vale la candela”.

Se nel comportamento del decisore prima delineato risiede la sua “responsabilità” politica, può invece capitare che a volte si è più sensibili alle esigenze poste in campo dalla competizione tra le diverse formazioni politiche, sicché si finisce per scegliere una certa strategia solo perché con essa si contesta quella del partito avverso o del governo politicamente non gradito. Non s

 

è azzardato esprimere l’impressione che nella passata gestione del Covid ci si è trovati spesso in una situazione simile. E quando a contrapporsi sono soluzioni nettamente definite sulla base delle diverse coloriture politiche – per cui tutti quelli che stanno da una parte la pensano in un modo e quelli che stanno dalla parte contraria la pensano in altro modo -, allora è chiaro che non v’è qui né scienza né responsabilità, ma solo posizione di parte, faziosità pregiudiziale, ricerca di visibilità e tornaconto politico. Se infatti così non fosse, di fronte a una situazione complessa che pone diverse opzioni di scelta, queste ultime dovrebbero distribuirsi statisticamente, seguendo le diverse preferenze personali e i differenti criteri di giudizio, non addensarsi tutte intorno alle diverse posizioni partitiche che esistono sul campo, seguendo fedelmente le appartenenze politiche da ciascuno professate. Considerazioni, queste, che trovano conferma in ogni processo di decisione politica in cui si trovano ad essere contrapposti due punti di vista divergenti (di solito quelli di maggioranza ed opposizione) rispetto a ad esempio anche nel caso del riscaldamento globale e delle posizioni che si assumono verso i rapporti dell’Intergovernmentaf Panel on Climate Change.

3. Quali valori devono guidare la decisione politica?

Su quali siano i valori che debbono stare a monte delle decisioni politiche è possibile un ampio dibattito, dipendendo essi dalle opzioni generali che stanno a fondamento della visione della vita e delle varie sensibilità che fanno parte della società, per cui non è difficile che vi siano notevoli divergenze, diciamo, tra un commerciante e un comune cittadino, tra chi ha forti e radicate convinzione religiose e chi invece votrebbe innanzi tutto assicurato il proprio interesse materiale e il proprio tenore di vita, tra chi ritiene il PIL tanto importante da consentire un certo tasso di decessi (specie tra i più deboli e improduttivi) e chi ritiene ogni vita sacra, da difendere e salvaguardare ad ogni costo. Anche in questo caso il decisore politico è costretto a compiere decisioni difficili che è assai difficile riescano a contemperare le diverse alternative in campo. Ma anche in questo caso egli deve essere responsabilmente in grado di tener conto del sentimento dominante nella propria comunità di riferimento.

Tale discorso ha assunto nel nostro paese una sua concretezza infuocata quando sono scesi in campo non più esagitati novax, derubricati nella loro rilevanza con l’accusa di ignoranza e indigenza scientifica, ma fior di intellettuali a cui certo non mancava la cultura e capacità riflessiva per esprimere una valutazione non tanto in merito alle questioni medico• epidemiologiche (cioè alla “scienza”), bensì alle implicazioni valoriali implicite nelle scelte assunte dal legislatore. È infatti su questo aspetto che può avvenire il reale confronto tra posizioni, non certo nella valutazione circa una certa misura profilattica o nella interpretazione di statistiche e risuItati delle diverse terapie, con giornalisti e intellettuali trasformatisi di volta in volta in virologi, statistici, infettivologi ed esperti di epistemolog ia della scienza.

Un caso vorrei portare ad esempio, che a me pare particolarmente significativo per la caratura dei personaggi coinvolti: le posizioni assunte dall’eminente filosofo Giorgio Agamben, poi seguite anche da Massimo Cacciari, con le quali si è stigmatizzata la C.d. “dittatura sanitaria”, caratterizzata dal dominio di una visione impoverita e meccanicistica della vita, dalla riduzione e liquidazione della dimensione affettiva insita nei rapporti sociali, dall’annichilimento della ricchezza dei rapporti personali, con le conseguenze psicologiche derivanti dalla necessità di adottare sistemi di comunicazione e interazione artificiosi, come avviene con la didattica a distanza in scuole e università e in altri consessi in cui il contatto in presenza è fondamentale per stabilire la solidarietà e la fratellanza tra individui, come appunto avviene all’interno defl’lstituzione massonica.

Al netto delle sfumature complottistiche che posizioni simili possono assumere, mi sembra rilevante ai nostri fini la tesi che ha visto nella gestione della pandemia un attacco alle libertà individuali e una riduzione della dimensione complessiva umana alla “nuda vita”. Agamben in una sua importante intervista ha sostenuto che «la gente ha accettato non soltanto di rinunciare alle proprie libertà costituzionali, alte relazioni sociali e alle proprie convinzioni politiche e religiose» ma ha accettato di ridurre l’esistenza umana «a un dato biologico, a una nuda vita che occorre salvare a qualsiasi costo J. Quel che è avvenuto è che, attraverso un processo di medicalizzazione crescente della vita, l’unità dell’esperienza vitale di ogni individuo, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, si è scissa in un’entità puramente biologica da una parte e in un’esistenza sociale, culturale e affettiva dall’altra»3. Potrebbe essere sufficiente quanto citato, avvertendo però che vi sono molti altri in sintonia con quanto espresso da Agamben e che – assumendo una prospettiva universalista e olistica” – denunziano l’avvenuta pratica negazione della “complessità dell’esistenza umana”, per cui «L’esistenza viene per lo più ricondotta e ridotta alla sua dimensione soltanto individuale, alla salute illusoria del singolo corpo, che non tiene conto del fatto che l’essere umano vive di una intrinseca socialità, fatta di incontri, comunicazione, trasmissione, insegnamento, apprendimento attuati dal corpotempo che vive, agisce, comunica nello spaziotempo condiviso e reale».

È questa una prospettiva sulla vita e sull’uomo che ha uno spessore e una dignità filosofica che non si possono di certo sottovalutare e sulla quale è difficile trovarsi in disaccordo da parte di chi – come i massoni – ritiene tale dimensione olistica dell’uomo l’aspetto più significativo dell’esistenza, quello che

la rende degna di essere vissuta. Ma il punto – a mio avviso non sta tanto nel condividere o meno tale impostazione e di assumerla a propria prospettiva esistenziale; non si tratta di operare, insomma, una opzione filosofica per una certa visione del mondo e, di conseguenza, comportarsi in coerenza con essa, seguendo magari un certo itinerario di perfezionamento spirituale quale quello effettuato all’interno della massoneria. Qui abbiamo soprattutto a che fare con una dimensione pubblica e non con la scelta individuale di un singolo o di pochi il cui comportamento non incide sulla vita altrui e che pertanto sono liberi di praticare le forme di ascetismo o lo stile di vita che preferiscono. E, ancor più, siamo in presenza della necessità che il decisore politico assuma una linea di azione che non può essere motivata dalle visioni filosoficoantropologiche di alcuni intellettuali o di una settore limitato della società, per quanto siano alti i valori da essi professati, ma deve contemperare le esigenze, i timori, le aspettative di una popolazione variegata e con visioni delta vita contrastanti e spesso inconciliabili.

 l decisore politico non può certo ignorare che la gran parte della gente è attaccata proprio alla “nuda vita” e vuole soprattutto, e in modo ossessivo, salvare la propria incolumità e quella dei propri cari; a queste persone non può certo dirsi che così facendo “riducono” la vita a pura materialità biologica e che, per salvaguardare quella dimensione olistica che giustamente si rivendica all’esistenza umana, è meglio non prendere alcuna cautela di carattere sanitario, lasciando che ciascuno faccia secondo quanto gli detta la coscienza. Questo non è possibile perché ci sono moltissime persone – direi la maggior parte – che tengono innanzi tutto al proprio benessere inteso in modo “riduzionistico”, come un semplice “mantenersi in vita”. E queste persone hanno tutto il diritto a non sentirsi minacciate in questo loro sentimento, in questa loro preoccupazione puramente sanitaria, da chi invece di essa non si cura perché intende la vita in modo più completo e olistico. Questo diritto deve essere rispettato e garantito al pari di quello di chi vorrebbe vivere a modo suo, perché – come ben sa ogni buon liberale e ogni massone – la libertà di ciascuno trova il proprio limite nella libertà altrui, così come avviene in tanti altri micro-settori della nostra vita quotidiana, in cui – ad es. – la nostra libertà di sentire musica ad alto volume è limitata (anche per legge o per regolamento condominiale) dalla libertà altrui di riposare in pace o di coltivare il silenzio. Chi ha funzioni amministrative o legislative deve contemperare queste diverse esigenze: l’elevazione spirituale che può derivare dall’ascoltare musica e quella terra terra di chi vuole solo stare in pace e dormire. Non può essere sensibile solo a una delle due: non “terrorismo o dittatura sanitaria”, dunque, ma rispetto per le sensibilità diverse sia da parte del legislatore sia da parte del singolo cittadino.

È all’interno di questi limiti e discrimini che si deve muovere il potere politico, cercando di garantire quella condizione minimale – la garanzia della “nuda vita” – che può mettere d’accordo la maggior parte delle persone. Fare altrimenti optando per una certa condotta volta ad assicurare valori ritenuti più elevati e di pregio verrebbe a configurare una vera e propria “dittatura morale” ancor più pericolosa di quella “sanitaria”, un vero e proprio “stato etico” che nella storia, quando Io si è cercato di realizzare sulla base di certi principi religiosi, si è trasformato in una pesante cappa per la libertà degli individui. Con ciò non si vuole negare il diritto e anche l’opportunità di un dibattito pubblico su certi aspetti della vita associata e sul valore della vita, ma solo mettere in guardia dal giudicare su tale base le politiche concrete assunte dal decisore politico o – peggio ancora – voler fare di certe opzioni etiche o religiose il fondamento della legislazione in una società pluralista e articolata. Come la storia ci testimonia, è questa la base che in passato ha segnato secoli oscuri per intolleranza, persecuzioni e guerre religiose.

Sta in ciò la difficile arte della convivenza sociale, che non ci permette di essere arbitri della nostra vita come se fossimo su un’isola deserta, senza interazioni col resto dell’umanità, ma ci rende intessuti in un fitto intreccio di relazioni sociali e pertanto ci impone di rispettare le esigenze e le sensibilità altrui, senza sovrapporre ad esse le nostre opzioni filosofiche di fondo. ln fondo anche questo è un modo di esercitare nel concreto quelle libertà, tolleranza ed eguaglianza che stanno infisse nella volta di ogni nostro tempio.

TRATTO DA “HIRAM” N. 1 2022

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