ASSOCIAZIONE CULTURALE PEDEMONTANA

Associazione Culturale Pedemontana

Un giovanotto bene, figlio di una di quelle famiglie secolarizzate, laiche, progressiste, moderne, dopo la laurea in logica e dialettica socratica, vuole darsi un’infarinatura di cose esoteriche entrando a far parte dell’Associazione Culturale Pedemontana.

Si sa… fa così chic!

Si reca dunque dal presidente e gli dice: “Esimio vorrei entrare a far parte dell’Associazione ed arrotondare così la mia cultura con un po’ di esoterismo. Mi darebbe qualche lezioncina?”

“Capisco giovanotto”, risponde il presidente, “ma tu lo hai letto qualcosa delle scuole iniziatiche? Anche il Guénon, ad esempio?”

“Andiamo presidente! Io sono laureato in Logica e Dialettica socratica! Non so se mi spiego!”

“D’accordo figliolo questa è un bella cosa, ma hai mai sentito parlare dei muratori?”

“Presidente, lei mi sta facendo solo perdere tempo. Mi faccia un test! Mi metta alla prova per vedere se sono all ‘altezza!” “Come vuoi figliolo”.

Il presidente alza di scatto due dita proprio davanti agli occhi del baldanzoso giovane e…”Attento giovanotto. Due uomini scendono dallo stesso camino: uno ha la faccia sporca e l’altro ha la faccia pulita, chi si lava la faccia?”

“Hahaha! Ma presidente, questa è una domanda per bambini deficienti! È evidente! Quello con la faccia sporca”.

“Sbagliato figliolo. Quando quello con la faccia sporca vede che l’altro ha la faccia pulita, pensa di avere la faccia pulita e non si lava la faccia. Quello con la faccia pulita vede che l’altro ha la faccia sporca, pensa di avere la faccia sporca e quindi si lava la faccia”.

“Ah!… Certo presidente! Come ho potuto cadere in una trappola cosi banale. La prego, mi sottoponga ad un altro test per favore comincio a capire… molto, molto

“Va bene figliolo, come tu vuoi, non c’è problema! Attento!”

Di nuovo il presidente fa scattare le due dita in alto: “Due uomini scendono dallo stesso camino: uno ha la faccia sporca e l’altro ha la faccia pulita, chi si lava la faccia?”

“Presidente, non sono mica scemo, lo abbiamo già detto. Quello con la faccia pulita”.

“Sbagliato figliolo. Quello con la faccia sporca, vedendo che l’altro ha la faccia pulita, pensa di avere la faccia pulita e non si lava. Quello con la faccia pulita vedendo l’altro con la faccia sporca, pensa di avere la faccia sporca e si lava la faccia. Ma… quando quello con la faccia sporca vede che quello con la faccia pulita si lava la faccia, pensa di doversi anche lui lavare la faccia. Quindi tutti e due… si lavano la faccia”.

“Ah! mmm… certo… il ribaltamento dialettico… molto arguto… Vede presidente, sono un po’ sconcertato… La prego, mi faccia un’altra domanda”.

ventaglio d’oro.

E il sole era con i raggi caldissimi, e ardeva la terra, tanto che l’erba diventava secca.

E il re si lamentava perché il sole gli bruciava il viso, e perché aveva più potere di lui. E non era contento.

Languiva, e diceva: “mi piacerebbe essere il sole”.

Venne un angelo dal cielo, che gli disse: “sia fatto come tu ha detto”. E lui era il sole. E spandeva i suoi raggi sopra e sotto, a destra e a sinistra, e dappertutto. E ardeva l’erba sulla terra e il viso dei re che erano sulla terra.

E una nuvola si mise tra la terra e lui, e i raggi del sole furono riflessi.

Si arrabbiava tanto perché il suo potere gli veniva tolto, e si lamentava che la nuvola fosse più potente di lui. E non era contento. Avrebbe volute essere la nuvola, che era tanto potente.

Venne un angelo dal cielo, che gli disse: “sia fatto come tu ha detto”.

Ed era una nuvola che si mise tra il sole e la terra riflettendo i suoi raggi, in modo che l’erba divenne verde. E dalla nuvola sulla terra cadevano grandi gocce di pioggia che faceva crescere i fiumi. Le inondazioni portavano via i greggi, e i campi erano rovinati dalla troppa acqua.

E cadeva giù sulla roccia, che non cedeva. E scrosciava a fiotti, forte forte, ma la roccia non cedeva.

Si arrabbiava perché la roccia non voleva cedere e perché la violenza dei sui flussi era vana. E non era contento.

Diceva: “alla roccia è dato più potere di me. Vorrei essere la roccia”.

Venne un angelo dal cielo, che gli disse: “sia fatto come tu ha detto”.

Ed era ta roccia, e non si muoveva ne quando brillava il sole né quando pioveva.

E veniva un uomo con uno scalpello aguzzo e un mazzuolo pesante che, dalla roccia, ricavava delle pietre.

E la roccia diceva: “che cosa è che quest’uomo ha più potere di me, e taglia le pietre dal mio grembo?”

E non era contento. Diceva: “sono più debole di quello, vorrei essere quest’uomo”.

Venne un angelo dal cielo, che gli disse: “sia fatto come tu ha detto”.

E lui era il tagliapietre. E tagliava le pietre dalla roccia, con lavoro pesante, e lavorava duro per pochi soldi, ed era contento.

Un sogno

Sono comodamente seduto in una comoda poltrona.

In un silenzio da apprendista chiudo gli occhi.

Entro virtualmente in una stanza senza pareti. Mi appare un tavolo da disegno sul quale, come in un fotomontaggio animato, si materializzano, in ordine sparso, dei simboli.

Vedo il sale, il mercurio, lo zolfo, una squadra un compasso e tanti altri.

All’improvviso la tavola da disegno si trasforma in una tavola da pranzo. I simboli fanno adesso da corona ad una bellissima ceramica di Faenza, grande, con colori accattivanti ed ad un piccolo flûte di cristallo purissimo che riesce a vibrare anche solo quando lo guardo.

Nella ceramica c’è il mio ego, nel flûte il mio sé.

Una parete con uno schermo si materializza di fronte al desco. Vedo scorrere a ripetizione delle frasi che le mie orecchie avevano già sentito :

chi sono, da dove vengo, dove vado?

conosci te stesso!

ama il prossimo tuo come te stesso!

Lo sguardo scende dalla parete al tavolo e l’occhio scorre su quello che c’è sopra.

Sono belli i simboli, sono accattivanti, mi viene voglia di perdermi dentro in una meravigliosa quanto, qualche volta, inutile ricerca dialettica. Vuol dire questo, no .. quello. Io lo vedo così, un altro lo vede in una maniera differente.

E il simbolo, perfettamente indifferente a me, rimane lì a guardarmi con un’aria di commiserazione mista a tristezza perché sa che il giorno in cui io lo capissi, lui, in quel momento, diverrebbe perfettamente inutile.

Poi c’è la bellissima ceramica di Faenza. Il mio ego, compresso e straboccante è lì, in bella vista, ed io mi ci affondo dentro, mi ci sguazzo come se fosse una piscina di acqua stagnante, me lo spalmo addosso come se fosse una vernice opaca assolutamente impermeabile alla luce.

Non ho voglia di vedere altro che lui. Quasi tutto quello che faccio, lo faccio in nome e sotto gli auspici suoi, anche quando non me ne accorgo.

È il regno dell’io, del mio, del mi.

Mi piace, mi da fastidio, sono orgoglioso di quello che faccio, anche quello che sembra un bene, mi piaccio nel compiacimento di me stesso, delle mie abitudini, del mio orgoglio e di ciò che è più subdolo, e cioè dell’attaccamento ai metalli.

Anche la carne, anche i desideri, anche gli affetti, sono metalli, sono piombo e non oro. Poi guardo meglio e vedo che, sovente, anche quello che credo oro è un metallo. Dice un saggio proverbio “non è tutto oro quel che luccica”.

Mi sento offeso se sono ignorato, mi sento lusingato se sono lodato. Vedo tutto in chiave personale, egoica, come se fossi il centro dell’universo, senza sapere, solo perché non ne ho la consapevolezza, che in realtà sono il centro dell ‘universo.

La soluzione del problema sarebbe, molto semplicemente, una lettura in chiave del sé e non dell’io.

Non ho mai provato, quando mi guardo allo specchio, di andare al di la di quello che guardo, perché mi sono sempre compiaciuto o dispiaciuto solo di quello che lo specchio rifletteva. Non ho mai avuto il coraggio di guardare dentro, oltre.

Molti sono i chiamati, pochi gli eletti e quei pochi sono quelli a cui non importa nulla di essere chiamati, perché avendo la consapevolezza di arrivare, non hanno il bisogno di scegliere sul “dove andare”. Il “da dove vengo” equivale al “dove andare”.

Andare, andare, andare. Cercare sempre altrove quello che con estrema facilità potrei trovare dentro di me, nel mio sé, senza muovermi. Cerco purtroppo sempre la strada più difficile nella convinzione che questi mi porti, più facilmente, al punto di partenza.

Beati quelli che crederanno e non hanno visto. Non c’è bisogno di andare. La

Divinità è dentro di me Basta che io chiuda gli occhi al mondo e il divino mi appare.

Il mondo è l’ego, la divinità il sé. Riuscire a capire questo vuol dire fare sacrificio che, secondo l’accezione originale del termine, non vuol dire rinuncia, sofferenza, ma molto più semplicemente fare qualcosa di sacro.

Sacrificare significa dare un significato sacro a tutte le meravigliose, apparentemente inutili banalità della vita. Non è vivere il giorno da leoni. ma fare sacri i 100 giorni da pecora.

Non posso amare me stesso se non ho visto il sé che è dentro di me. Non posso non amare gli altri se non ho visto in loro il mio stesso sé.

Quando privilegio il bisogno di un altro rispetto al mio, ho fatto un sacrificio, ho fatto un gesto di amore verso quest’altro.

Smetto di pensare. Sulla parete dinanzi a me la virtuale maschera informatica si è modificata e mi sono apparse alla vista delle parole dette da Alessio un giovane brillante nel fiore degli armi che un incidente di macchina ha costretto alla carrozzella:

Non sono un corpo che ha un’anima. Sono un’anima che ha un corpo.

Apro gli occhi. Tutto si è dissolto. Intorno a me non ci sono più pareti. Solo uno specchio di fronte.

Guardo e vede il mio corpo con dentro l’anima.

Fratelli come è lungo il percorso.

E. Scld, 27 maggio 1999 dell

Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *